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tere de’ suoi diritti con altri ferrovieri. Lo so: ma so che vi è nell’umanità un numero (e forse più grande che non supponiamo) di uomini che se lo potessero, e potessero vincere la superstizione di quella che si dice civiltà e la paura della scomunica che i grandi sacerdoti del progresso lancerebbero, uguale pensiero formerebbero di quello che io penso.

Che altro furono i buddisti della sacra India? Che altro furono gli asceti cristiani, vilipesi dai trenta tiranni del libero pensiero? Che altro sono molti fra i suicidi del tempo nostro? Degli scioperanti dalla vita sociale: disertori di questa miserevole milizia: dei ribelli che non vogliono più recitare la farsa: degli stanchi dello spettacolo dei bussolotti: dei facchini tediati del peso. Ma questo genere di sciopero è biasimato da tutti.

Il Nirvana, la narcosi dell’anima che si addormenta nell’immobilità e nella contemplazione, ist verboten, anche in Italia. E poi, come si potrebbe? Ai nostri orecchi il tram batte la sua furibonda campana; l’officina urla; l’uomo politico arringa davanti al suo baraccone. Il rifugio nel Nirvana è diventato impossibile! Onde è che molti, giunti alla disperazione, si appigliano al partito di farsi saltare le cervella, avvertendo semplicemente il signor questore che sono «stanchi