La metà del mondo vista da un'automobile/XXII
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CAPITOLO XXII.
AVVICINANDO LA MÈTA
Dall’alto del vecchio campanile di Preussen Stargard l’orologio suonava le sei, il 5 Agosto, quando montammo in macchina sulla piazza principale, deserta a quell’ora.
Era tardi: da Mosca non avevamo più riposato fino a simili ore signorili del mattino; ma la bontà della strada ci permetteva di attardarci un po’ nel letto, sicuri di giungere rapidamente alla tappa fissata. Quella sera dovevamo trovarci a Landsberg, 130 chilometri da Berlino: tutto un programma era stabilito su queste condizioni. L’indomani alle nove saremmo dovuti giungere a Küstrin, ove molte automobili del Club imperiale ci avrebbero aspettato per accompagnarci a Berlino; avremmo fatto il nostro ingresso nella città a mezzogiorno preciso; all’una, colazione alla sede dell’Automobile Club Imperiale, ecc.
Invece ci trovammo a Berlino quel giorno stesso: avevamo corso troppo! Farsi aspettare molto dagli ospiti è male, ma arrivare prima è peggio. Bisognò rimediare alla nostra grave mancanza che scombussolava tutto il piano dei ricevimenti: ci considerammo perciò come non giunti in quella capitale della puntualità. Ufficialmente eravamo ancora in viaggio per Berlino, e il programma di banchetti rimaneva intatto per l’indomani. Soltanto, il solenne ingresso era irrimediabilmente raté.
Il viaggio da Preussen Stargard era stato delizioso, sotto un cielo smagliante, sereno, che da molto tempo non vedevamo così puro. Eravamo stati perseguitati dalla pioggia quasi per sei settimane. E quella fu anche la prima giornata, da quando avevamo lasciato la Mongolia, nella quale pur nelle prime ore del mattino non soffrimmo il freddo. Scendendo velocemente verso il sud ci sentivamo immergere nei tepori dell’estate. Quale sensazione nuova e gradita era in quel ritorno in un’atmosfera nostrana!: una dolcezza di rimpatrio. Con grande gioia avevamo deposto le pellicce fra i bagagli.
Dalle sei alle undici corremmo ininterrottamente a sessanta chilometri all’ora, godendoci l’infinita poesia di quelle campagne coperte di messi e di fiori, cosparse di boschetti fra i quali spuntavano tetti acuminati e rossi di villaggi avvolti dall’ombra e dalla quiete.
Quante cittadine abbiamo attraversate non so più: continuava per noi la fantastica confusione di cose appena vedute e scomparse, d’immagini passate come un baleno avanti ai nostri occhi nella fuga vertiginosa che faceva ronzare il vento alle nostre orecchie.
Filari d’alberi si rincorrevano ai fianchi della strada, spesso carichi di frutta. E la strada s’ingolfava talvolta nel folto di foreste che ci rammentavano la taiga. Erano pinete che tramandavano, scaldate dal sole, il loro profumo d’incenso. Rientravamo allora per poco tempo nella natura selvaggia. Qualche daino snello attraversava, balzando, la strada, come ne avevamo visti nei boschi degli Urali. Ma dopo pochi minuti l’ombra si squarcia, e la foresta sparisce lontano. Lo sguardo nostro spazia sui campi soleggiati dove mietono contadini dai cappelli adorni di lunghi nastri in segno di festa. È la festa pagana del raccolto. Passano enormi carri colmi di covoni di fieno, sui quali sobbalzano liete comitive sollevanti le falci scintillanti.
Passiamo Czersk, Konitz, Flatow, villaggi che sembrano piccole città. Ecco una grande differenza colla Russia, dove quasi tutte le città sembrano grandi villaggi. Passiamo per Deutsche-Krone, arriviamo alle undici a Landsberg; e tutte e due hanno già una piccola aria berlinese. Mentre percorriamo lentamente la via principale, una voce chiama Borghese affannosamente.
Qualcuno corre dietro all’automobile. Il Principe riconosce nell’inseguitore uno dei dirigenti della fabbrica Itala. Trafelato, senza cappello, commosso, con gli occhi rossi, ci saluta espansivamente. Lo segue un biondo collega del Lokal Anzeiger, anche lui a capo scoperto. Essi, in automobile, avevano passato la notte a cercarci da città a città; erano risaliti fino a Dirschau domandando inutilmente di noi. E per due volte essi erano passati sotto le finestre del piccolo albergo di Stargard, dove dormivamo saporitamente in incognito. Credevano a qualche spaventosa catastrofe, ci supponevano annichiliti, noi con l’automobile, quando dall’interno di una birreria ci avevano visto improvvisamente passare.
Immediatamente la notizia della nostra presenza si sparge tra la folla, che si assiepa. “Sono i Cinesi! — gridano — sono i Cinesi!„ Compaiono come per incanto corrispondenti di giornali e fotografi. I trams si fermano e i passeggeri ci ammirano stupiti dai finestrini; i conduttori dimenticano il servizio e si affacciano dalla piattaforma; accorrono guardie a mantenere l’ordine. Noi, coperti di polvere, coi nostri orribili occhiali automobilistici (inaugurati a Pietroburgo) che ci fanno somigliare a ranocchi, ci troviamo così poco degni di ammirazione che ci rifugiamo nella birreria in cerca di birra e di tranquillità.
Decidiamo di partire per Berlino: e all’una corriamo nuovamente in aperta campagna. Qualche ora dopo incontriamo tre automobili imbandierate: sono altrettante Itala berlinesi, piene di colleghi in automobilismo e in giornalismo. Fra questi ultimi i corrispondenti dei principali giornali italiani. Il telegrafo, mentre ignari sorbivamo dei gran bicchieri di birra fresca a Landsberg, aveva propalato ai giornali di Berlino la notizia del nostro arrivo, e ci erano venuti incontro. Degli evviva, dei saluti, delle strette di mano; poi in carovana riprendiamo il cammino.
Sostiamo in un borgo, a Münchberg, dove ci ricordiamo di non aver fatto colazione, e in un piccolo restaurant, sotto a un pergolato, divoriamo delle salsicce di Francoforte, beviamo della gelida birra, e affrontiamo le interviste, mentre una corona di macchine fotografiche tutto intorno si compiace di registrare le nostre fisionomie. Un disegnatore ci ritrae da tutti i punti di vista. Non possiamo muoverci senza irritare qualche fotografo: chi ci prega di mostrare il profilo, chi ci prega di guardare l’obbiettivo. Vogliamo andarcene. No, non possiamo. Delle voci ci comandano: “Fermi un momento! Ancora! Così!„. La popolarità è greve. Aveva dei lati buoni il deserto di Gobi!
Finalmente esaurite le lastre e le pellicole, ci permettono libertà completa. Riprendiamo posto sulle automobili, che si mettono in moto. Corriamo verso Berlino, in mezzo ad una fitta nube di polvere, non scorgendo più nulla avanti e dietro di noi, andando come nelle mattinate di nebbia siberiana, quando la strada si perdeva pochi passi lontano in un mistero grigio.
Chi ci vede passare non riconoscerà certamente nelle magnifiche automobili che ci precedono le sorelle della nostra, uscite dalla stessa officina, stavo per dire dalla stessa famiglia. Fra quelle sorelle la nostra è la “Cenerentola„.
Abbiamo spiegato a poppa la bandiera che negli ultimi giorni tenevamo avvolta all’asta per conservarla meglio. È ancora la bandiera marinaresca, di lana, che ci venne data dall’equipaggio italiano di guarnigione a Pechino. Era così fresca laggiù! I suoi colori si accendevano al sole. Ora è sdrucita, sbiadita, sporca, irriconoscibile: ha lasciato trame in tutti i venti e colori in tutte le pioggie. E pure ci è sommamente cara: a sentirla vibrare vicino, palpitare nell’aria, ci dà l’impressione di sentire una voce amica.
Attraversiamo alle quattro la grande cerchia di opifici dalle alte ciminiere fumanti che circondano Berlino, simili, da lontano, ad una gigantesca flotta in partenza. Infine, passati dei giardini e dei parchi, eccoci in una grande via fiancheggiata al principio da case piccole, quasi timide: la Berlinerstrasse. Imbocchiamo un ampio boulevard, la Frankfurter-Allèe: gli edifici si fanno maestosi, la strada si riempie d’un traffico sempre più attivo, che avanzando diviene febbrile. Siamo nella Königstrasse, nel centro di Berlino.
Molta gente indovina dalla stranezza della nostra automobile che veniamo da Pechino. Qualcuno ci saluta. Passiamo sotto la ferrovia elevata, lungo la quale strepitano i treni. Attraversiamo la Berlino monumentale: ecco il palazzo di giustizia, ecco il Castello imperiale. Imbocchiamo il famoso Viale dei Tigli, superbo, animato, aristocratico. Una moltitudine attende davanti al Bristol Hôtel; al di sopra di essa rilucono gli elmi chiodati delle guardie che fanno cordone. Borghese, appena discende, è salutato, circondato, pressato, seguito dalla calca che penetra nell’Hôtel con noi, che invade l’atrio, i saloni, gli uffici, finchè non riusciamo a raggiungere l’ascensore che ci porta nella desiderata solitudine della nostra camera.
I banchetti hanno luogo secondo il programma. A mezzogiorno del 6 Agosto, nella sua superba sede, l’Automobile Club Imperiale c’intrattiene ad una sontuosa colazione, che ha tutta la solennità di una consacrazione ufficiale. Alla sera una meno austera riunione di connazionali ci festeggia nella più simpatica cordialità con un pranzo. Fra le due, diciamo così, cerimonie, abbiamo un rinfresco (perchè mai si chiamano rinfreschi? la nostra lingua ha alle volte delle espressioni piene d’ingenua ironia) offertoci dai colleghi giornalisti francesi venuti ad incontrarci da Parigi. L’ospitalità e il reportage parigini si sono spinti fin qua, e in automobile. Il più autorevole di questi confratelli parigini è certamente il rappresentante del Matin, Des Houx, il quale alle sue brillanti qualità di scrittore accoppiò recentemente un’attività religiosa tentando la creazione di una Chiesa di Francia, della quale egli fu per qualche giorno pontefice massimo. Egli naturalmente è il direttore, aggiungerei quasi il direttore spirituale, della fraterna scorta giornalistica.
La nostra automobile intanto assapora un’anticipazione della gloria. Coronata di fiori e d’alloro, essa si mostra nella grande vetrina della Società Itala sul Viale dei Tigli. La folla fa ressa per vederla; la porta del negozio è stata chiusa per evitare un’invasione; i poliziotti devono ogni tanto far sgombrare la strada e ristabilire la circolazione. Noi siamo sorpresi di trovare là la nostra «bestia»; la sua superbia insospettata ci addolora e c’indigna. Essa si fa della réclame!
Alla mattina del 7 agosto prima che lo chasseur dell’Hôtel Bristol bussasse alle nostre porte per annunciarci l’ora della partenza, eravamo stati svegliati dallo scrosciar della pioggia sui vetri delle finestre. Avevamo preveduto un’altra lunga e triste giornata di corsa sotto l’acqua; ma invece il tempo, con gentilezza insolita, aveva voluto soltanto inaffiarci la strada per togliere la polvere.
Al momento in cui montiamo in macchina, appaiono squarci di sereno nel cielo. L’asfalto dell’ampio Viale dei Tigli, bagnato, rispecchia questa serenità di buon augurio. Vicino alla nostra automobile aspettano delle automobili del Club Imperiale, per scortarci fino a Potsdam, altre automobili private venute per assistere alla partenza, e molte automobili pubbliche, noleggiate da curiosi. Insomma vi è ampiamente rappresentato tutto l’automobilismo di lusso e quello da lavoro, l’aristocrazia e la democrazia del motore.
Alle cinque sopraggiungono i rappresentanti dei giornali francesi. Montano tre Itala fiancheggiate da iscrizioni cubitali «Pekin-Matin», che è la formula nella quale l’abile giornale trasformò all’ultimo momento la «Pechino-Parigi». Tutto è pronto. Le macchine si mettono in moto.
Scoppia un evviva caloroso. Una discreta folla si era adunata intorno a noi, in gran parte d’italiani. Varie signore avevano avuto il coraggio di levarsi all’alba; numerosi gentiluomini invece non si erano ancora coricati, e venivano dai clubs in evening-dress. “Evviva! Buona fortuna!„. Le grida si ripetono. Stringiamo una quantità di mani tese che cercano le nostre, cappelli e fazzoletti si agitano, mentre il corteggio delle automobili si allontana veloce per il viale deserto sul quale gli alberi militarmente allineati gettano penombre verdi.
Ogni tanto le vetture, forzando il motore, escono dal seguito e ci vengono fianco a fianco a ripeterci il saluto e gli auguri e a lanciarci dei fiori. Noi non protestiamo più, accettiamo gli omaggi. Non siamo più nemmeno sorpresi, come a Mosca, come quando udimmo i primi applausi. Ammettiamo la popolarità come un fenomeno impreveduto, come un inatteso ed esorbitante compenso alle passate solitudini; ma ci commove profondamente quest’atmosfera di simpatia che ci circonda; la benevolenza paterna della folla, anche immeritata, ci arriva all’anima; ascoltiamo con riconoscenza infinita questa voce continua e grave che ci dice: “Ben tornati!„.
Il gruppo disordinato delle automobili, sulle quali sventolano bandiere tedesche e italiane, attraversa l’Arco di trionfo e s’inoltra nel celebre Viale Vittoria, ove fra il verde rigoglioso del Tiergarten biancheggiano le statue dei grandi uomini tedeschi allineati quasi per una fantastica rivista. E ci troviamo dopo pochi minuti per le strade ancora silenziose dei quartieri eccentrici. Le automobili le destano col suono continuo e discorde di tutte le trombe e le cornette: una barbara fanfara che dà l’idea d’uno stravagante moderno hallali.
Presto spariscono al nostro sguardo le cupole e i pinnacoli; entriamo in una regione di ville e giardini. Berlino, con i suoi gravi splendori, è ormai lontana, divenuta anch’essa un fuggevole, simpatico ricordo di questa corsa, come Pietroburgo, come Mosca. Non abbiamo più altre capitali davanti a noi fuori che Parigi.
A Parigi dunque!
Borghese accentua la velocità. Non tutti possono seguirci. Gli ultimi saluti si estinguono lontano. Chi non ha la forza di raggiungerci ci manda il suo grido. Rimaniamo con le vetture dell’Automobile Club che ci precedono, e con quelle dei colleghi francesi che ci seguono: sette grandi automobili che si rincorrono a sessanta chilometri all’ora.
Alle cinque e mezza attraversiamo Potsdam, dalle case basse, bianche, ovattate di boschetti verdi —- come per mantenervi meglio il silenzio che si conviene ad un borgo imperiale — circondato da malinconici laghetti e canali, sulle cui acque chiare oscillano piccoli, candidi yackts. Siamo in una campagna aristocratica che ripudia le coltivazioni.
Ma presto la visione si trasforma. Ci troviamo nuovamente in mezzo alla ricchezza dei campi. Diciamo addio agli ospitali amici del Club Imperiale, che dànno a Borghese le ultime indicazioni sulla strada, e ripartiamo, velocemente. Alle sei e mezza passiamo Brandeburgo. Incontriamo dei gruppi di operai che arrivano dalle loro case campestri in bicicletta, pedalando velocemente tutti insieme, col sacco sulle spalle e la gran pipa di porcellana in bocca; dobbiamo rallentare spesso per lasciar passare i carretti dei lattai, tirati da un uomo e da un cane apparigliati.
Una batteria d’artiglieria che si reca alle manovre chiude la strada; per alcuni minuti marciamo al passo dei cavalli, fra i soldati dall’elmetto luccicante, in mezzo al frastuono dei cassoni e degli affusti. Alcuni soldati ci riconoscono e ci sorridono, non potendo salutarci altrimenti senza infrangere la disciplina; sussurrano qualche cosa di noi ai compagni, che si volgono, e subito tutti fanno largo per lasciarci passare.
Più tardi incontriamo una pattuglia di ussari in vedetta, immobili sulla sella, appoggiati alla lunga lancia con la banderuola bianca e nera rivolta a terra per non lasciarne scorgere lo sventolio al supposto nemico. Evidentemente corriamo sul campo d’una finta battaglia. Infatti, ecco laggiù il polverìo d’uno squadrone di cavalleria che passa al gran trotto. Non scorgiamo altri soldati sulla campagna.
Quando alle otto arriviamo a Magdeburgo, siamo fermati da un altro episodio militare: un reggimento di fanteria in marcia. I soldati cantano in coro un inno guerresco, e noi subiamo l’impressione profonda che produce questa calda musica espressa dalla vigorosa, grave, formidabile voce della soldatesca.
Un istante, e la scena cambia.
Attraversiamo il mercato di Magdeburgo, gaio di colori, di movimento, costellato dalle cuffie bianche delle contadine; una vecchia chiesa getta sul tumulto l’ombra lunga e sottile delle Partenza da Wladimir per Mosca. sue cuspidi gotiche. Ma le città, per quanto interessanti, c’impazientano perchè ci trattengono.
Noi non siamo contenti che quando sull’automobile la leva del cambio è abbassata alla quarta velocità e la vettura balza avanti, fendendo l’aria come una meteora. Borghese vuol spingersi più in là che sia possibile; preferisce, per giungere a Parigi il giorno dieci, data fissata fin da Mosca, fare qualche giorno di riposo vicino alla mèta, piuttosto che raccorciare le tappe. Gli è venuta la strana paura che ora, proprio ora, non possa più arrivare, e vuol essere sicuro. È la febbre dell’arrivo che noi abbiamo.
Il cielo s’è oscurato. Attraversiamo alle nove Helmstadt dalle vecchie porte pittoresche; poi Königslutter, di cui ricordo finestre fiorite e muraglie coperte di verdura; poi Braunschweig, grande e rumorosa, dove al nostro giungere scoppia improvviso un violento temporale e si leva un vento furioso che agita gli alberi.
La pioggia ci sferza. Ma avvicinandoci ad Hannover il sole riappare radioso.
Ad una voltata della strada troviamo delle automobili: siamo accolti festosamente. Dei membri dell’Automobile Club con molti connazionali sono venuti ad incontrarci. A mezzogiorno entriamo ad Hannover. Alle due ripartiamo, mentre si rinnovano i saluti, dopo una squisita colazione offertaci non sappiamo precisamente dove, nè da chi, ma egualmente gradita.
Incontriamo per via una squadra di ragazzi diretti alla scuola, con i libri sotto il braccio, ben disciplinati, ordinati, gravi sotto ai loro berrettini verdi. Ci riconoscono: evidentemente hanno letto i giornali berlinesi. In ogni paese i ragazzi sono i più assidui nostri ammiratori. Improvvisano una dimostrazione, abbandonando per un momento la loro gravità. Il nostro viaggio nelle fantasie giovanili deve apparire immensamente più grande.
Ci dirigiamo a Minden, intorno alla quale giriamo appena attraversato il ponte sul Weser: della città non vediamo che i giardini e i tetti acuminati, dietro agli alberi. Passiamo cittadine, borghi, villaggi dei quali non guardiamo neppure il nome sulla carta, tanto è rapida la nostra traversata. E poi questa incognita aggiunge un incanto misterioso alle cose che vediamo.
In certe piccole città scendiamo per straducce nelle quali alte e vecchie case dalla fronte a triangolo sporgono avancorpi, protendono balaustrate e finestre, come in cerca di luce: abitazioni medioevali che portano scolpito sul legno della facciata date remote di tre o quattro secoli, antichi proverbi, figure di cavalieri — i quali hanno l’aria di guardare con molto stupore l’automobile che passa turbando la loro lunga quiete.
Alle cinque siamo a Herford, un luogo di cura ricco di acque minerali. Un reporter balza sull’automobile e intervista Borghese a volo. Da un albergo escono gli ospiti e applaudono al Principe. Da ogni parte si vedono malati sdraiati in carrozzelle: uno di essi si solleva penosamente e grida “evviva„. Tutti gl’infelici che gli sono vicini, presi da entusiasmo, ci salutano, agitandosi nei loro veicoli di dolore. Sorridiamo, ma questo saluto della sofferenza e della debolezza alla salute ed alla forza che trionfano, ci lascia qualche tempo silenziosi.
Giungiamo alle sette a Bielefeld, e ci fermiamo per la notte.
Il nostro primo pensiero è di fare un semplice calcolo aritmetico. Spieghiamo le carte fra città e città, e procediamo ad una somma il cui risultato ci fa mandare un’esclamazione di gioia. Il totale è questo: 680.
Siamo a 680 chilometri da Parigi.
Il giorno dopo, 8 Agosto, attraversiamo la frontiera belga a Eupen, alle ore sei di sera, e giungiamo a Liegi di notte. In un giorno passiamo così dalla Vestfalia al Reno, dal Reno al Belgio, con tale rapidità che ogni cosa, da un’ora all’altra, cambia intorno a noi, e la giornata ci sembra lunga come una vita. Le impressioni si sovrappongono nella nostra mente, ricacciandosi l’una con l’altra indietro nella memoria, respingendosi. Gli avvenimenti del mattino ci sembrano alla sera un vago ricordo.
Forse questa sensazione la dobbiamo ad un’agitazione che è in noi, all’ansia vaga e inconfessata che c’invade per la vicinanza della mèta, per l’attesa della realizzazione d’un sogno di lunghi mesi. Tutto il nostro spirito si protende in avanti con una specie di angoscia. Ogni velocità sembra piccola al nostro desiderio; e noi non viviamo tanto il presente quanto il futuro: per questo il passato svanisce. Avviene dei nostri pensieri quello che avviene delle immagini che vediamo correndo: si mostrano appena e si nascondono in una nube di polvere, dietro a noi.
A Bielefeld, inutile dirlo, venne offerto a Borghese un banchetto. Credo che se anche ci fossimo fermati in un bosco, avremmo veduto sorgere una mensa imbandita e un «comitato locale» per farci onore con ospitalità squisita e cordiale. In Germania tutte le sezioni dell’Automobile Club Imperiale hanno voluto festeggiarci, e a Bielefeld, mancando una sezione, sono arrivati dei soci del Club di Colonia, sopra un’automobile da corsa. Essi erano partiti per incontrarci dovunque fossimo.
Questa veloce automobile, dalla partenza da Bielefeld, ci ha fatto da pilota. Ma il pilota andava ad una rapidità vertiginosa, qualche cosa come novanta chilometri all’ora; e ci trascinava ad una corsa furibonda, disperata, insieme alle altre vetture che portavano i giornalisti parigini. Nel nembo di polvere sollevato dalla sua fuga, passava fulmineamente attraverso la regione come un’apparizione apocalittica.
Per correggere l’eccesso di velocità, giustizia volle che il pilota sbagliasse strada diverse volte. In un’occasione, presso Wiedenbruck, fummo costretti a ricercare la buona via attraverso i campi; così i nostri compagni di viaggio poterono avere un breve saggio della migliore viabilità siberiana.
Alle dieci e mezzo eravamo già fra le colline renane, salendo e scendendo per strade tortuose che si svolgevano per un’ininterrotta serie di villaggi e paesi, irti tutti di ciminiere d’opifici neri, pieni dello strepito del lavoro. Un intreccio di ferrovie ci faceva rallentare ogni momento avanti ai passaggi a livello.
Arriviamo in un paese sul quale il fumo denso stende un’ombra tempestosa, Barmen, con le sue miniere, le sue fonderie, le sue distillerie di carbone levanti in aria macchinari immani che sembrano motori mostruosi di favolose corazzate. Come sono lontani gl’idilliaci paesaggi della Prussia e della Pomerania, e le pittoresche cittadine del Brandeburgo, antiche e linde, per le cui piazze medioevali s’incontrano le gigantesche e ingenue statue di Rolando vigilanti sui mercati di frutta!
Alle undici, dall’alto della collina di Schlenbusck, vediamo improvvisamente aprirsi avanti a noi la luminosa valle del Reno. Pallido, immenso, scintilla serpeggiando il magico fiume, sulle cui rive, in un’azzurra bruma, si erge una selva di cuspidi e di torri: è Colonia, dominata dai due giganteschi pinnacoli gemelli della sua cattedrale.
Ai piedi della collina siamo attesi da soci dell’Automobile Club Imperiale e da vari nostri connazionali, ed entriamo in Colonia con un largo corteggio di automobili. Attraversiamo il Reno, veloce e limpido, sul ponte di barche, corriamo per ampi boulevards e siamo condotti alla sede del Club, dove troviamo una sontuosa colazione, condita da numerosi brindisi, ai quali Borghese risponde con un discorso che credo sia il suo cinquantesimo da quando entrammo in Europa: dal che si vede che per fare una corsa in automobile da Pechino a Parigi, è necessario non soltanto essere automobilista, ma anche oratore.
Alle tre ripartiamo. Il veloce pilota del mattino riprende nuovamente la testa con l’intenzione di mostrarci la strada per Aquisgrana; ma al vicino villaggio di Müngersdorf l’estrema sua velocità lo conduce ad assalire una casa e ad entrarvi demolendone una parete, fortunatamente senza danni alle persone. Io non so precisamente come il fatto sia avvenuto; arrivando al villaggio troviamo l’automobile-pilota rivoltata, vicino alla casa sventrata che mostra la modesta mobiglia per una enorme breccia, e l’automobilista tutto sorridente, imperterrito davanti all’ira dei contadini accorsi, che ci dice con aria soddisfatta, indicando la rovina:
— Messieurs! Regardez ce que j’ai fait!
Continuiamo dunque da soli, dopo aver scambiato cordiali saluti con altri soci dell’Automobile Club che ci hanno seguito fino a Müngersdorf.
La notizia del nostro passaggio è telegrafata a tutti i paesi: molta gente ci grida “addio„. In qualche cittadina i maestri hanno fatto schierare le scolaresche fuori delle scuole per vedere l’automobile che viene da Pechino, ottimo incentivo per lo studio della geografia. La chiara e gaia voce dell’infanzia ci saluta. File di scolarette bionde battono le mani con entusiasmo.
Entriamo alle cinque nei sobborghi di Aquisgrana. Della folla accorre, saluta con evviva ed auguri quando ci fermiamo a vuotare dei bicchieri di birra fresca avanti ad un caffè. Troviamo un altro pilota pieno di premura, ma che sbaglia strada e c’incammina verso Bruxelles. Ce ne accorgiamo e lo lasciamo dirigendoci sulla via di Liegi. Ci avviciniamo velocemente alla frontiera.
Dopo tante accoglienze festose, finalmente riceviamo un saluto meno benevolo: una vecchia contadina, mentre attraversiamo al passo il suo villaggio, affacciata ad una finestruccia tende rabbiosamente i pugni verso di noi gridandoci inviperita:
— Vi riconosco, canaglia! Siete voi che mi avete schiacciato la gallina giovedì! Pagate!
L’accusa è ingiusta, ma non ci addolora. Proseguiamo la corsa febbrile,
Eccoci al confine: un confine alla buona, senza catene, del quale ci accorgiamo appena dal modesto palo che indica il limite del territorio tedesco. Gli uffici doganali sono lontani dalla strada, e perdiamo mezz’ora per trovarli.
Il nostro ingresso nel Belgio ottiene un successo d’ilarità. Il telegrafo non ci ha annunciati, questa volta. Il nostro itinerario non è noto. Per la gente che ci vede siamo semplicemente degli esseri buffi, sopra un’automobile stravagante. Le nostre facce coperte di polvere nera, gli abiti stracciati, appaiono sommamente ridicoli.
A Verviers una grossa bottegaia, seduta fuori d’un piccolo negozio, grida vedendoci:
— Oh! les laids!
Poco dopo anche un carrettiere esclama convinto:
— Oh! les laids!
e ferma il carro per guardarci meglio. Si direbbe che il grido passi come un nuovo saluto. Si propaga. Da ogni parte udiamo: Oh! les laids! Non dubitiamo un momento che l’esclamazione non sia profondamente sincera. Tutti si fermano, guardano, ridono, quasi vedessero la più comica delle mascherate. E deve esservi qualche cosa di singolarmente comico nel contrasto fra il nostro aspetto e il modo di locomozione: dobbiamo sembrare tre accattoni in automobile. I ragazzi ci rincorrono. Possono farlo facilmente perchè le città e i borghi sono così frequenti che quasi non usciamo un istante dall’abitato, e numerosi cartelli ingiungono agli automobilisti di andar piano.
Ad un certo punto una guardia di polizia, messa in sospetto dalla nostra strana apparenza, ci ferma e ci guarda severamente. Avviene fra lei e Borghese un ameno dialogo.
— Chi siete? — chiede al principe che guida.
— Sono il principe Scipione Borghese — risponde questi con deferenza.
La guardia, che crede certamente d’essere burlata, assume un aspetto terribile, e tuona:
— Voi, voi un principe? Voi?
Borghese fa un gesto come per dire: Purtroppo!
— Non è vero! — riprende la guardia con energia — Voi siete uno chauffeur belga. Vi riconosco.
Ci riconosceva anche lui come la vecchia della gallina.
— Vi riconosco; capite? E vi faccio anche contravvenzione perchè andate troppo presto. Sapete bene il regolamento. Dieci all’ora! — estrae il taccuino, bagna la punta del lapis fra le labbra, e ingiunge: — Datemi il vostro nome e il vostro indirizzo!
Borghese, calmo, risponde:
— Principe Scipione Borghese, indirizzo: palazzo Borghese a Roma.
— Come! Ancora? Assez de plaisanieries! Mostrate le vostre carte!
Le carte sono mostrate. La guardia le esamina ed esclama, arcigna:
— Non sono vostre! Voi siete uno chauffeur. Perchè farvi passare per principe.... in quel costume? Avete vergogna d’essere chauffeur? Chacun gagne son pain comme il peut! Da dove venite?
— Da Pechino.
— Da.... Pechino.... Borghese.... ah!
La faccia della guardia s’illumina. Essa ricorda ora, capisce, si atteggia a profondo rammarico, passa dalla severità alla deferenza, saluta, ed esclama ossequiosa:
— Passez Monseigneur! Bon voyage!
Mezz’ora dopo entriamo a Liegi, mentre le vie si vanno illuminando.