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XIII.
La quaglia e il Nirvana.
La casa del cantoniere.
Quasi tutti i vesperi le mie gambe mi portano là, verso la piccola pineta, lungo il bell’argine della via ferrata, da cui si domina il mare lì presso, ed il monte da lontano; ma quando arrivo alla casa del cantoniere, mi fermo. Non è che io mi voglia fermare: è come un imperativo categorico di questo terribile orologio dell’anima che ho dentro di me, e squilla la fermata davanti alla casa del cantoniere. Quella piccola casetta ride nell’eremo del paesaggio; e quella stazione quieta, accanto a quel binario (umile e pur congiunto ramo di quell’immenso sistema nervoso che fascia la terra con doppia sbarra d’acciaio), mi seduce più di una sontuosa villa.
Io non so che cosa pensi di me quella famigliuola del cantoniere, vedendo questo intruso, fermo lì, fuori del recinto, e che fissa, e sta immobile: mi potrebbero ragionevolmente domandare: «Ma si può sapere che cosa cercate qui?» Invece non mi hanno domandato