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parigi 503


— Dobbiamo fermarci per la dogana?

Non, Monsieur — risponde — c’est pour la cinématographie!

E ci indica sorridendo un fotografo che fa funzionare un apparecchio cinematografico, e che, al contrario dei suoi colleghi di Berlino, ci grida:

— In grazia, muovetevi, vi prego: Di più! Muovetevi molto! Ancora! Il me faut du mouvement! Merci!

Noi non vogliamo scontentarlo; ci giriamo a destra, a sinistra, snodiamo il collo, ci agitiamo come orsi in gabbia, finchè il fotografo, avuto tutto il mouvement di cui aveva bisogno, ci lascia andare. Ed arriviamo al principale albergo, che ha il nome di Bella Sirena.

Parigi è lontana 45 chilometri.


Non abbiamo avuto un quieto sonno a Meaux. Alla mattina presto siamo scesi al garage, quasi avessimo dovuto partire e riprendere la marcia senza fine verso una mèta irraggiungibile, favolosa. Abbiamo fatto l’abitudine alla continua corsa, e all’ora della partenza balziamo instintivamente dai nostri letti. Correre sempre è divenuta la ragione della nostra vita: correre sempre, come dei moderni ebrei erranti, condannati ad un perpetuo e veloce viaggio.

No, non abbiamo avuto un quieto sonno nell’ultima notte del nostro pellegrinaggio attraverso due continenti. Dormivamo meglio, più profondamente e più dolcemente, sui kangs dall’odore fetido, sull’erba fresca delle praterie, sui tavolati delle piccole isbe siberiane, ravvolti in pelli di capra, con la macchina fotografica per cuscino, che non nel soffice letto dell’albergo di Meaux, lontani quarantacinque chilometri da Parigi.

È appunto la vicinanza di Parigi che ci turba. Ci sembra di sentirla, Parigi. Ci sembra di udire nella notte il palpito possente della sua vita giungere fino a noi. Più volte mi sono alzato per andare alla finestra a guardare dalla sua parte, ripetendomi: “Pa-