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Il Goldoni volle qui ritrarre, per quanto era possibile, dal vero. Nel novembre del 1733 il giovane dottor veneziano, mentre a Crema rimuginava i versi del Belisario, fu mandato dal residente Bartolini a esplorare gli avvenimenti della guerra austro-sarda a Pizzighettone e arrivò che già la fortezza, dichiarata inespugnabile dai più periti ingegneri, aveva, dopo qualche settimana d’assedio, alzato la bandiera bianca (28 nov.). «Si stentò ad accordar le capitolazioni» scriveva il Muratori negli Annali «e due volte fu spedito al principe di Darmstat governatore di Mantova per questo; e perciocchè premeva forte agli alemanni di salvare il presidio di Pizzighettone, giacchè ostinandosi nella difesa sarebbe rimasto prigioniere di guerra, consentirono alla resa non solamente del forte, ma anche della piazza, con aver ottenuto le più onorevoli condizioni per la lor truppa» (Opere del M., t. LXI, Venezia, 1790, pp. 475-6: non potei vedere la Relazione dell’assedio e resa di Gero e Pizzighellone cit. da Fr. Cusani nella Storia di Milano, Mil. 1863. II, p. 223).

«Non credo» racconta a questo proposito il Goldoni nelle memorie premesse ai tomi dell’ed. Pasquali (t. XII: v. vol. I, p. 86, della presente ed.) «si dia spettacolo al mondo più bello, più vivo, più dilettevole di un armistizio. Il campo parea una cuccagna. Danze, giochi, gozzoviglie, tripudj. Un infinito concorso di Popolo, che vi accorrea da tutti i luoghi circonvicini. Un ponte gettato sopra la breccia, per dove comunicavano gli inimici, divenuti amici per il momento (sic). Tutt’era in festa, tutt’era in gioia. Io ho dato una picciola idea di questo ameno spettacolo nella Commedia intitolata La Guerra». Pochi mesi dopo, la mattina del giorno di S. Pietro (1734), l’autore assisteva dalle mura di Parma a quella famosa battaglia che anche il Chiari ci ricorda nelle sue rime e descrisse in parte nel suo primo romanzo, la Filosofessa italiana (1753). Niente dunque invenzioni, da cui rifugge quanto può il pittore della natura. Perfino l’odioso commissario Don Polidoro, affermasi nei Mémoires, non è personaggio fantastico: «On m’en avoit parlé, on me l’avoit montré, et je l’ai mis sur la scéne sans le nommer» (P. II, ch. 31).

Certo che il quadro della vita militare che la commedia ci offre, se riesce pittoresco e sincero, non ci seduce affatto. Ma la colpa non è dell’autore. Gli ufficiali e i soldati goldoniani li troviamo già descritti qua e là nelle commedie, nei romanzi, nelle cronache di tutti i paesi. Ricordiamoci che il Goldoni aveva un fratello, il tenente Giampaolo ben noto ai lettori delle Memorie, ai servizi del Duca di Modena. Ricordiamo che l’abate Chiari, figlio d’un colonnello ai servizi della Serenissima, fa dire alla filosofessa: «Pare impossibile, che gente, la quale ogni momento, per così dire, ha al fianco la morte, possa vivere con tanta indifferenza dell’avvenire, e non pensare ad altro che a divertirsi. E pure dalle persone di questo carattere s’ama più l’allegria in tempo di guerra, che non si fa durante la pace, e si studiano tutte le maniere di passar un giorno più allegramente dell’altro» (P. V, art. 1). Queste poi erano le «occupazioni dell’ufficialità francese» a Milano nell’inverno 1733-34, a cui accenna la donna-soldato: «Oltre che certe leggerezze immodeste non si confacevano al mio sesso, c’erano ancora degli altri disordini... Quel sedere ogni giorno a mense lautissime, ed esser costretta dall’esempio altrui a mangiare e bere più del bisogno: quel vegliare le notti intere in un ballo, o ad un tavoliere di giuoco, dopo essersi sfiatati per tre ore continue a susurrare in un teatro,