La guerra (Goldoni)/Nota storica
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NOTA STORICA
La terribile guerra dei Sette anni che non turbò, per fortuna, la quiete del nostro paese, commosse tuttavia anche in Italia, quasi indizio di nuovi tempi e di oscuri avvenimenti che si preparavano, gli animi delle popolazioni; e perfino le donne dell’infima plebe e i fanciulli parteggiavano chi per la formosa Imperatrice e chi per l’eroico Federico. Noi sorridiamo oggi leggendo nei Notatorj inediti del Gradenigo che un diverbio sulla battaglia di Kollin nel 1757, in una bottega di caffè a Venezia, finì con un processo penale (v. in data 7 luglio); che a Verona l’anno stesso «non pochi» cittadini «invasati» eransi divisi per le vicende della guerra in due contrari partiti, e che alcuni fanciulli «correndo per la Città vennero alle mani, poi si gettarono sassi promiscuamente, ma slanciata una pietra, questa colpì la testa di colui che rappresentava Sua Maestà Prussiana, e in pochi momenti lo stese morto sul suolo» (18 luglio); che a Venezia ancora, nel ’58, due donne a Castello bisticciandosi per cagione delle «potenze belligeranti» si accapigliarono (14 maggio e 1 agosto); che nel ’59 un prete e un maestro di musica «dialogando per la strada sopra le correnti e promiscue asprezze militari... passarono tant’oltre, che venuti alle mani con spropositati modi, tanto si percossero, e per stanchezza caduti sul suolo, si morsicarono a guisa di cani» (25 luglio).
Al Goldoni doveva nascere facilmente la tentazione di scrivere un altra commedia d’argomento militare (dopo l’Amante militare 1751 e l’Impostore 1754) e l’intitolò audacemente la Guerra (vedasi prefaz.): ma con la memoria risalì agli spettacoli dell’assedio e dell’armistizio a cui aveva egli stesso assistito nel 1733 a Pizzighettone, e alla vita del campo che egli aveva considerato nel ’44 a Rimini, benchè si guardasse di dire «di qual nazione fossero i combattenti» (v. scena ult.) e come si chiamasse l’anonima fortezza della commedia «temendo l’indignazione degli appassionati geniali» (v. pref.). Per prudenza si astenne sempre il dottor veneziano nel suo teatro dagli accenni diretti agli avvenimenti del tempo.
Non era già nuova la vista dei soldati e delle armi sui teatri di Venezia. Nel novembre del 1755 Gasparo Gozzi aveva osato rappresentare sull’ ampio palcoscenico di S. Gio. Grisostomo il combattimento navale dei Veneziani, infiammati dal vecchio Dandolo, sotto le mura di Bisanzio (Isaccio liberato); più di recente l’abate Chiari, nell’anno comico 58-59, a Sant’Angelo, fece cozzare in grande battaglia i Goti e i Mori presso Cordova (l’Amor di patria) e gli eserciti del barbaro Kouli-kan sulle colline di «Ispaham» (K. re di Persia e la Morte di K.); e di «strumenti militari» avevano risonato nel prossimo autunno a S. Luca i padiglioni di Alessandro e di Dario nella tragicommedia del Goldoni stesso (Gli Amori di Alessandro Magno). Ma in quelle bizzarre composizioni una parte soverchia erasi conceduta alla fantasia, per non dire alla stravaganza.
Il Goldoni volle qui ritrarre, per quanto era possibile, dal vero. Nel novembre del 1733 il giovane dottor veneziano, mentre a Crema rimuginava i versi del Belisario, fu mandato dal residente Bartolini a esplorare gli avvenimenti della guerra austro-sarda a Pizzighettone e arrivò che già la fortezza, dichiarata inespugnabile dai più periti ingegneri, aveva, dopo qualche settimana d’assedio, alzato la bandiera bianca (28 nov.). «Si stentò ad accordar le capitolazioni» scriveva il Muratori negli Annali «e due volte fu spedito al principe di Darmstat governatore di Mantova per questo; e perciocchè premeva forte agli alemanni di salvare il presidio di Pizzighettone, giacchè ostinandosi nella difesa sarebbe rimasto prigioniere di guerra, consentirono alla resa non solamente del forte, ma anche della piazza, con aver ottenuto le più onorevoli condizioni per la lor truppa» (Opere del M., t. LXI, Venezia, 1790, pp. 475-6: non potei vedere la Relazione dell’assedio e resa di Gero e Pizzighellone cit. da Fr. Cusani nella Storia di Milano, Mil. 1863. II, p. 223).
«Non credo» racconta a questo proposito il Goldoni nelle memorie premesse ai tomi dell’ed. Pasquali (t. XII: v. vol. I, p. 86, della presente ed.) «si dia spettacolo al mondo più bello, più vivo, più dilettevole di un armistizio. Il campo parea una cuccagna. Danze, giochi, gozzoviglie, tripudj. Un infinito concorso di Popolo, che vi accorrea da tutti i luoghi circonvicini. Un ponte gettato sopra la breccia, per dove comunicavano gli inimici, divenuti amici per il momento (sic). Tutt’era in festa, tutt’era in gioia. Io ho dato una picciola idea di questo ameno spettacolo nella Commedia intitolata La Guerra». Pochi mesi dopo, la mattina del giorno di S. Pietro (1734), l’autore assisteva dalle mura di Parma a quella famosa battaglia che anche il Chiari ci ricorda nelle sue rime e descrisse in parte nel suo primo romanzo, la Filosofessa italiana (1753). Niente dunque invenzioni, da cui rifugge quanto può il pittore della natura. Perfino l’odioso commissario Don Polidoro, affermasi nei Mémoires, non è personaggio fantastico: «On m’en avoit parlé, on me l’avoit montré, et je l’ai mis sur la scéne sans le nommer» (P. II, ch. 31).
Certo che il quadro della vita militare che la commedia ci offre, se riesce pittoresco e sincero, non ci seduce affatto. Ma la colpa non è dell’autore. Gli ufficiali e i soldati goldoniani li troviamo già descritti qua e là nelle commedie, nei romanzi, nelle cronache di tutti i paesi. Ricordiamoci che il Goldoni aveva un fratello, il tenente Giampaolo ben noto ai lettori delle Memorie, ai servizi del Duca di Modena. Ricordiamo che l’abate Chiari, figlio d’un colonnello ai servizi della Serenissima, fa dire alla filosofessa: «Pare impossibile, che gente, la quale ogni momento, per così dire, ha al fianco la morte, possa vivere con tanta indifferenza dell’avvenire, e non pensare ad altro che a divertirsi. E pure dalle persone di questo carattere s’ama più l’allegria in tempo di guerra, che non si fa durante la pace, e si studiano tutte le maniere di passar un giorno più allegramente dell’altro» (P. V, art. 1). Queste poi erano le «occupazioni dell’ufficialità francese» a Milano nell’inverno 1733-34, a cui accenna la donna-soldato: «Oltre che certe leggerezze immodeste non si confacevano al mio sesso, c’erano ancora degli altri disordini... Quel sedere ogni giorno a mense lautissime, ed esser costretta dall’esempio altrui a mangiare e bere più del bisogno: quel vegliare le notti intere in un ballo, o ad un tavoliere di giuoco, dopo essersi sfiatati per tre ore continue a susurrare in un teatro, mi pareva una vita non meno incomoda, che pericolosa alla mia salute» (ivi). Ma improvvisamente giunse l’ordine di partire. «Che romore, che fretta, che dispiacere, che confusione! Quante dipartenze amarissime, in poche parole! Quante promesse d’una inviolabile fedeltà, che non dovevano durare sino alla mattina seguente! Quante furtive adunanze, e quanti congressi notturni, che progettati poche ore prima, andavano a finire col non vedersi mai più! Osservai l’anno appresso, che di quanti eravamo allora in Milano, ne mancarono al nostro ritorno più di duecento, tutti fiore di gioventù, che finirono in Italia di vivere» (P. V, art. 5).
Un’altra appendice, a compiere il quadro goldoniano, togliamo dalle Lettere critiche dell’avvocato Costantini, dove parlasi di quelli che trattano l’esercizio delle armi: «Vorrei dirvi qualche cosa intorno a’ disordini, per non intitolarle empietà, che fa loro commettere l’interesse. Alcuni hanno cento pretesti per stroncare le paghe a’ Soldati; ne fanno comparire il numero maggiore del vero, per defraudare il Principe; se la intendono co’ vivandieri, acciò guadagnino eccedentemente, per dividere l’utile; intascano le paghe, e mandano i Soldati a rubare nel Paese nimico, e nell’amico; prestano denaro ad usura agli Ufficiali subalterni; vendono a caro prezzo i cavalli, che hanno fatto predare, o che hanno comprati per minuzie da chi li ha predati; in somma hanno tali e tante vie di accumulare il denaro senza timore delle Leggi, che convien dire non aver essi altra ragione, che un’insaziabile avidità» (t. IV, 1744: dall’ed. Bassaglia e Pasinelli di Ven. 1750, IV, pp. 30-3 1 ). Gravi disordini erano anche negli eserciti di terra e di mare della Repubblica, come tutti sanno. Ma leggasi un’altra lettera intitolata appunto la Guerra, che ha la falsa data 1752 e fu dall’autore aggiunta, non so quando, al primo tomo: «Se poi mi parlate de’ Soldati gregari, questi è tanto lungi che abbiano in vista la gloria, quanto sono una congerie di gente oziosa, nimica della fatica, amica dell’ubbriachezza, senza arte, nè impiego, ricolma di vizj, e che non va in traccia che di commettere impunemente ogni delitto, talmente che altro non hanno d’uomo, che la figura. In fatti se essi capissero, che sono come una mandra di armenti condotti al macello, destinati a vivere fra patimenti, col mangiar pane tristo, e bere più acqua che vino; dormir su la terra, o al più su le tavole, marciar di giorno e di notte per monti, per piani, per fanghi e per precipizi; valicar fiumi con l’acqua sino al collo; abbrustolirsi la state, ed intirizzire nel verno; credetemi, che non andrebbero a fare si orribile sagrificio della loro vita» (v. G. Ortolani, Settecento, p. 187).
Tuttavia anche questa volta bisogna cercare nell’intermezzo goldoniano che ha per titolo Il Quartiere fortunato, e che appartiene con tutta probabilità al decennio 1734-44, l’idea primitiva della commedia (v. Nota storica dell’ Amante militare, vol. VII, pp. 324-5). Basta leggere il monologo di Roccaforte nella seconda parte: «Viva la guerra, - Viva l’amore. - Quando si more, - Schiavo, signori. - Quando si vive, - Lieti si sta. - Dica chi vuol, la guerra, - È il mestiere più bel di questo mondo.... - Oh, mi diran: si muore; - E vero; ed io rispondo: - Che ognun deve morir che nasce al mondo». Questa è la filosofia dell’alfiere Faustino e di don Cirillo. Ed ecco ora il colloquio con Belinda: «B. Dove, dove si presto? R. Addio, madama. - Vado in distaccamento; - Vado a’ posti avanzati. - S’io vivo, tornerò lieto e giocondo; Se moro, ci vedremo all’altro mondo. - B. Oimè, voi mi lasciate? - R. Di che vi lamentate? - B. Ah che m’avete - Promesso ognor d’amarmi, - D’esser fedele, e non abbandonarmi. - R. Ebben, non ho adempito - A quanto vi ho promesso? - Fin che vi stetti appresso - Vi ho serbato l’amor, la fede mia; - Ora vuole il dover ch’io vada via». Con un po’ più di civiltà don Faustino dice le medesime cose a donna Florida.
Credo pure opportuno di richiamare alla memoria del lettore le ultime righe che chiudono la prefazione dell’Amante militare, pubblicata nell’ed. Paperini nel principio dei 1754: «Ho cercato di rimarcare, che siccome l’onore è quello che arma il fianco alle persone ben nate, così tutto devono a questo sagrificare. Che amano alcuni per bizzarria, alcuni per passion vera, ma tutti egualmente al tocco del tamburo si scordano d’ogni affetto, lasciano qualunque attacco, e corrono incontro ai pericoli per la bella immagine della Gloria». Prefazione soppressa nell’ed. Pasquali, nel 1768, e sostituita dalla seguente avvertenza che già conosciamo: «Questa commedia rassomiglia moltissimo a quella intitolata la Guerra. Il fondo è quasi lo stesso, ma la condotta è diversa. Quantunque la Guerra in quest’edizione preceda l’Amante militare, questa però è nata dieci anni prima dell’altra, e si può dire esser questa l’originale e l’altra la copia.... Non è mio costume tampoco di copiar me medesimo, ma questa volta ho dovuto farlo, e ne prevengo la critica, confessandolo pubblicamente. Spero però che il Lettore sarà contento d’aver due Commedie su lo stesso argomento, diversamente immaginate e condotte, l’una semplice, cioè la presente, e l’altra macchinosa, critica ed involuta. L’Amante militare ha fatto più piacere al Pubblico, non so se per il merito di essere stata la prima, o per quello della semplicità, ch’è l’anima della vera commedia. La Guerra non ha piaciuto; ma siccome aveva ella bisogno di macchine e di apparato sontuoso, questa sontuosità mancata, la Commedia ne ha risentito del pregiudizio; onde mi confermo sempre più nella massima, che le commedie a spettacolo non sono vere commedie; e s’io ne ho fatto di tal genere, l’ho fatto per compiacenza» (vedasi vol. VII della presente ed., pp. 257-8).
Credo che l’autore non avesse torto di attribuire l’insuccesso della Guerra alle macchinose operazioni militari (più tardi «levate» in parte dalla commedia, in parte «moderate»: p. 370) le quali ritardavano l’azione e raffreddarono il pubblico. Non si presti dunque fede alle Memorie francesi, che al solito sbagliano a dirci l’origine, la data e l’esito della presente composizione. Che la Guerra fosse rappresentata «il carnovale dell’anno 1760» come si legge nella intestazione dell’ed. Pasquali, ci vien ora confermato dall’elenco delle recite che esiste nell’archivio del teatro Goldoni o di S. Luca.
In quell’anno il commediografo, «per compiacere» altrui, scriveva in difesa della compagnia di Gesù un poemetto in ottava rima intitolato il Burchiello di Padova, quel burchiello che allo stesso autore quattro anni prima aveva ispirato un’altra serie di stanze più famose, in volgare veneziano (v. Componimenti diversi, II, Ven. Pasquali, 1764 e Spinelli, Bibl.ia goldon., Milano 1884, p. 219). Anche nel burchiello che da Padova trasportava i viaggiatori a Venezia, si parlava con calore della guerra in Germania; e il poeta così racconta:
...Io vicin mi trovai di due soldati.
Ricchi più di valor che di denari.
Delle guerre si parla, e inviperito
Ciascheduno difende il suo partito:
Chi loda li Prusso, e chi l’Austriaco esalta.
Chi dispone gli acquisti e la vittoria,
Chi colla voce l’inimico assalta,
Chi le perdite ancor converte in gloria,
Chi le carote per costume appalta,
Chi nega i fatti della conta istoria,
Chi l’Oder, dice, la Sassonia bagna,
Chi la Vistula crede in Alemagna.
Uno dei due guerrier chi aveva accanto.
Alza la voce, e in guisa tal ragiona:
Voi, ch’esaltate della guerra il vanto,
Perchè non ite a seguitar Bellona?
Col capo rotto, e con un braccio infranto
Sapreste, se il pugnar sia cosa buona.
Bello è di guerra il favellar sedendo,
Io, che ci fui, le sue bellezze intendo.
La morte è il men del militar mestiere;
Una volta si more, ed è finita.
Molto peggio di morte è il non avere
Riposo mai, finchè si resta in vita,
E il dormir su la terra, e l’acqua bere
Qualche volta fetente imputridita,
E soffrire nel verno il crudo gelo
E nella state il gran bollor del Cielo.
Meglio per me, se nella prima etate
A studiare di cor mi avessi dato.
Meglio per me, s’io fossi Prete o Frate,
E meglio ancor fra i Gesuiti entrato ecc....
Ma non ostante lo spirito poco marziale del Goldoni, da lui confessato (p. 369) e i suoi sentimenti di umanità, comuni ormai ai letterati del suo tempo in Italia e oltralpe (v. E. Bertana, Gli sciolti sulla Guerra di G. Parini, in G. Stor. Lett. It., vol. XXVIi. 1896, f. 2-3; G. Natali. La guerra e la pace nel pensiero italiano del sec. XVIII, in Italia moderna II, f. 2, 20 ott. 1904; G. Ortolani, Settecento cit., passim), egli seppe rendere con certa efficacia quel quadro grottesco di leggerezza, di vizio, di corruzione e di eroismo. Solo vi è certe volte una soverchia analisi; e certi personaggi, come don Polidoro e donna Florida nel primo atto, don Faustino, don Sigismondo e don Sancio nel secondo, e ancora donna Florida nel terzo, parlano troppo a lungo: difetto di misura a cui il pubblico non perdona mai. Eppure alcune scene sono di mano maestra, come per esempio la prima, qualche figura, come don Cirillo, e d’una vivacità indiavolata, qualche altra, come Donna Aspasia, e di una originale psicologia. Una nobiltà eroica si ammira nella figura di don Egidio, la quale a me par sincera, sebbene mi ricordi vecchi eroi della comedia spagnola, e mi pare indispensabile all’autore per la sua fedele rappresentazione. Non so perchè, ogni volta che rileggo l’ultima scena del secondo atto, penso al famoso capitano Sandracca nella Torre di Nonza del Guerrazzi. Abbiamo visto con quanta lode il Goldoni dedicasse nel ’57 a Napolion d’Heraut «Sergente Generale al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia» la Donna di testa debole (v. vol. X di questa ed.); si veda anche nella lettera a Franc. Albergati Vezza, che precede alla commedia presente, com’egli sappia rendere onore al soldato di ventura, quando compia onoratamente il proprio dovere.
È vero, e l’autore lo dichiara, che gli amori di Florida e Faustino somigliano molto a quelli dei due protagonisti dell’Amante militare, ma le fila della commedia si sono qui allargate come lo scenario. Naturalmente di ciò si duole l’azione, che qua e là si disperde negli episodi soverchi: bisogna ricorrere al titolo per ritrovare l’unità. Per esempio, che fa qui Lisetta? Questa contadinella goldoniana ci ha già scoperto la sua malizia nel Feudatario e nella Villeggiatura. E anche la vivandiera che fa? Noi abbiamo conosciuto Orsolina nel teatro veneziano, sott’altri panni. Questo presso i lettori non nuoce; ma forse nocque presso gli spettatori del teatro di S. Luca.
Per le accennate ragioni, oppure per la difficoltà della scena, nessun capocomico, ch’io sappia, osò ripetere sul teatro pubblico la recita della Guerra nel periodo del fervore goldoniano, cioè nella prima metà dell’Ottocento, in cui si esumarono molte opere del grande veneziano a ragione o a torto dimenticate. La vediamo invece nel repertorio della compagnia Roffi a Firenze e altrove, circa il 1780 (Rasi, I comici italiani, Firenze, vol. I, 1899, p. 703). Oggi poi il tentativo sarebbe vano e folle.
Basta che a questa commedia sia riconosciuta l’importanza storica, basta che il critico vi ritrovi qualche nuova impronta del genio di Goldoni. Ciò fece, con merito non piccolo, G. Brognoligo il quale per primo, nel 1902 (in un saggio pubblicato nel fasc. 4 della Rivista d’Italia e intitolato Il G. e la guerra: rist. poi a Napoli, Nel teatro di C. G., 1907), la sottopose ad attento e acuto esame, e l’additò agli studiosi. Dopo di lui fu lodata da A. Lazzari (C. G. in Romagna, Venezia, 1908, pp. 66-67) e, in parte, da R. Simoni («Si prenda una delle commedie minori di G.: La Guerra; vi si troveranno gli elementi con i quali un commediografo moderno potrebbe far di grandi scene, complicate, tormentose, in apparenza insolubili. Goldoni se ne serve con maggior umiltà, vorrei dire con maggior misura....» La Vedetta I, n. 11, 25 febb. 1907, p. 285). Anche il recentissimo biografo americano di Goldoni, H. C. Chatfield-Taylor (Goldoni, New York, 1913, pp. 385-8) scorge nella Guerra più severità, più naturalezza che nell’Amante militare; e non tanto gli piace il romanzesco intreccio, quanto la pittura della vita dei soldati.
Invece Raff. Nocchi nel 1856 disse che l’Amante milit. e l’Armistizio (sic) rimasero «inferiori al soggetto» (Commedie scelte di C. G., Firenze, Le Monnier, p. XXV). IL Maddalena nel 1899 non trovò nella Guerra che «abuso di rettorica militare»; la chiamò una «specie di salsa buona per tutti gli arrosti »; e la giudicò «opera debole quanto l’Am. mil.» (Figurine gold.: Capitan Fracassa, Zara, 1899, p. 4). A R. Schimidbauer, nel 1906, i soldati parvero convenzionali e privi d’ogni impronta individuale. Egli credette che Goldoni volesse proprio fare una satira sull’esempio di S. Rosa, e restò deluso (acuta soltanto la satira del commissario Polidoro: Das Komische bei G., München, pp. 143-4). Per Lod. Mathar, tolto il quadro della vita militare, non restano nella Guerra che le lungaggini d’un’azione povera e noiosa (C. G. auf dem deulschen Theater des XVIII Jahrhunderts, Montjoie, 1910, pp. 38, 68-9). Nel 1911 A. De Gubernatis scrisse che l’Am. milit. e la Guerra hanno gli stessi pregi, gli stessi difetti: «l’intreccio comico non vi s’innesta troppo felicemente; onde noi siamo piuttosto davanti a scene staccate di vita castrense, che di fronte a vere e proprie commedie, bene ordinate e compiute» (C. G., Firenze, p. 167). Finalmente Att. Momigliano osservò che «certe commedie del G. non han di vivo che alcune macchiette: così La Guerra, dove esse dopo il primo atto non svelano più nulla di nuovo... Nell’Am. mil. l’argomento è insolito, il mondo no; qualche cosa di simile si può dire della Guerra. Per quanto svariati siano i titoli, gli ambienti e le azioni restano relativamente uniformi» (I limiti dell’arte gold., in Misc.ea Renier, Torino 1913, pp. 84 e 87).
Ma per lo più questa commedia passò sotto silenzio, quasi fosse ignorata anche dai biografi di Goldoni. Lo Schedoni, l’implacabile moralista, vi ricamò sopra alcune sue puerili considerazioni, contento che «lo scopo del nostro Autore» sia di spirare agli uomini d’armi «fra le bellicose idee le doti morali» (Principii morali del teatro, Modena 1828, pp. 58-9). Di recente C. Dejob notò le due figure di Aspasia e di Polidoro (Les femmes dans la comédie ecc., Paris, 1899 pp. 138, 194-5) e ammirò nella Guerra «un tableau amusant, circonstancié et, en somme, sympatique de la vie des camps (Le soldat dans la littér. franç. au 18 siècle, Paris, 1899, p. 31). V. Brocchi invece affermò che la Guerra e l’Am. milit. «svelano crudamente corruzione di soldati e di ufficiali» (C. G. e Ven. nel sec. XVIII, Bologna, 1907, p. 35). L. Falchi vi cercò le audaci idee dell’autore intorno alle istituzioni militari («L’amore di Faustino e di Donna Florida si svolge, con poca naturalezza, in mezzo alle scene riferite» Intendimenti sociali di C. G., Roma, 1907, pp. 112-5). Ma E. Masi alzò la voce contro coloro che, in grazia di queste due commedie, gabellano Goldoni «per un pacifista ed un antimilitarista dei giorni nostri» (C. G., discorso, Firenze, 1907, p. 22). E qui poniamo fine volentieri a una sì fatta rassegna, forse inutile e certo noiosa (solo aggiungiamo E. Schmidt, nel suo volume su Lessing, Berlino, 1899: cit. da Maddalena, Lessing e G., estr. dal G. Stor. 1906, p. 17).
Strano a dirsi, maggior fortuna ebbe la Guerra fuori di Italia. In Francia, dove i capolavori veneziani del Goldoni restarono sempre ignorati e dove il numero delle commedie tradotte è così scarso, la Guerra trovò ben due traduttori: M. Mesle, nel 1764 (la Guerre: v. Blanc, Bibliographie Italico-Franç: Milano, II, 1886, colonna l303; e schedario inedito di Edg. Maddalena) e J. L. Nyon, nel 1807 (La guerre el la paix: Blanc, l. c.). - In Germania fu lodata quando comparve nel t. VI (1764) dell’ed. Pasquali (v. Bibliothek der schönen Wissenschaften: Mathar, l. c. 37-38) e più ancora quando fu rappresentata con grande fortuna a Lipsia nel genn. e nel febbr. del 1768 (lo scrittore delle Unterhaltungen la paragonò a una pittura sul gusto della scuola fiamminga, e la disse piena di movimento nell’azione e di varietà ne’ caratteri: c. s., p. 95). A Vienna fu tradotta da J. G. von Laudes e recitata in quello stesso anno 1768: la versione uscì a stampa nel 1770 (Der Krieg oder das Soldalenleben: L. Mathar, pp. 68-9, e schedario Maddalena). Ma già nel 1767 a Lipsia l’aveva trasportata in tedesco G. Enrico Saal, nel primo tomo delle sue traduzioni goldoniane (Mathar, 181). Finalmente di nuovo nel 1793 la voltò dall’italiano, oppur la ridusse, un cognato del Goethe, il Vulpius, e fu recitata nel teatro di Weimar. In questa occasione il più grande poeta della Germania scrisse un prologo che riferiamo tradotto da Edgardo Maddalena (Figurine gold. cit., p. 4, n. 3):
«Con lieto cuore vi do ora il saluto mancato in principio. Me n’offre occasione la commedia ch’oggi si recita. Udrete bensì poco assai di politica, né apprenderete perchè gli uomini facciano le guerre e quale sia il fine ultimo d’ogni battaglia. In compenso vi sarà risparmiata la vista atroce delle spade che uccidono, del fuoco distruttore delle città, nè vedrete calpestare il raccolto non ancor maturo nello scompiglio della mischia. Vedrete quanto frivoli sensi regnino proprio nel campo dove da ogni parte minaccian pericoli e come audacia e imprudenza possano in brev’ora menar alla gloria. Amore, anche di ciò avrete prova, sa insinuarsi nelle tende come nelle case e degli aspri rumori del combattimento si compiace quanto del suono d’un flauto. Anche là l’interesse che tutto corrompe non cerca che se stesso e il proprio utile. Noi desideriamo dunque che questo debole quadro vi diverta un po’ e vi faccia sentir il bene della quiete che noi qui godiamo lontani da ogni miseria»
Per non allungarmi troppo, accenno appena all’opera comica in tre atti (Der Krieg) che il Ramler e il Weisse ricavarono nel 1772 dal Goldoni: opera fortunata, se nel ’73 potè contare ben tre edizioni, e un’altra l’anno dopo (E. Maddalena, Libretti del G. e d’altri, Torino, 1900, pp. 5-6, estr. dalla Rivista musicale ital.; e, più a lungo, il prezioso libro del Mathar, pp. 110-4, 123, 206-7). Ricordiamo poi che la Guerra usci a Lipsia, nel testo italiano, nel t. IV di quella infelice Scelta delle commedie del G. per cura di I. G. Fraporta, che pur vantò più edizioni nel Settecento.
Il marchese Frane. Albergati Vezza di Bologna, a cui è dedicata la commedia, non si deve confondere col cugino omonimo Franc. Albergati Capacelli (v. note storiche della Serva amorosa, e del Cavaliere di spirito, voll. VIII e XIV): ma senza dubbio l’affetto e la riconoscenza verso il fedele protettore e amico di Zola Pedrosa, più che non la speranza di trovare un’occupazione in America al proprio nipote (v. epistolario gold.), ispirò al Goldoni la lunga lettera di dedica, ove si rivendicano i meriti militari del cavaliere bolognese nella campagna del Canada.
G. O.
La Guerra usci la prima volta a Venezia nel 1764, ne! t. VI dell' ed. Pasquali e l’anno slesso a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino). Fu ristampata ancora a Venezia (Savioli e Pitteri XI, 1774; Zatta cl. 1, X, 1789; Garbo X, 1796) a Torino (Guibert-Orgeas VI, 1773) a Livorno (Masi V, 1788) a Lucca (Bonsignori VI, 1788) e forse altrove nel Settecento. — Nella presente edizione si seguì il testo del Pasquali e dello Zatta approvato dall’autore. Valgono le solite avvertenze.