La metà del mondo vista da un'automobile/Introduzione
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Isola del Garda — Settembre 1907.
Caro Barzini,
Dunque c’è chi dice che dopo tutto: — dopo le nostre fatiche di due mesi, dopo le roccie e i fiumi, le sabbie e le foreste, i fanghi e i banchetti a traverso ai quali siamo passati — c’è chi dice che il nostro viaggio una cosa sola ha dimostrato, che cioè: non si può andare in automobile da Pechino a Parigi.
La proposizione ha qualche cosa di bizantino nel suo semplicismo; ma, diciamolo, è letteralmente precisa e noi abbiamo dimostrato appunto questo: che oggi, servendosi del solo motore di un automobile, è impossibile recarsi — continuamente e mollemente seduti sui cuscini della medesima — da Pechino a Parigi. Non sarebbe cioè finanziariamente prudente, oggi, in base alla nostra esperienza, creare una linea regolare di automobili destinata a condurre le piccole ed elegantissime canzonettiste chinesi, senza punto affaticare i loro minuscoli piedini, dalla capitale del Celeste Impero al Moulin Rouge.
Ma al disopra e all’infuori di questo desiderato massimo, la Pechino-Parigi nulla di positivo ha dunque dimostrato?
Io torno col pensiero a Kiakhta, nella casa disadorna del milionario, dove la padrona veniva dalla cucina alla sala da pranzo, col suo largo e bonario sorriso sul volto, e copriva la tavola di lunghe file di bottiglie di vino generoso, di piatti capaci sui quali erano spezzati i montoni e i vitelli e dai quali si sollevavano vere montagne di paste e di riso; — dove Falia, la piccola Buriata, metteva il suo visetto fresco e un po’ selvaggio di giovane fiore della steppa; — dove gli amici vecchi e nuovi entravano e uscivano, senza invito e senza cerimonia, prendendo la loro parte di ospitalità e di vivanda liberalmente. E mi ricordo i discorsi, intorno alle mense cariche, tutti intenti a discutere l’utilità pratica della nostra traversata del Gobi, — avevamo ridotti a quattro i diciassette giorni delle più rapide carovane, — e le domande tecniche e precise che ci erano rivolte sulla possibilità di servirsi di questo rapido mezzo di locomozione per ricondurre su quel punto della frontiera una parte almeno dei trasporti di thè, che ora il mare assorbe fino a Wladivostock e di lì la ferrovia Transiberiana.
E rammenta, Ella, l’entusiasmo del nostro ospite d’Irkutsk quando, nostro ospite a sua volta fino a Nijni-Udinsk, provò la gioia della corsa — mentre il respiro largo accoglieva l’aria imbalsamata dal profumo dei pini sulle buone strade asciutte di Siberia? — In lui è certo rimasto il germe della passione automobilistica e nella buona stagione, su quei “tracts„ siberiani, sono infinite le possibilità dell’automobile.
A Krasnojarsk furono lunghi colloqui con due pratici e seri Inglesi, concessionari e ingegneri di miniere d’oro. Per loro si trattava di stabilire una comunicazione più rapida fra Krasnojarsk e Jenisseisk: e la nostra macchina che riposava lì nel cortile dell’albergo “Metropole„, intatta dopo più di tremila chilometri di terribili strade, diveniva un interessante soggetto di discussione e apriva dinanzi agli occhi loro un orizzonte vasto e nuovo di soluzioni insperate.
E fu a Tomsk in casa del Governatore. — Laggiù al Sud, all’estremo lembo meridionale della sua provincia, estesa quanto l’Impero Germanico, i Monti Altai drizzano le cime alpestri e offrono le valli e i fianchi, ricchi di tesori minerari, all’attività umana. — E mentre il Governatore mi narrava le vicende di una certa Società Anglo-Russa, che intendeva attivare e rendere regolari le comunicazioni di Tomsk con l’Oceano Artico, rimontando nella stagione estiva l’Obi con grossi piroscafi; e mentre mi diceva tutta l’utilità che ne avrebbe tratta la Siberia Centrale, tutto l’impulso che ne sarebbe venuto alla sua industria e alla sua esportazione — i suoi occhi d’uomo moderno, fissati lontano, perseguivano il sogno di collegare Tomsk a Barnaul e Bijsk e ai centri minerari dell’Altai con l’automobile veloce. E il progetto era vagliato e criticato: era insomma discusso.
Dopo la caduta dal ponte Ettore arrischia la prima occhiata di controllo alla macchina.
Più in là, a Omsk, eravamo in piena steppa. — La stagione piovosa laggiù è assai più breve che nella “taiga„; il terreno stepposo più resistente alla pioggia; il suolo quasi assolutamente piano. — Ritrovavamo lì le condizioni di viabilità della Mongolia settentrionale, dove, in caccia di antilopi, avevamo potuto lanciare la nostra macchina alle più alte velocità. — E trovavamo lì un ambiente di lavoro e di progresso inatteso e meraviglioso. — Quaranta milioni di rubli d’esportazione di burro nel 1906 e sei milioni di rubli in acquisto di macchine agrarie nello stesso periodo. — L’attività di russi intelligenti, di siberiani attivi e sagaci, di chirghisi divenuti laboriosi e abili, guidata e rafforzata dall’opera finanziaria e commerciale oculata e intraprendente di danesi, d’inglesi, di norvegesi, di tedeschi. — Tutto un mondo in movimento che si arricchisce intorno al bestiame, al latte, al burro, promovendo il miglioramento dei pascoli, l’intensificazione dell’agricoltura foraggiera.
E il territorio di questo sfruttamento, ogni anno più intenso, penetra e si estende in tutta la regione delle steppe, dove le orde chirghise spinte dall’istinto di razza vanno nomadi di pastura in pastura; si espande in mille rivoli per tutti i villaggi, dove gli emigrati d’oggi, o i figli degli antichi esiliati della Russia Europea, si accolgono in nuove comunità lavoratrici e prospere. — E da Omsk a Kurgan, al lago Balkasch, a Semipalatinsk si stende la steppa immensa e si moltiplicano oggi le possibilità, domani le necessità delle comunicazioni e dei trasporti automobilistici.
E poi a Tjumen e a Jekaterinburg, fra quella gente modesta e operosa, in quella miniera inesauribile degli Urali, dove ogni ettaro di terreno è un tesoro di ricchezze nascoste, dove la pietra crea la strada meno problematica; — e poi avanti, avanti, fino alla frontiera di Germania — da per tutto — il passaggio della nostra macchina, che resisteva alle prove più ardue, che passava incolume attraverso torture meccaniche dalle quali sono fiaccati i “tarantass„ robusti e le “teleghe„ leggere — da per tutto essa lasciava il solco e, forse nel solco, il seme di un avvenire di civiltà più sicuro, di un più rapido progresso, perchè dovunque essa evocava l’imagine della via di comunicazione regolare, per la quale il sangue dei popoli circola vivificando i continenti.
Ma di qua dalla frontiera di Russia — nell’Europa occidentale — qui dove le automobili già solcano le belle numerose strade tedesche e quelle meravigliose di Francia, qui dove il problema dei servizi automobilistici non è più un sogno nell’avvenire ma un problema nel presente, — qui nell’Europa occidentale il successo del nostro sforzo ingigantì, si affermò nelle discussioni dei tecnici, nell’entusiasmo delle popolazioni. E si capisce. Qui apparve a tutti il significato più profondo, il valore più diretto del nostro tentativo. — Non si trattava più di ricercare una qualche utilità locale, l’interesse di un ristretto gruppo di industriali o di commercianti — si trattava invece di un affermazione nuova e decisiva di un industria essenzialmente europea; di un’industria giovane, ma vitale ed L’Itala sprofondata e l’uomo che fu il primo ad accorrere. attivissima, nella quale è impegnato un cumulo enorme di capitale, di scienza, d’intelligenza, di lavoro abile ed evoluto.
Quando uno Stato vuol rinnovare la propria artiglieria: dopo studiati i dati tecnici, dopo approvati i progetti definitivi, dopo ottenuti i primi elementi del materiale, si fanno le prove del collaudo e si fanno ad oltranza. — I metalli sono esperimentati oltre il limite massimo delle loro resistenze, — si misurano alla trazione, alla torsione, alla compressione, si deformano in ogni senso al di là del necessario. — Poi, quando la bocca a fuoco è fusa con ogni precisione balistica, si prova al tiro e si esagerano le cariche, si variano gli esplosivi e non si è soddisfatti se il pezzo non resiste a sforzi assai più violenti e prolungati di quelli ai quali è destinato in pratica a sottostare.
Il “raid„ Pechino-Parigi fu una prova ad oltranza della produzione automobilistica, — e come tale esso interessò il pubblico.
Le nostre persone, il nome della marca, erano in seconda linea, — la nostra vettura rappresentava la produzione automobilistica europea.
Il mondo civile assisteva alla prova di collaudo più larga, più completa, più persuasiva, cui fosse stato finora sottoposto il nuovo istrumento, da esso stesso foggiato per fornire un altro e più decisivo passo avanti sulla via dell’abolizione di ogni motore umano o animale, abolizione che è uno degli indici più sicuri di progresso sociale.
Quando io rilevai la sfida del “Matin„ avevo dinanzi agli occhi questo scopo: dimostrare che l’automobile di buona fabbricazione, condotta con prudenza e con cura, è capace di sostituire, praticamente, nei lunghi viaggi, con o senza strade, la trazione animale.
Che importa se, per pochi metri, l’automobile debba essere trainata a braccia d’uomo: che monta se di tanto in tanto occorra disimpegnarla dal fango o dalla sabbia con l’aiuto delle binde e delle leve, o caricarla su una zattera o una chiatta per traversare i corsi d’acqua inguadabili? — Al di là di questi ostacoli brevi, che significano poche ore di ritardo, la macchina è lì pronta allo sforzo consueto, che nessun mezzo di trazione animale potrebbe protrarre così a lungo e così di seguito, che essa sopporta senza apprezzabile deterioramento, con precisione e costanza di lavoro.
E la Pechino-Parigi mi diede ragione.
L’“Itala„ ha compiuto senza usure anormali il lungo tragitto su strade quasi sempre cattive, spesso pessime, in condizioni di clima e di temperatura, nelle quali tutto l’organismo meccanico era messo a durissimo cimento. — Il telaio sconquassato dalle scosse e dai sobbalzi: il motore sforzato nelle salite erte, dove le ruote slittavano nei sabbioni o sulle crete rese viscide dalla pioggia; sovrariscaldato nelle lunghe ore di marcia lentissima sotto temperature elevate e su terreni difficili; la carburazione spesso anormale fra sbalzi termometrici di diecine di gradi, in un clima variabile dalla siccità diuturna alla pioggia e all’umidità quotidiana; le trasmissioni Trattenendo l’automobile in una ripida discesa in riva al fiume Hum. e i cambi di velocità continuamente urtati; la frizione ogni istante disinnestata e rinnestata.
Tutte le parti insomma — e non parlo delle ruote e delle molle che dovettero cedere alla fatica — tutte erano messe alla prova ad oltranza. Fu un collaudo senza precedenti. E sui 16.000 chilometri, circa, che percorremmo, e dei quali 12.000 furono senza strade massicciate, si riduce a meno di 200 chilometri la somma di quei tratti che l’automobile non percorse mossa solamente dal suo motore.
Io mi dichiaro soddisfatto del successo pratico ottenuto, anche se ha dimostrato che, oggi come oggi, non si può venire d’un fiato e senza scendere di macchina da Pechino a Parigi.
Ma il successo si deve ad alcuni fattori che voglio rilevare.
Taccio della macchina. La riuscita materiale l’ha dimostrata ottima; ma essa non fu, insomma, se non l’istrumento del successo; lo scalpello con il quale l’artista colpisce la statua, che ha creata nel suo sogno di bellezza. La mano intelligente, che guida lo scalpello, è più ancora nell’opera d’arte — ed operò nella preparazione diligente della spedizione.
La scelta della macchina fu fatta secondo criteri certi. Si pensò che la forza e la leggerezza fossero termini relativi, e che poteva essere di fatto più leggera e più utile una macchina di duemila chili con quaranta cavalli, che non una di peso poco inferiore con molto minor forza. E si fu estremamente meticolosi nella organizzazione della parte logistica. Con noi portavamo una larga collezione di pezzi di ricambio, ordinatamente disposti nel cassone posteriore della macchina, dal quale per ventura non fu quasi mai necessario estrarli. Sul percorso furono largamente e logicamente distribuiti i rifornimenti delle materie di consumo.
Dal 15 febbraio, giorno dell’accettazione definitiva della sfida, al 10 giugno, giorno fissato alla partenza da Pechino, il tempo ristretto non permetteva la corrispondenza epistolare. Fu personalmente e telegraficamente che si provvide.
Da Shanghai vennero a Pechino la benzina e l’olio necessari per il percorso in China e in Mongolia. Da Pietroburgo la casa Nobel pensò a distribuire per la Siberia e per la Russia le quantità necessarie alla traversata dell’immenso impero.
Da Pechino le lente carovane di cammelli — quante ne sorpassammo marcianti sonnacchiose nella luce dell’alba, nel crepuscolo lunghissimo della sera, o ferme, mentre passavano sulle bestie brucanti gli sterpi, sugli uomini riparati sotto le tende rabescate, le ore del sole torrido! — portavano al solitario pozzo di Udde, alla città sacra di Urga, l’occorrente per la conquista meccanica del deserto di Gobi, e fu facile conquista. Dall’altra parte affluivano per la Transiberiana gli stessi elementi di sicurezza e di moto nelle grandi città e nei piccoli borghi sparsi lungo il vecchio “tract„ siberiano, che prima della nostra libera macchina, spiegante al vento il vessillo di un popolo libero, Sotto le antiche mura di Tu-mu-pu. aveva viste passare tante torme di poveri esseri sofferenti e fieri, cacciati a portare lontano dalla patria il loro cuore generoso, la mente avida di libertà e di giustizia.
Dall’Italia giungevano alle tappe prestabilite i pneumatici; ed era fissato a Omsk un deposito di parti di ricambio, specialmente ruote e molle, che si riteneva indispensabile mutare in quella città, situata a metà circa dell’intiero percorso.
Le quantità d’olio e di benzina erano calcolate così: a bordo c’era posto per trecento chili di benzina e cento d’olio, quantità sufficiente a percorrere circa mille chilometri. Ai depositi ce n’era sempre tanto da riempire completamente il carico della vettura; e questi depositi, che, per ragioni di trasporto, erano distanti circa settecento chilometri in Mongolia, erano scaglionati su distanze varianti da duecentocinquanta a un massimo di cinquecento chilometri sul percorso Russo, dove spesseggiano i luoghi accessibili per ferrovia o per via fluviale. Da Irkutsk in là i pneumatici Pirelli mi attendevano ogni mille o millecinquecento chilometri.
E fummo fortunati. Mai una volta ci trovammo a corto di carburante o di lubrificante; mai ci mancò la provvista dei pneumatici, della quale facemmo del resto così scarso uso.
Una cosa sola non corrispose ai nostri desideri, e fu bene. Avemmo così la dimostrazione che i nostri calcoli erano stati precisi.
Le ruote e le molle di ricambio, per difficoltà con la Dogana Austriaca, non raggiunsero Omsk, dovettero essere fermate a Mosca: e noi entrammo a Kazan zoppicando sulle molle spezzate e sulla ruota, che l’ascia del “mujik„ latinista ci aveva riparata, in un dopo pranzo di festa, sulle rive della Kama.
E un’altra cosa avrebbe dovuto essere più curata: il “confort„ dei viaggiatori sulla vettura e la disposizione del bagaglio.
Ella, che ne ha sofferto più di tutti, ricorda certo come fino alla vigilia dell’arrivo a Parigi non avessimo trovata la forma definitiva da dare a quell’informe cumulo di valigie e di sacchi che, accatastato sul cassone dei ferri e troppo spesso sulla sua schiena, era il nostro bagaglio.
Ettore aveva un bel legarlo con ogni attenzione, senza economia di corde e cordelline, con la più grande ingegnosità di trovate; le scosse della vettura allentavano le più sapienti combinazioni e il grosso sacco poco alla volta oscillava e si apriva. — E Ettore ricominciava. — Quanto lavoro ha fatto quel bravo figliuolo in quei sessanta giorni! Egli è stato davvero la mano intelligente che guida lo scalpello. Senza le sue cure costanti del motore e di tutte le parti della macchina — alle quali egli sacrificò e sonno e cibo — non saremmo arrivati a Parigi, forse neppure saremmo qui.
Nessuno, che non l’abbia provato, imagina quello che è, in un lungo viaggio come il nostro, il lavoro del meccanico: completamente abbandonato a se stesso, senza l’appoggio di officine, La prima difficoltà. — L’Itala attacca il ponte sullo Sha-ho. senza la comodità dei “garages„ in paesi dove ogni elemento di meccanica è sconosciuto, dove la lingua è strana, l’ideazione stessa così lontana dalla nostra.
Dopo quattordici, sedici, diciotto ore di marcia durante le quali coi denti stretti, in una tensione continua dei nervi, si è spiato ogni suono del motore, ogni scricchiolio della vettura, cercando di contenderne resistenza alle difficoltà del terreno — altre due o tre ore stesi di sotto al telaio, nel caldo della macchina affaticata, nel tanfo dell’olio e dei grassi bruciati, a esaminare, a provare, a registrare, a stringere i dadi che si allentano, le viti che si muovono, non contenti di riparare le piccole usure e i lievi spostamenti cagionati dalle fatiche del giorno, ma cercando di prevedere e di prevenire, con sagacia e ingegnosità, le possibili “pannes„ dell’indomani.
Questo il lavoro normale, dopo le poche ore di sonno rubate alla durezza dei pavimenti, dopo il cibo preso in fretta, con i piedi sul predellino, mentre la macchina sobbalza da una carreggiata nell’altra: ma poi di tanto in tanto si aggiungeva per Ettore il lavoro del guidatore.
O che egli mi sostituisse al volante per concedermi riposo, o che le difficoltà della strada richiedessero che io da terra lo guidassi nel passaggio di tratti troppo ardui per essere affrontati dall’alto della vettura. Ed anche come guidatore egli fu insuperabile.
Si ricorda, Barzini, quante volte nel salire sui ponti, o nel traversare i brevi istmi di terreno asciutto sulle strade impantanate, ero obbligato, dopo esaminato il terreno, di segnare a Ettore con i ciottoli o con i rami il punto preciso dove doveva passare la ruota della vettura?
E rammenta la meravigliosa precisione dell’atto rapido con il quale la macchina, accelerata al massimo per non pesare e non rischiare d’impuntarsi, senza esitanza balzava sul tavolato del ponte o saltava fuori dalla pozza di fanghiglia nera e vischiosa?
E non ostante la forte coscienza del suo valore e della sua capacità — o forse per questo — Ettore conservava nelle difficoltà, nelle fatiche, nei pericoli e nelle intemperie (Le risovvengono le eterne giornate di pioggia e fango che abbiamo attraversate?), nei trionfi e nelle apoteosi — che l’atto di cui era così gran parte provocava — egli conservava la stessa serenità, la stessa modestia, lo stesso inalterato buon umore e l’operosità costante e la incrollabile fiducia nel successo. E io che già lo avevo compagno di dieci anni d’automobilismo, non sempre facile e piano, che già l’avevo amico provato e caro, gli ho confermato, per sempre, la più viva e la più cordiale amicizia, la più profonda gratitudine.
Ettore Guizzardi è un bell’esempio di lavoratore educato e cosciente.
In lui nulla di servile: la sicurezza assoluta del suo merito, il senso acuto della propria responsabilità e l’opera intelligente prestata, con disinteresse e con attaccamento d’amico, a chi ha potuto ispirargli fiducia ferma e che egli ritiene capace di apprezzare le sue grandi qualità d’intelligenza e di cuore.
Fuochista a quindici anni sulla locomotiva condotta dal padre, lo perdette in uno scontro ferroviario nel quale egli stesso rimase ferito. Da dieci anni è passato con me di macchina in macchina, ha lavorato nelle officine, si è provato su tutte le strade d’Europa, guadagnando in prudenza, in coraggio freddo e silenzioso, in capacità ingegnosa e tecnica — e oramai ha avuto la conferma del suo valore negli applausi che l’hanno accolto vittorioso. È romagnolo, e tutte le forze d’impeto e di tenacia della sua razza vibrano in lui attive e fattive.
Ma un altro fattore di successo fu l’ambiente creatosi intorno a noi.
E qui come si fa a rendere efficacemente l’importanza, a valutare l’influenza che ebbero nella riuscita del nostro tentativo: la benevolenza dei governi, la simpatia delle popolazioni, l’aiuto, il conforto, l’incoraggiamento anche solo morale, prodigatoci da tanti ignoti che ci furono per pochi istanti affettuosi amici e che abbiamo perduto di vista per sempre?
Ella potrà, con la vivacità del Suo stile, rievocare, a traverso le vicende del nostro viaggio, tante figure di esseri buoni che si adoprarono per noi e che non potemmo singolarmente ringraziare. Ella dirà: come fummo assistiti dai nostri rappresentanti all’estero, dal Governo chinese e da quello russo, dalle burocrazie di tutti i paesi attraversati, che tutte, compresa la nostra, trovarono per noi un’ignota e inattesa elasticità di concetti.
Ella fisserà la fisionomia dei “coolies„ chinesi: nudo il busto bronzeo fino alla cintola, il volto impassibile sul quale lo sguardo, che nulla dice all’Europeo, mette una luce ambigua, duri alla fatica come il metallo nel quale sembrano forgiati.
Ella scolpirà i cavalieri Mongoli rozzi e fieri, ammantati nelle lunghe vesti, olenti l’acre fetore del gregge e della “yurta„: — i “mujik„ dalle lunghe chiome bionde, sguardi dolci e perduti verso il largo orizzonte del loro paese dalle lente colline e dai lunghi pianori; e più in là, molto più in là, verso un avvenire di minore miseria e di vita più umana.
Questi gruppi, dall’aspetto così diverso, Ella li disporrà intenti al salvataggio della nostra macchina: anelante su per le rocce aduste, lanciante getti d’acqua e di vapore nelle sabbie della Mongolia, reclinata sul fianco, come una nave incagliata, nelle paludi e nelle forre della Siberia e della Russia.
Ella dirà — e rinnoverà l’entusiasmo — quanto ci aiutassero: la fratellanza dei concittadini incontrati lontano, lontano dalla patria — il consenso delle folle che lasciavano in massa l’officina, la bottega, la scuola per acclamare al passaggio dell’automobile, prodotto e simbolo fremente di quel lavoro che è forza viva dei popoli per ogni ascensione.
Tutto questo ed altro ancora diranno le brillanti pagine del suo libro.
Io voglio accogliere in un unico pensiero di affettuosa riconoscenza tutte le donne che — con le cure, la parola cortese, il sorriso fuggevole — in un giorno, in un ora, in un istante hanno aggiunto vigore alle membra stanche, coraggio all’anima restìa, decisione alla mente dubitosa.
E intendo tutte: quelle che so e quelle che ci rimasero ignote.
Intendo tutte: le buone massaie, che avendo un tetto ospitale ci diedero per un giorno l’impressione di una nuova famiglia, facendoci assaporare la gioia di un buon letto e della buona tavola — la delicata sensazione che provoca, in chi viene dalle solitudini della vita randagia, la casa ordinata e animata dallo spirito femminile.
Le mogli dei “mujik„: che negli alloggi municipali di villaggi isolati da ogni vita civile, nelle “isbe„ tagliate a gran colpi d’accetta nei tronchi delle foreste immense, ci offrirono dalla sera all’alba tutto ciò che avevano, e stanza e letto; esularono dalla povera casa perchè noi la godessimo; ci portarono la scodella di minestra fumante, la brocca di latte sapido della prateria siberiana, il tozzo di pane nero come la terra che lo produce.
Le donne colte e raffinate, che in un’ora di conversazione intellettuale — resa forse più intima dalla certezza di mai più incontrarsi — distrassero il pensiero nostro dalle preoccupazioni Il Mandarino governatore cinese della Mongolia e Luigi Barzini, durante la visita ufficiale. quotidiane e restituirono all’anima un po’ dell’elasticità che lo sforzo materiale, continuo e monotono, minacciava di affloscire.
Tutte quelle che al passaggio ci sorrisero, ci soffiarono un bacio, ci incitarono col gesto, ci gittarono fiori — tutte — fino a quelle, le nostre donne, che vedevamo coll’imaginazione sulla soglia della nostra casa, con in braccio i nostri figli, attenderci desiderose e amanti e che, pur nella nostra vita multiforme, erano la forza occulta che ci sosteneva e ci moveva.
Questi i fattori che condussero al successo la nostra impresa.
Ella che ne fu il poeta, e sta per esserne lo storico, lo sa meglio di me. E sa anche quanto la sorte di questo nostro viaggio sia stata diversa da quella di tanti altri.
Io ripenso qualche volta certe figure che dovrebbero essere leggendarie e sono invece quasi dimenticate. Viaggiatori che in paesi ignoti hanno scoperte o ritrovate verità geografiche, che, rischiando per lunghi anni quotidianamente la vita, hanno aperto al commercio del loro paese fertili zone di sfruttamento, all’industria paesana larghi territori di consumo. E io li ripenso — i nomi mi bruciano le labbra — al loro ritorno in patria.
Pochi specialisti li accolgono, poca stampa li discute e solo per criticarli aspramente, il silenzio li circonda e alle volte questo tacere del pubblico, questo silenzio amaro dell’umanità, per la quale lavorarono e soffrirono, li ha uccisi.
A noi, che tanto minor cosa facemmo, toccò l’applauso popolare, toccò l’emozione di avere per un momento sollevato l’entusiasmo nelle grandi metropoli del mondo, nelle città operose, nei borghi tranquilli, lungo tutte le vie d’Europa.
Il perchè è complesso. V’entra la novità del veicolo impiegato, la sua crescente importanza economica e sociale; v’entra la lunghezza del tragitto compiuto in così breve tempo e in mezzo a difficoltà per la prima volta intraviste; v’entra la soluzione felice di problemi tecnici e l’affascinante attrattiva di quella terra asiatica, dalla quale forse veniamo e che ci è tanto estranea. V’entra il contrasto fra i due estremi del viaggio.
Alla partenza la misteriosa capitale di un incomprensibile impero, dal quale il rumore della vita ci giunge affievolito dalla distanza nello spazio e nel pensiero; all’arrivo la cassa di risonanza più sonora — Parigi — d’onde ogni più lieve alito di vita si sparge per il mondo rafforzato e moltiplicato da mille echi.
Il segreto del perchè è qui e altrove; ma è soprattutto — ed Ella mi pare lo ha detto — nel filo metallico che ci accompagnò lungo tutta la via e giorno per giorno portava le nostre notizie alla stampa che le diffondeva.
Il telegrafo e la stampa sono stati i fattori immediati della popolarità della quale ha goduto il nostro tentativo.
Essi hanno sparso dovunque la Sua prosa suggestiva, che dava interesse e moto agli incidenti monotoni, e per noi troppo spesso stucchevoli, della via. Fedele fino allo scrupolo alla verità dei fatti, Ella ha saputo illuminarli con la luce viva dell’ambiente — dar loro il preciso valore prospettico nel quadro d’insieme — e il pubblico ha sentita la poesia che scaturiva dai singoli capitoli di quella Sua narrazione della nostra modernissima odissea.
Nessuno però sospetterà, leggendo il suo libro, quanto dispendio di volontà e di forza morale Le sia costato. Io, che ebbi l’onore ed il piacere di esserle compagno in quello sforzo durato due mesi, sforzo intellettuale intenso in mezzo a disagi materiali che deprimono, io solo posso farne fede.
E di quei due mesi rimane in me viva l’ammirazione per Lei ed un senso profondo di amicizia che resisterà al tempo.
Mi creda, caro Barzini, con affetto e stima suo