La metà del mondo vista da un'automobile/I
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CAPITOLO I.
DA PARIGI A PECHINO
Il 18 Marzo 1907, a mezzogiorno (data per me memorabile), ero allo scrittoio, completamente immerso nello studio dell’organizzazione ferroviaria nord-americana. In quel tempo mi dedicavo con passione ai problemi della strada ferrata, ne scrivevo e ne parlavo, pascevo il mio spirito di regolamenti e di orari nazionali ed esteri. All’improvviso una lunga scampanellata del telefono, posato proprio sul mio tavolo da lavoro, mi strappò violentemente dalle reti ferroviarie degli Stati Uniti.
— Pronto! Con chi parlo?
— Buongiorno — riconobbi subito la voce di Luigi Albertini, Direttore del Corriere della Sera. — Ho assoluto bisogno di parlarle; venga da me.
— Subito?
— All’istante.
— Corro.
— Grazie.
Mi precipito fuori di casa, salto nella prima vettura libera che incontro, e durante il tragitto passo in rapida rivista gli avvenimenti delle ultime ventiquattr’ore per indovinare la ragione d’una così urgente chiamata.
Il giornale aveva bisogno del suo “inviato speciale„? Era scoppiata qualche guerra? No; persino il Venezuela da sette giorni godeva una perfetta tranquillità. Una rivoluzione? Neppure; faceva troppo freddo; le rivoluzioni s’iniziano con la buona stagione; sbocciano coi fiori; non è che alla fine di Aprile che le redazioni ricevono quel primo segno d’un periodico risveglio della Libertà fra i popoli, rappresentato dal noto telegramma: “Una banda bulgara (o greca) ha massacrato gli abitanti di un villaggio greco (o bulgaro) ecc.„ Qualche disastro impreveduto, allora? I disastri non hanno stagione....
Avevo torto, trascinato dall’ardore professionale, a fare delle previsioni catastrofiche. Non era successo proprio nulla di grave, sopra nessun emisfero. Quando entrai, saturo di legittima curiosità, nell’ufficio che rappresenta il cervello del nostro giornale, trovai il Direttore perfettamente tranquillo e sereno. Mi porse un numero del Matin, mi additò nella prima pagina, sotto ad un titolo enorme, alcune parole, e mi chiese:
— Che ne pensa?
Guardai, e lessi questo sorprendente invito:
C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?
Rilessi, e provai un senso di ammirazione verso l’ignoto autore d’un simile progetto. Doveva essere per lo meno un gran romanziere.
— Che ne pensa? — ripetè Albertini.
— Magnifico!
— Attuabile?
— Ah, questa è un’altra cosa. Ma anche se non riescisse, il tentativo sarebbe pieno d’interesse....
— E lei consentirebbe a parteciparvi?
— Con molto piacere.
Passammo alcuni minuti a sfogliare i numeri successivi del Matin cercandovi altre notizie sullo strano viaggio. Lettere di adesione empivano colonne; erano lettere in gran parte accese di un entusiasmo troppo anticipato per resistere a lungo. Una fra tante fermò la nostra attenzione, perchè di un italiano, e perchè concisa e fredda come una ricevuta. Eccola:
M’inscrivo alla vostra prova Pechino-Parigi con un’automobile “Itala„. Vi sarò riconoscente se vorrete farmi sapere al più presto ogni particolare perchè possa regolarmi nella preparazione.
Principe Scipione Borghese.
Il nome e lo stile mi fecero subito pensare: Ecco un uomo che dice sul serio!
Don Scipione Borghese mi era noto per la sua fama di automobilista e di viaggiatore. Nel 1900 egli, attraversata la Persia in carovana, in parte per regioni poco note, si era internato nel Turkestan, era risalito per le vaste steppe di Barabas fino a Barnaul, da dove, navigando sull’Obi e sul Tom aveva raggiunto Tomsk, e con Tomsk la ferrovia Transiberiana che lo condusse al Pacifico. Sul suo viaggio aveva scritto un libro, un libro da studioso che aveva tutta la rigida esattezza d’un libro di bordo, minuzioso, calmo, tecnico, che dimostrava nello scrittore una mente riflessiva, chiara, non distolta troppo nella osservazione dagl’impulsi dell’emozione, dell’ammirazione, del sentimento. Si sentiva nell’autore un matematico più che un poeta, s’intuiva in lui il predominio del cervello sul cuore, della volontà sulla sensibilità. Il Principe Borghese mi appariva uno di quegli uomini che vogliono, che sanno, che agiscono. Egli non si sarebbe iscritto alla corsa Pechino-Parigi se non fosse stato sicuro di partire, ed una volta partito avrebbe fatto tutto quanto è umanamente possibile per trionfare. Ebbi immediatamente fiducia in lui.
Interrompendo la lettura del Matin il Direttore mi disse con tono d’improvvisa risoluzione:
— Bisognerebbe che lei partisse subito per la Cina.
— Sta bene.
— La corsa Pechino-Parigi incomincia il 10 Giugno. Lei può fare prima un viaggio attraverso l’America e il Pacifico, ed osservare, strada facendo, delle cose interessanti.... La fine del processo Thaw a New-York....
— Bene.
— ....La ricostruzione di San Francisco.... La situazione L’Itala ed Ettore prima della partenza nel cortile della Legazione Italiana a Pechino.
nippo-americana alle Hawai.... Il Giappone dopo la guerra.... E compirebbe infine per l’Asia il giro del mondo.
— Bene. E la Pechino-Parigi?
— Riceverà ordini in viaggio. Chiederemo al Principe Borghese se consente ad associarci alla sua impresa. Spero di sì.... In ogni modo troverà a Pechino tutto preparato, dovessimo pure mettere a sua disposizione un’automobile nostra. Il primo piroscafo per l’America parte.... vediamo un po’.... ecco un programma della società di navigazione. Parte dopodomani dalla Francia: “Kaiser Wilhelm der Grosse della Norddeutscher Lloyd, da Cherbourg 20 Marzo, per New-York„. Lei prende oggi il treno per Parigi. Ha il tempo necessario?
Consultai l’orologio e richiamai alla memoria la mia recente scienza ferroviaria (sezione orari).
— Ho tutto il tempo.
— Buon viaggio, dunque!
— A rivederla!
E, scambiandoci brevi saluti, ci abbracciammo per uno di quegli slanci di simpatia ed amicizia che, in certi momenti, stringono in una eguaglianza di affetto le persone che si vogliono bene.
Qualche minuto dopo, scendendo in fretta lo scalone degli uffici m’imbattei in un collega che saliva con la lentezza di chi è aspettato da un lavoro regolare e consueto.
— Dove vai in tanta furia? — mi chiese.
— Vado a fare il giro del mondo — risposi gravemente sostando un istante sul pianerottolo.
— Burlone! — esclamò scoppiando in una gran risata. — Io indovino dove vai realmente.
— Dove?
— A far colazione, ed è tardi, e hai fame. Buon appetito!
L’incredulità, piena di buon senso, del mio amico, mi rivelò subitamente quanto v’era di singolare, di strano, d’inverosimile quasi, nella mia situazione. E rimasi un istante dubbioso e sconcertato prima di rispondere un “grazie„ e continuare la mia strada. Il vecchio romanzo d’avventure, i cui personaggi percorrevano tutti i continenti e navigavano tutti i mari dalla prima all’ultima pagina, non si scrive più perchè anche i ragazzi oggi lo trovano troppo lontano dalla verità; eppure c’è ancora qualcuno che lo vive: il giornalista.
Quel giorno stesso il direttissimo del Sempione mi trasportava verso Parigi.
A Parigi, negli uffici del Matin, s’erano tenute delle grandi adunanze per discutere sulla corsa. Vi erano intervenuti, insieme a molti aderenti alla prova, dei viaggiatori, dei diplomatici che erano stati in Cina, degli studiosi che potevano dare minuti ragguagli su tutte le regioni del mondo senza averle viste. Le assemblee erano state numerose, animate; gli stenografi avevano scrupolosamente registrato delle curiose conversazioni nelle quali erano più le domande che le risposte. La materia in discussione si presentava più irta d’incognite di una pagina di algebra superiore.
Nel complesso queste riunioni avevano avuto una innegabile utilità. Erano riuscite a stabilire il migliore itinerario, a furia di eliminazioni. Numerosi telegrammi erano stati spediti a Pechino, a Pietroburgo, a Irkutsk, chiedendo informazioni. Il saggio e prudente Wai-wu-pu, il Gran Consiglio dell’Impero Celeste, si era limitato a rispondere con.... una domanda, trasmessa attraverso la Legazione francese: Quale sarà il numero delle automobili che dovrebbero partire da Pechino per recarsi a Parigi? Che importanza avesse questo numero agli occhi del Gran Consiglio dell’Impero Celeste, non è facile a capire; forse il Wai-wu-pu cominciava già a temere un’invasione. La Banca Russo-Cinese da Pechino aveva risposto: I passi di Nan-kow e di Ku-pei-ku sono abbastanza larghi per delle automobili, ma ripidi e pietrosi.
Abbastanza larghi! — la cosa sembrò a Parigi estremamente favorevole, paragonata alle indicazioni ricevute sulle altre strade; la via del Turkestan per Samarcanda, la via dei monti Altai, erano state giudicate assolutamente impossibili. Non rimaneva dunque che la via della Mongolia per Kalgan e Kiakhta, con quei passi abbastanza larghi.
Le impressioni sincere degli aderenti non furono molto incoraggianti. In un’ultima assemblea gl’iscritti alla corsa emisero una dichiarazione piuttosto pessimista. Eccola:
Le difficoltà di questa prova straordinaria appaiono all’esame minuzioso, e dopo alcune settimane di studio, altrettanto importanti quanto ci apparvero al primo momento. “Pechino-Parigi„ è forse un tentativo irrealizzabile! È l’occasione per dei pionieri dell’automobilismo di domandare alla trazione meccanica il modo di traversare deserti montagne steppe: una metà del mondo.
Il Matin paragonava il viaggio ad un tentativo per la conquista del Polo. Il gran pubblico era d’una opinione più recisa di quella esposta nella dichiarazione degli aderenti, e diceva addirittura: "Pechino-Parigi è un tentativo irrealizzabile.„
Confesso che, quando al mattino del 20 Marzo lasciai Parigi per imbarcarmi la sera a Cherbourg, pensavo con molto scetticismo Nella via di Nan-Kow. alle probabilità di rientrare in quella stessa città sopra un’automobile reduce dalla capitale cinese; e nel segreto del mio animo ringraziai il cielo — e Nicola II — per l’esistenza d’una provvidenziale ferrovia transiberiana che, all’occasione, mi avrebbe riportato a casa in un periodo di tempo ragionevole.
Poi, in viaggio, finii quasi col dimenticare del tutto la corsa automobilistica. La Pechino-Parigi non mi apparve più come lo scopo vero di quella mia gran fuga per il globo, ma soltanto come un ultimo problematico episodio, come la fine vaga d’un looping the loop intorno al nostro pianeta. Del resto i giornali non ne parlavano già più. La cosa pareva caduta nel silenzioso abisso della dimenticanza, dove fatalmente spariscono tutti i progetti assurdi e tutte le utopie.
Ma no. Qualcuno vi pensava ancora, lavorava, preparava, organizzava. Me lo fece comprendere un breve telegramma, un ordine che trovai una sera all’albergo, a New-York, e che mi venne consegnato insieme alla chiave della camera. Lo disuggellai nella cabina dell’ascensore che mi trasportava al mio piano; lo lessi, lo rilessi, e rimasi così assorto che giunsi senza accorgermene al quattordicesimo piano, dove il liftman mi domandò se intendevo andare sul tetto dell’albergo.
Quella laconica e misteriosa comunicazione telegrafica diceva: Trovatevi a Pechino il primo di Giugno. Niente altro.
Puntuale come un’eclisse, il primo di giugno, alle sei di sera, scendevo alla stazione di Pechino, in quella volgare stazione che si addossa ai piedi delle antiche superbe muraglie della città tartara, sotto agli imponenti bastioni della Chien-men, quasi per nascondere nell’ombra di tanta grandezza la sua meschinità e la sua profanazione. Quella stessa sera un gendarme italiano venne a cercarmi all’Hotel des Wagons-lits e mi diede una lettera, giunta per me alla Legazione d’Italia, ed un biglietto.
La lettera era della Direzione del Corriere della Sera e completava — dopo quasi due mesi — il dispaccio ricevuto a New-York. Essa m’informava che avrei partecipato alla corsa sull’Itala del Principe Scipione Borghese. E ne fui molto lieto. Un’altra notizia mi dava, che accolsi con sincero piacere: per un accordo intervenuto fra il Corriere della Sera e il Daily Telegraph, io ero invitato a fare un regolare servizio di resoconti telegrafici sulla Pechino-Parigi anche per il grande giornale londinese.
Non posso dimenticare che è a Londra che ho cominciato ad essere giornalista. E del soggiorno che feci come corrispondente sulla terra inglese — durante il quale l’anima mia si aprì al grandioso spettacolo di una attività mondiale — è rimasto in me una convinta ammirazione per l’Inghilterra, e per il giornalismo inglese una stima senza riserve. Considerai l’invito a collaborare al Daily Telegraph come una lusinghiera prova di fiducia, e lo accettai con deferente premura.
Il biglietto consegnatomi dal gendarme era del Principe Borghese. Egli era giunto già da una settimana. Mi dava il benvenuto e mi fissava un appuntamento per il giorno sei. Non ci eravamo mai visti, e, destinati a vivere insieme per dei mesi I nostri coolies ad un alt. dividendo il pane e le fatiche nell’intimità d’un lungo e strano viaggio, avevamo tutt’e due un vivo desiderio di conoscerci. Sarei corso a cercarlo subito, se il biglietto non mi avesse avvertito che egli si trovava in quel momento qualche centinaio di chilometri lontano, intento a percorrere e studiare la strada di Kalgan — circostanza sufficiente per indurmi alla rassegnazione dell’attesa.
Rimasi, quella sera, fino a notte tarda sulla veranda dell’albergo, fantasticando. Non riconoscevo più intorno a me, la mia vecchia Pechino, la superba capitale dell’immobilità che avevo lasciato sette anni prima, devastata qua e là dall’assedio alle Legazioni e dalle vendette della civiltà ma ancora intatta nel suo spirito e nel suo aspetto, fedele a sè stessa, singolare, unica, cinta dalla linea ieratica delle sue portentose muraglie. Ora il quartiere delle Legazioni faceva sorgere nel cielo, arrossato dal tramonto, una folla di tetti di palazzi e di ville europee, cuspidi di chiese, torri con orologi e senza orologi, tutto un profilo di città occidentale e moderna che copriva in parte le graziose pagode lontane del recinto imperiale. Lampade elettriche s’accendevano per la via, illuminando uniformi di soldati europei che passavano. Fischiavano locomotive verso l’Ha-ta-men. Ogni tanto udiva nell’interno dell’albergo trillare un campanello telefonico, che dominava i suoni d’un’orchestra. E l’orchestra, europea, suonava per un convito di dignitari cinesi, i quali mangiavano senza bacchettine. Pensavo che noi a tante deplorevoli novità stavamo per aggiungere anche l’automobile.... La Cina se ne va! — dicevo fra me con un certo rimpianto.
Il giorno dopo mi accorsi bene che, invece, la Cina non se ne andava affatto.
Tutte le innovazioni che mi avevano tanto colpito, non uscivano dal recinto del quartiere delle Legazioni, recinto fortificato per giunta. Erano prigioniere, chiuse in una sorta di lazzaretto della europeizzazione. Al di fuori, tutto intorno, si stendeva l’immensa città incontaminata, sempre eguale, la Pechino dei secoli passati. E nella Pechino, in un antico palazzo dalle molte corti ombrate di stoie, contro alle profanazioni dell’occidente vegliava un consiglio di uomini saggi e venerandi: il Wai-wu-pu, il Gran Consiglio dell’Impero Celeste. In quel momento il Wai-wu-pu (presieduto dal celebre Na-Tung, che fu capo-boxer, ex-condannato a morte dalle potenze le quali chiesero la sua testa come condizione di pace nel 1900, e divenuto invece una specie di ministro degli esteri conservando naturalmente la sua testa e nella testa le sue idee) in quel momento, dico, il Gran Consiglio era assolutamente intento a salvare l’Impero da un nuovo, terribile nemico.
Questo nemico si chiamava Chi-cho, ossia “Carro a combustibile„, grazioso neologismo creato per l’occasione ad indicare l’automobile. Non si parlava che di Chi-cho, come una volta s’era parlato dell’Huo-cho — cioè il “Carro a fuoco„ (in europeo: Ferrovia). Perchè vengono i chi-cho? Cosa vogliono? Domande angosciose che mantenevano il Wai-wu-pu meditabondo sulle sorti della Cina.
Nella mente di un mandarino cinese non poteva penetrare l’idea che i chi-cho volessero soltanto andare da Pechino a Parigi senza nemmeno ricevere un premio di questa loro fatica. Per andare a Parigi esistevano dei mezzi più rapidi, sicuri, provati. V’erano certo delle misteriose ragioni, e inconfessabili, per una simile stranezza. Il Wai-wu-pu non dubitava che l’Europa tentasse un esperimento. Quale?
Il principe Ching, uomo dalle larghe vedute, propendeva a credere che gli europei volessero studiare il modo di comunicare rapidamente con la Cina per mezzo di treni automobili, senza aver più bisogno di chiederle concessioni ferroviarie. I pretesi automobilisti, si capisce, erano tutti ingegneri, posti sotto al comando d’un principe italiano. Il progetto rappresentava la completa rovina della compagnia ferroviaria cinese che costruiva la linea di Kalgan, linea giunta già fino a Nan-Kow. E nella compagnia il principe Ching aveva dei capitali.... Na-Tung vedeva le cose sotto un aspetto più terribile. I chi-cho, per lui, cercavano la strada delle invasioni. La Mongolia non era stata nel passato la via del pericolo? La Grande Muraglia non era sorta da quel lato per la difesa dell’Impero? Quale muraglia avrebbe ora potuto chiudere il passo ad un esercito in chi-cho, che scenderebbe subito al primo pretesto d’un moto boxer, e che arriverebbe questa volta in tempo a tagliare, ahimè!, le teste designate dal corpo diplomatico? Gli automobilisti della Pechino-Parigi non erano, si capisce, che degli ufficiali, posti sotto al comando d’un principe italiano.
Una prova della gravità della situazione era data al Wai-wu-pu del fatto che i ministri di Francia, di Olanda, d’Italia e di Russia a Pechino s’interessavano grandemente al buon esito della spedizione automobilistica. Specialmente i primi tre bombardavano l’austero e nobile consesso con note ufficiali e ufficiose chiedenti un immediato rilascio di passaporti per la Mongolia intestati agli automobilisti loro concittadini (o ingegneri o ufficiali che fossero). Che fare? Bisognava lottare per il bene della patria, e il Wai-wu-pu lottò. Cominciò col negare i passaporti.
Vi furono numerose visite di segretari e d’interpreti europei; il Wai-wu-pu offrì loro del thè, ma resistè eroicamente alle loro domande. In fondo il Wai-wu-pu è stato creato apposta per dir di no agli europei. Gli europei domandavano porti, miniere, ferrovie, cattedre universitarie, indennizzi per missionari martirizzati, e la Cina sentì la necessità d’un organismo di difesa. Formò quello Tsung-li-yamen, di buona memoria, che aveva l’incarico essenziale di mantenere sospese tutte le domande europee, rimandando le risposte al futuro remoto. Dopo i Boxer le Potenze non vollero più saperne dello Tsung-li-yamen e il governo cinese le contentò creando il Wai-wu-pu, il quale offre questo vantaggio: che non lascia più le domande sospese. Risponde subito di no.
Ma in forza dei trattati, la Cina non poteva negare i passaporti a degli stranieri che volevano traversare una provincia dell’Impero. E poi una grave complicazione sopravvenne a rimuovere il Wai-wu-pu dalla sua determinazione. Una complicazione la cui importanza non era stata preveduta e approfondita dalle sagaci menti mandarinali: le automobili erano giunte a Pechino! Peggio ancora, esse si mostravano per le vie di Pechino — per quanto ciò fosse stato loro proibito a meno che non avessero consentito a lasciarsi trascinare da uno, o al più due muli. Se si rifiutavano ancora i passaporti, quelle macchine diaboliche, sarebbero evidentemente rimaste a Pechino. Avrebbero continuato a turbare la quiete sacra della capitale, avrebbero sconvolto le menti del popolo, disseminato per tutto i germi della corruttela occidentale, sollevato lo sdegno degli spiriti, le vendette del Feng-shui, l’ira degli dei. Lasciarle a Pechino era come lasciare il nemico nella propria fortezza. Meglio valeva mandarle via al più presto. E il Wai-vu-pu offrì i passaporti. Sì, ma per la Manciuria.
La battaglia diplomatica si riaccese. Nuove note, nuove visite, e nuovo thè. I cinesi perdevano terreno. Consentirono alla fine a mandare dei passaporti per la Mongolia, senza però nominarvi l’automobile. La Legazione d’Italia li respinse. Il Wai-wu-pu mandò allora dei passaporti che sembravano atti d’accusa. L’Itala ad un alt presso Che-to-sa.
(A sinistra il Principe Borghese ed Ettore a destra). “Il chi-cho è una cosa nuova in Cina — dicevano quei preziosi documenti — ragione per cui il Governo Cinese non si assume alcuna responsabilità riguardo al viaggio. Al contrario ritiene il viaggiatore pienamente responsabile d’ogni male o danno che potesse derivare per colpa sua e del suo carro e autorizza le autorità a sequestrargli denaro e oggetti come garanzia delle indennità che egli dovesse eventualmente pagare„. Era una perfetta autorizzazione a svaligiarci. La legazione italiana respinse anche gli atti d’accusa, annunziando al Wai-wu-pu che il principe Borghese ed i suoi
compagni di viaggio sarebbero partiti alla data stabilita anche senza passaporti, e che il Governo cinese era tenuto a rispondere della loro sicurezza. Cercati inutilmente nuovi pretesti per non cedere (fra i quali quello che non era possibile disturbare, per oscure ragioni politiche, i principi mongoli) finalmente il Wai-wu-pu si decise a rilasciare i desiderati passaporti per la Mongolia contentandosi, come ultima soddisfazione atta a “salvare la faccia„, di rifiutare la loro traduzione in mongolo. Questa traduzione, in verità, avrebbe troppo disturbato i principi. E poi, bisognava ben rifiutare qualche cosa agli stranieri, per un sacrosanto principio, e per non creare precedenti pericolosi.
Le trattative dei passaporti fornirono un allegro argomento di conversazione ai ritrovi della piccola città diplomatica di Pechino. Ma nella realtà l’argomento era serio. Esso dimostra che il Governo cinese è oggi quello che era prima delle spedizioni internazionali di sette anni or sono; in esso la stessa ostilità contro gli stranieri, la stessa ignoranza sulle loro cose, una immutata arroganza e una immutata malafede. Le invasioni, le stragi, la guerra in Manciuria, non hanno modificato in nulla gli uomini e le menti cinesi. E qualche solitario che segue attentamente tutti i piccoli fatti nelle quotidiane relazioni diplomatiche col Governo cinese, riconosce oggi i gravi sintomi di xenofobia che precedettero l’assedio alle Legazioni, e prevede una nuova êra di sangue.
L’attesa dei passaporti non ritardava i preparativi per la partenza delle automobili. Da Shang-hai, per la ferrovia di Han-kow, era giunto un carico di benzina e di olio destinato ai rifornimenti lungo la via della Mongolia. Una carovana di 14 muli era partita da Pechino con questo carico, e il giorno 4 di Giugno un telegramma spedito dalla Banca Russo-Cinese di Kalgan annunziava che 19 cammelli si trovavano già in viaggio per la Mongolia sotto la guida di un Lama carovaniere, trasportando ai pozzi di Pong-kiong, di Udde e alla città di Urga la benzina e l’olio. Un primo deposito ci aspettava a Kalgan.
Di venticinque vetture iscrittesi per la corsa, soltanto cinque si presentavano alla prova. Esse erano un triciclo Contal da sei cavalli, due De Dion-Bouton da dieci cavalli, una Spyker da quindici cavalli, e la nostra Itala da quaranta cavalli. Le prime tre francesi, la quarta olandese. Un’automobile di grande potenza ma pesante, e quattro più deboli ma leggiere. L’Itala superava infatti di seicento chilogrammi la più greve delle macchine avversarie — la Spyker che in completo assetto da viaggio pesava 1400 chilogrammi.
In Francia, dal primo annunziarsi della gara, tutti i competenti si erano trovati d’accordo nel ritenere che un tipo di piccola automobile avrebbe avuto le maggiori probabilità di successo. Sulla buona strada la macchina leggiera avrebbe potuto sviluppare minore velocità d’una macchina potente e pesante, ma in compenso avrebbe potuto con ben maggiore facilità e rapidità trarsi d’impaccio nei passi difficili — e nel tragitto Pechino-Parigi i passi difficili si prevedevano, per dir così, ad ogni passo.
Il Principe Borghese aveva invece ritenuto, per la pratica di lunghi viaggi in automobile, che una vettura di gran forza avrebbe potuto sopportare meglio, in virtù della sua solidità, i disagi di una avventurosa traversata, e che la diminuzione della potenza non fosse compensata dalla diminuzione del peso. Dove una macchina di 1400 chilogrammi può trarsi d’imbarazzo, lo può anche una macchina di 2000 chilogrammi, e col vantaggio di avere dai 20 ai 30 cavalli di forza in più.
Questa gara di due tendenze, questa prova pratica di due teorie, formava una delle più importanti caratteristiche della corsa. E fin dal mese di Marzo, a proposito dell’adesione del Principe Borghese con una Itala il Matin metteva in evidenza la curiosa lotta della vettura grande contro la piccola, "l’una capace di andar presto e l’altra di passare per tutto„.
La Spyker le De Dion-Bouton e il Contal giunsero a Pechino per la via di Ta-ku. Il 4 Giugno i loro conduttori e il mio buon collega Du Taillis del Matin andarono a riceverle alla dogana di Tien-Tsin, le fecero caricare su due vagoni speciali, e le scortarono viaggiando sullo stesso treno, fino a Pechino. Qui li attendeva una sorpresa sgradevole. Durante il tragitto, uno dei due vagoni speciali era sparito. Chi non avrebbe intraveduto la mano misteriosa del Wai-wu-pu in questa scomparsa? Ma si scoprì subito, per l’onore del Wai-wu-pu, che la sua mano era innocente. Il vagone, distaccato dal convoglio ad una stazione intermedia giaceva in un binario di scambio senza che nessuno potesse dirne Attraversando un villaggio cinese. la ragione, per uno di quei fenomeni ferroviari che si verificano di tanto in tanto sulle linee di tutti i paesi. Giunte a Pechino le automobili si vendicarono del ritardo percorrendo la città in lungo e in largo, in quel giorno e nei giorni successivi.
L’Itala, arrivata una settimana prima da Han-kow, manteneva un contegno più riservato. Aveva fatto qualche gita di prova fuori della porta Est, sulla strada del Palazzo d'Estate, poi, soddisfatta di se stessa, si era ritirata nel cortile della Legazione Italiana abbandonandosi alle cure di Ettore, il suo meccanico. Egli lucidava, ungeva, verificava, le girava intorno osservandola da ogni parte, come lo scultore gira intorno alla sua creazione. Ettore Guizzardi, il simpatico compagno di viaggio del principe Borghese e mio, non è uno chauffeur per professione è uno chauffeur per istinto. Egli è figlio di un meccanico ferroviario; ha dalla nascita intimità con le macchine; le comprende subito, di qualunque genere esse siano; le giudica ad un’occhiata, come l’allevatore giudica il cavallo.
La sua storia è singolare. Un giorno, dieci anni or sono, Fra i sabbioni in vicinanza di Huai-lai. vicino ad una villa del Principe Borghese, ad Albano, presso Roma, avvenne un disastro ferroviario. Una locomotiva deviò e si rovesciò sulla banchina capovolgendosi. Il Principe, che si trovava nella villa, accorse con i suoi servi. Trovarono il macchinista morto; il fuochista, un giovinetto di quindici anni, ferito al viso, venne raccolto svenuto, portato nella villa, curato. Il giovinetto era Ettore. Il morto, suo padre.
Quando il fanciullo fu guarito, il Principe gli offrì di rimanere nella casa che lo aveva accolto. E ne fece uno chauffeur. In quell’epoca Don Scipione possedeva una delle prime automobili a benzina, da sei cavalli, una di quelle buffe vetture che non si vedono più, col motore dietro, e la trasmissione a cinghia che nelle salite aveva bisogno di essere impeciata per fare il suo dovere. Ettore si rese subito padrone di tutti i misteri di quella macchina, la costrinse a servire, e potè, sotto la direzione del Principe, farle fare un viaggio da Roma ad un castello dell’Ungheria meridionale dove vivono dei parenti della famiglia Borghese. Ettore, dopo questa prova, fu mandato a studiare meccanica; lavorò dapprima come semplice operaio negli stabilimenti della F.I.A.T. a Torino, poi a Genova nel cantiere Ansaldo, dove studiò meccanica navale, poi in altri opifici, si conquistò la patente di meccanico, e tornò alle automobili del Principe.
Da allora undici automobili hanno subito la sua signoria. Ed è adesso al comando di tutte le macchine di casa Borghese; macchine d’illuminazione, caldaie di riscaldamento, motori per le lavanderie, pompe; e possiede un’officina dove lavora a riparare e a creare. A creare anche, perchè Ettore inventa, modifica, applica nuovi apparecchi alle automobili, e potrebbe dare degli eccellenti consigli alle case costruttrici. Egli è pieno di risorse, sa trovare un rimedio immediato ad ogni male delle sue macchine, sempre pronto, col martello e col cervello. Agisce in silenzio, rapido, con un fare militaresco. Quando sente chiamare il suo nome risponde: Comandi. — Ha un corpo e un viso da bersagliere.
La prima volta che lo vidi, era sdraiato sotto l’Itala, supino, immobile, con le braccia conserte. Al primo momento credetti che lavorasse. Invece si divertiva. Poi, in viaggio, mi sono accorto che quella è una delle sue posizioni favorite, un suo passatempo; quando non ha nulla da fare, si sdraia sotto l’automobile e la contempla, bollone per bollone, pezzo per pezzo, vite per vite. E s’intrattiene a lungo in quegli strani colloqui con la sua macchina.