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mi pareva una vita non meno incomoda, che pericolosa alla mia salute» (ivi). Ma improvvisamente giunse l’ordine di partire. «Che romore, che fretta, che dispiacere, che confusione! Quante dipartenze amarissime, in poche parole! Quante promesse d’una inviolabile fedeltà, che non dovevano durare sino alla mattina seguente! Quante furtive adunanze, e quanti congressi notturni, che progettati poche ore prima, andavano a finire col non vedersi mai più! Osservai l’anno appresso, che di quanti eravamo allora in Milano, ne mancarono al nostro ritorno più di duecento, tutti fiore di gioventù, che finirono in Italia di vivere» (P. V, art. 5).

Un’altra appendice, a compiere il quadro goldoniano, togliamo dalle Lettere critiche dell’avvocato Costantini, dove parlasi di quelli che trattano l’esercizio delle armi: «Vorrei dirvi qualche cosa intorno a’ disordini, per non intitolarle empietà, che fa loro commettere l’interesse. Alcuni hanno cento pretesti per stroncare le paghe a’ Soldati; ne fanno comparire il numero maggiore del vero, per defraudare il Principe; se la intendono co’ vivandieri, acciò guadagnino eccedentemente, per dividere l’utile; intascano le paghe, e mandano i Soldati a rubare nel Paese nimico, e nell’amico; prestano denaro ad usura agli Ufficiali subalterni; vendono a caro prezzo i cavalli, che hanno fatto predare, o che hanno comprati per minuzie da chi li ha predati; in somma hanno tali e tante vie di accumulare il denaro senza timore delle Leggi, che convien dire non aver essi altra ragione, che un’insaziabile avidità» (t. IV, 1744: dall’ed. Bassaglia e Pasinelli di Ven. 1750, IV, pp. 30-3 1 ). Gravi disordini erano anche negli eserciti di terra e di mare della Repubblica, come tutti sanno. Ma leggasi un’altra lettera intitolata appunto la Guerra, che ha la falsa data 1752 e fu dall’autore aggiunta, non so quando, al primo tomo: «Se poi mi parlate de’ Soldati gregari, questi è tanto lungi che abbiano in vista la gloria, quanto sono una congerie di gente oziosa, nimica della fatica, amica dell’ubbriachezza, senza arte, nè impiego, ricolma di vizj, e che non va in traccia che di commettere impunemente ogni delitto, talmente che altro non hanno d’uomo, che la figura. In fatti se essi capissero, che sono come una mandra di armenti condotti al macello, destinati a vivere fra patimenti, col mangiar pane tristo, e bere più acqua che vino; dormir su la terra, o al più su le tavole, marciar di giorno e di notte per monti, per piani, per fanghi e per precipizi; valicar fiumi con l’acqua sino al collo; abbrustolirsi la state, ed intirizzire nel verno; credetemi, che non andrebbero a fare si orribile sagrificio della loro vita» (v. G. Ortolani, Settecento, p. 187).

Tuttavia anche questa volta bisogna cercare nell’intermezzo goldoniano che ha per titolo Il Quartiere fortunato, e che appartiene con tutta probabilità al decennio 1734-44, l’idea primitiva della commedia (v. Nota storica dell’ Amante militare, vol. VII, pp. 324-5). Basta leggere il monologo di Roccaforte nella seconda parte: «Viva la guerra, - Viva l’amore. - Quando si more, - Schiavo, signori. - Quando si vive, - Lieti si sta. - Dica chi vuol, la guerra, - È il mestiere più bel di questo mondo.... - Oh, mi diran: si muore; - E vero; ed io rispondo: - Che ognun deve morir che nasce al mondo». Questa è la filosofia dell’alfiere Faustino e di don Cirillo. Ed ecco ora il colloquio con Belinda: «B. Dove, dove si presto? R. Addio, madama. - Vado in distaccamento; - Vado a’ posti avanzati. - S’io vivo, tornerò lieto e giocondo;