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500 | capitolo xxiii. |
Mentre attraversiamo un bosco, da dietro agli alberi balza fuori un doganiere che c’impone di fermarci, mentre un suo collega si mostra più lontano, brandendo un fucile, pronto a fermarci, occorrendo, con argomenti persuasivi. Altro controllo ai documenti e rivista alla macchina. Persuasi che non introduciamo nella Repubblica alcuna merce di contrabbando, i due solerti agenti ci lasciano partire.
Scorgiamo a mezzogiorno Rethel, i cui lucidi tetti di ardesia, mezzo nascosti fra vecchi olmi, hanno al sole riflessi d’acciaio. Passiamo oltre, scendendo verso il piano della Marna, giallo di messi mature. Alle dodici e mezza entriamo a Reims. Reims! su quante etichette di bottiglie non abbiamo letto questo nome? Pensiamo a tutti i brindisi che abbiamo fatto negli ultimi giorni, levando bicchieri colmi di vino che reclamava invariabilmente la cittadinanza (onoraria almeno) di Reims. Ci arriva un odor di vivande, e nelle strade minori, dalle finestre basse aperte esce un tintinnare di posate in azione e un acciottolio di piatti: è l’ora del pranzo in questa quieta cittadina provinciale. Decidiamo di fermarci a mangiare anche noi.
Sulla via principale, della gente ci rincorre e ci saluta: dei bottegai escono sulla soglia dei loro negozi. Un tramviere, mentre passiamo, si sporge dalla piattaforma della sua vettura e grida a Borghese, familiarmente:
— Ça c’est bien, mon petit!
I passeggeri del tram applaudono.
Sbocchiamo ai piedi della meravigliosa cattedrale; abbiamo appena il tempo di ammirarne la mole marmorea con uno sguardo estasiato, che subito la luminosa visione d’arte si estingue, e ci troviamo in un cortile d’albergo “con garage„. Il cortile si affolla: gli ospiti dell’albergo si precipitano; un vecchio signore dall’aria d’artista sequestra per qualche minuto Borghese e gli dice delle solenni parole; un americano ci raggiunge per offrirci dello champagne mentre stiamo lavandoci, e tutti insaponati e gocciolare dobbiamo brindare. Egli ci fa i suoi rallegramenti e i suoi au-