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«Concedi — o divina — che io pure gusti il sapore delle carni che vestono la tua anima, e di cui già altri saziasti». Anima? coscienza? pensiero? ombra di tedio interiore? Ma no! Tu sei come il sole che appare, come la terra che feta, tu sei forza soltanto, e immane. Ma anima non sei! ma che tedio! che passione! che coscienza! Sei forza: ecco che cosa tu sei.

Invano è l’eremo, invano è il Nirvana, invano sta il chiostro. Mettevano i monaci antichi le scolte armate attorno alle mura dei conventi: ma Venere ride e penetra. Ed il Beato Angelico, da te, Venere, toglie i volti soavi, e frate Guido toglie dal canto liturgico le note d’amore, e frate Francesco celebra le cose create, e lauda pur sempre te, demoniaca, forza terribile! Disperato Origene si deturpa; s’assorbe il deriso Simone sull’alta colonna. Crollano i conventi dei trappisti e dei buddisti quando tu appari: crollano i sistemi dei filosofi, quando tu ridi! Romba per te il lavoro umano e suona l’officina; l’epopea e la tragedia marciano all’epilogo sanguinoso, e tu col plauso e col canto ne segni il ritmo, o fatale! Ecco Polifemo, il mostro, che si nutre di uomini; eppure — quando Galatea appare sul campo del mare — piange come un fanciullo e cerca su la zampogna umili suoni; ecco Priamo che il sangue dei figli buoni e

Panzini. La lanterna di Diogene. 12