La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo IV

Capitolo IV

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CAPITOLO IV

Sommario: Il principe Ruffo di Castelcicala succede al Filangieri — Suoi precedenti militari e diplomatici — Suo carattere flemmatico — Un aneddoto con Luigi Filippo — Nomina Domenico Galletti suo segretario — Mutano i direttori, tranne Maniscalco — Il marchese di Spaccaforno — Suoi precedenti e spavalderie — Suo carattere falso — La storia di un calcio — I ministeri a Sicilia — Governo di Castelcicala — Le fucilazioni di Bentivegna e di Spinuzza — Discussione alla Camera piemontese — Brofferio, Pallavicino e Mamiani — Memorabile discorso di Cavour — Rivelazioni postume di Gallotti — Due telegrammi a proposito dalle istruzioni segrete del re.



Quando, nell’ottobre del 1854, Ferdinando II accettò la rinunzia di Filangieri, non aveva pronto l’uomo che dovesse succedergli, e per cinque mesi il posto di luogotenente in Sicilia fu vacante. Non era facile trovare chi l’occupasse, essendo l’alta carica piena di responsabilità e di pericolo. Il re e Cassisi desideravano un uomo senza punte iniziative, nè di soverchia suscettibilità: un uomo, che mantenesse l’ordine e conducesse gli affari di ordinaria amministrazione, ma non avesse minor prestigio del principe di Satriano, per famiglia, censo e precedenti militari. Cassisi ricordò al Re il principe di Castelcicala, Paolo Ruffo, il quale, richiamato da Londra dove era ministro, attendeva da due anni altro ufficio. Ferdinando approvò la scelta e incaricò Cassisi di vincere le ritrosie del Castelcicala, il quale, mettendo innanzi ragioni di età e di salute e non dichiarandosi idoneo a quella carica, lui, che aveva [p. 66 modifica]fatto sempre il soldato e il diplomatico, rifiutava ostinatamente. Aveva 64 anni, ma era sano e vigoroso. Si ricorse ad ogni mezzo perchè accettasse, si fece appello alla sua devozione e amicizia, gli si mandò ad offrire dallo stesso Filangieri il bastone luogotenenziale con una lettera caratteristica, e così nel marzo del 1855 il Castelcicala di mala voglia accettò, ma non prima della fine di maggio, a causa della morte di sua moglie, potè andare a Palermo con l’unica figliuola, allora giovinetta.

Nato a Richmond presso Londra nel tempo in cui suo padre era ministro di Napoli in Inghilterra, ed educato nel collegio militare di Eton, donde uscì luogotenente dei dragoni, Castelcicala era rimasto inglese nei modi, nelle abitudini, nei gusti, ma non nella flemma che poneva in ogni atto della sua vita, per cui sembrava non avesse il criterio del tempo. Parlava non correttamente l’italiano e la sua lingua ordinaria era l’inglese; privo di attitudine negli affari di amministrazione civile, possedeva però molta lealtà e conoscenza del mondo. Entrato da giovane in diplomazia, era stato ministro a Berna dal 1825 al 1830, e a Berna aveva condotto a termine le capitolazioni, per le quali quattro reggimenti svizzeri furono assoldati dal governo di Napoli e presero il posto degli austriaci, venuti dopo Antrodoco. A Berna conobbe la signorina De Zeltner, figlia di un diplomatico svizzero e la sposò. Della signorina De Zeltner era invaghito il giovane incaricato d’affari di Francia, Drhuyn de Lhuys, ma ella preferì il diplomatico napoletano, il quale aveva l’aureola di Waterloo, alto titolo nobiliare e una grossa sostanza. Il Drhuyn de Lhuys sposò poi una cugina di lei. Castelcicala aveva avuta la missione di pacificare il governo di Napoli con l’Inghilterra, dopo le note ostilità per la faccenda degli zolfi, e fu mandato infine ministro plenipotenziario a Londra, nel posto coperto da suo padre. E qui piacemi riferire un aneddoto curioso. Andando a Londra, condusse seco, come aggiunto di legazione, il giovane Giuseppe Canofari, che fu poi ministro di Napoli a Torino e a Parigi, negli ultimi anni del Regno. Passando per Parigi, andò a visitare il Re Luigi Filippo, che lo accolse cortesemente e lo invitò a pranzo, insieme al Canofari. Il principe, flemmatico in tutte le sue cose, giunse alle Tuileries con mezz’ora di ritardo. Il Canofari lo consigliò di regolare l’orologio con mezz’ora di ritardo, per avere, in tal modo, una scusa presso il Re. Il quale fu amabilissimo, facendo lui [p. 67 modifica]le scuse se, dopo aver atteso venti minuti, la Corte era andata a tavola. Castelcicala attribuì allora la colpa del ritardo all’orologio che, tratto dal panciotto, aveva tra le mani. Si chiacchierò, si rise e tutto parve dimenticato. Dopo il pranzo ci fu circolo, e in un momento nel quale Luigi Filippo si avvicinò al Canofari, questi, con pochissimo tatto, anzi con qualche malignità, disse al Sovrano che veramente l’orologio non aveva colpa, solo imputabile il ritardo alla lentezza del principe; e dicendo questo e sorridendo, cercava di metter fuori l’orologio suo, a prova di quanto asseriva. Ma il Re seccamente gli rispose: "La montre pour le Prince, pour vous le Prince„.


Il principe di Castelcicala era ministro a Londra, quando nel luglio del 1851 Gladstone pubblicò le famose lettere sulle prigioni e i prigionieri politici del Napoletano. E qui bisogna sapere che lord Aberdeen informò veramente il Castelcicala delle intenzioni di Gladstone, non senza aggiungergli che le lettere, che egli aveva lette, avrebbero sollevata, in tutto il mondo civile, una protesta contro il governo di Napoli, ma che non pertanto egli, Aberdeen, si riprometteva di impedirne la pubblicazione, purchè il governo napoletano desse qualche prova di ravvedimento. E lo pregò d’informarne il suo governo e provocarne una risposta. Il Castelcicala ne scrisse privatamente al ministro degli esteri Giustino Fortunato, e al segretario particolare del Re Leopoldo Corsi. È noto con quanta leggerezza il Fortunato e il Corsi appresero la notizia, della quale credettero non valesse la pena d’informare il re e alle lettere di Castelcicala non fu data risposta. Passarono due mesi, e lord Aberdeen invitò il ministro napoletano a riscrivere, assicurandolo che la pubblicazione sarebbe rimasta sospesa per un altro mese ancora. Il Castelcicala riscrisse, ma nessuno si fece vivo. Forse avrebbe fatto meglio andando lui a Napoli per informarne di persona il re, ma non era uomo da iniziative. Trovò invece naturale il silenzio e nulla rispose a lord Aberdeen, e così la pubblicazione avvenne e lo scandalo fu enorme. Non occorre ricordare che, in quelle lettere, il governo borbonico era definito la "negazione di Dio eretta a sistema„. Ferdinando II andò su tutte le furie, e ritenendo che il suo ministro a Londra non avesse fatto il proprio dovere, impedendo la pubblicazione delle lettere o almeno prevenendolo, [p. 68 modifica]lo richiamò, e giunto che fu a Napoli, non volle riceverlo. Il Castelcicala non sapeva a che attribuire la sua disgrazia, e da principio sospettò che la moglie avesse pregato il re di farlo tornare, mal patendo di non averla egli condotta seco a Londra, colla scusa che cercava un appartamento degno di lei e non potuto in tanti anni trovare.

L’Indipendence Belge, portatagli a leggere dal giovane avvocato Domenico Gallotti che divenne poi il suo segretario intimo, gli apri la mente. Quel giornale annunziava che il Ruffo era stato richiamato, perchè non aveva impedito che si pubblicassero le lettere gladstoniane. E fu allora che il principe, smessa la flemma abituale, indossò l’uniforme, corse alla reggia, e dichiarandosi stupito ed offeso di quel che si era di lui affermato nel giornale, narrò al re come veramente erano andate le cose. Ferdinando II cadde dalle nuvole, e in quel giorno stesso destituì il Fortunato da presidente del Consiglio e da ministro degli esteri, e licenziò il Corsi. Ma Castelcicala non tornò a Londra, ebbe una missione temporanea a Vienna, e ne era tornato da poco quando il re gli offerse di andare in Sicilia.

Il Castelcicala condusse seco il Gallotti come segretario particolare, ottenendogli la nomina di consigliere d’intendenza a Napoli, con missione a Palermo. Egli fu davvero il segretario fido e il miglior ispiratore del principe, di cui rispettò e difese l’onorata memoria. L’accompagnò nell’esilio e non lo lasciò che dopo la morte. Divenuto più volte milionario, fu a capo di parecchie società industriali. Io devo a lui molti particolari interessanti di quel periodo, nonché le rivelazioni circa le sentenze di morte del Bentivegna e dello Spinuzza, che mi cominciò a narrare, navigando insieme fra Napoli e Palermo, e me ne continuò più tardi la narrazione con date precise, mostrando così una rara felicità di memoria. Il Gallotti è morto da poco.

Se il principe di Castelcicala non aveva tutto il prestigio militare di Filangieri, contava nella sua vita l’episodio di Waterloo, dove, ufficiale d’ordinanza di Wellington, si era battuto con coraggio ed era stato ferito a morte. Se Filangieri zoppicava per le ferite toccate, combattendo per l’indipendenza d’Italia, Castelcicala portava sulla testa una piastra d’argento, perchè la cicatrice non si chiuse mai interamente. E apparteneva inoltre a [p. 69 modifica]quell’antica stirpe dei Ruffo, calabrese di origine, che diè all’antico Reame diplomatici e uomini d’arme, avventurieri e cardinali.

I direttori della luogotenenza al tempo del Filangieri vennero tutti mutati, tranne il Maniscalco, del quale il Cassisi tentò pure disfarsi, ma non vi riuscì. Furono nuovi direttori Francesco Statella, marchese di Spaccaforno, Giuseppe Castrone, prefetto di Messina, e Francesco Mistretta, procuratore generale di quella Gran Corte civile. Cassisi tentò di far piazza pulita di quanti erano funzionarli devoti al principe di Satriano. Don Antonino Scibona fu chiamato a Napoli, ed in sua vece destinato a Palermo don Gaetano Coffaro, il quale, dopo il 1860, fu prefetto nel Regno d’Italia. Lo Scibona ebbe ordine di trasferirsi immediatamente nella nuova residenza e giuntovi, passarono venti mesi prima di essere ricevuto da Cassisi, tanto poteva in quest’uomo l’avversione per tutti coloro che al principe di Satriano erano rimasti devoti. Carlo Ferri tornò alla magistratura, e Domenico Ventimiglia dovè molto lavorare di astuzie, per non perdere la direzione del Giornale di Sicilia.


Dei nuovi personaggi ufficiali, il marchese di Spaccaforno era la individualità, più spiccata. Primogenito del principe di Cassaro, e per breve tempo, dopo la morte del padre, principe di Cassaro, egli mori, dopo il 1860, non ancora sessantenne. La sua signora donna Giovanna Moncada di Paternò, è morta a Napoli nel 1903, nel sontuoso palazzo a Trinità Maggiore, e con lei finì l’ultima grande casa signorile napoletana, dove si riceveva col fasto di altri tempi. Lo Spaccaforno aveva cominciato la carriera, giovanissimo. Era stato, prima del 1848, intendente a Salerno, a Potenza e a Teramo. Mandato in quest’ultima città nel 1837, quando avvennero i moti liberali di Penne, se vi lasciò triste nome politicamente, nel governo della provincia fece del bene, tanto che il dotto agronomo Nicola Ghiotti gli dedioò nel 1848 il suo aureo libro sui vivai degli ulivi, con parole non ispirate da servilismo. A Salerno perdette un occhio, perchè un magistrato, nell’atto di baciargli la mano e di raccogliere per terra una supplica, lo urtò malamente nella faccia. Per la rivoluzione non si era riscaldato, perchè non la credette duratura, e solo fu maggiore della guardia nazionale di Palermo e poi pretore, aiutando nei due uffici la restaurazione [p. 70 modifica]borbonica. Compiuta questa, fu intendente di Palermo. La sua famiglia era la più attaccata ai Borboni, e tra le famiglie signorili dell’Isola, la più beneficata. Spaccaforno aveva spirito intollerante e scettico, ma non era privo di cultura generale; anzi, dati i tempi, poteva questa dirsi discreta. Liberale nel discorrere, ma assolutista di tendenze, presumeva molto di sè e aveva per il genere umano un senso di noncuranza, di disprezzo o di paura, secondo il caso. Falsissimo di carattere, simulava e dissimulava perfettamente, e non erano spiegabili alcune strane contradizioni dell’indole sua. Diceva vituperii di Maniscalco, ma consentì ad essergli collega nel governo, mostrandoglisi nelle apparenze deferentissimo sino ad adularlo. Forte tiratore di pistola, era generalmente temuto, ma un incidente scosse il suo prestigio. Un giovane avvocato, Andrea Guarneri, andò a domandargli che fosse revocata un’ordinanza ingiusta per la demolizione di un cavalcavia, che il Guarneri aveva costruito accanto a una sua proprietà. O per naturale impazienza, o perchè quel giorno avesse i nervi più scossi, lo Spaccaforno si ricusò con mal garbo; il Guarneri replicò con vivacità; l’altro rispose con violenza, mettendolo alla porta, anzi accompagnandovelo. Ma nel momento in cui l’uscio si chiudeva, l’avvocato gli lasciò andare un solenne calcio, che fece ruzzolare per terra il maestoso direttore. Pareva che il Guarneri dovesse soffrire chi sa quali pene, ma non soffrì nulla, perchè, avvenuto il fatto, Maniscalco che odiava in fondo Spaccaforno, scrisse a Napoli narrando come erano andate le cose e dando torto al suo collega di governo. Il quale non insistette perchè il giovane avvocato fosse punito e nemmeno pretese quella soddisfazione, alla quale il calcio ricevuto gli dava il diritto e forse l’obbligo. Quel giovane avvocato, che divenne notissimo in tutta l’Isola, è il presente senatore Andrea Guarneri, il quale, e lo ricorda bene, seppe la sera stessa, per mezzo del segretario di Maniscalco, di non aver nulla a temere, perchè il direttore di polizia aveva confidenzialmente riferito il fatto al re. E difatti non vi fu arresto, nè processo nè duello.

Spaccaforno era in fama, come ho detto, di forte tiratore di pistola. A Teramo ancora si ricorda, con terrore, che aveva al suo servizio un giovanotto, cui infliggeva il supplizio di porre sul capo un’arancia, che portava via con un colpo di pistola. A Palermo era rimasto vivo il ricordo del duello avuto in [p. 71 modifica]gioventù col barone Oddo, per quistioni di donne. Il barone Oddo apparteneva al mondo elegante, e si distingueva nelle carrozzate, o corse di vetture signorili. Prima del duello Spaccaforno dichiarò, con l’abituale sua calma lamentosa, che non avrebbe ucciso l’avversario, ma solo gli avrebbe impedito di prender parte alla carrozzata di quell’anno, piantandogli una palla nella gamba destra, e così fu.

Alto, vigoroso e assai corretto nel vestire, incedeva con aria quasi spavalda. Era fratello della marchesa Di Rudinì e fu, dopo Maniscalco, il funzionario più zelante negli ultimi anni dei Borboni in Sicilia. Rimasero memorabili alcune sue annotazioni sulle pratiche amministrative. Ne ricordo una: "gl’ingegneri sono come gli orologiai; fanno spendere il danaro, senza sapere dove va„. Si serviva nei sunti, cioè nel riassumere lo stato degli affari, di un giovane intelligente e vivace come un demonio, alunno da poco tempo del ministero dell’interno, in seguito a brillante concorso. Questo giovane, il quale prendeva lo stipendio di tre oncie al mese, ossia trentotto lire, era quello nel quale lo Spaccaforno riponesse fiducia per gli affari più difficili, e lo gratificava con somme, le quali rappresentavano qualche volta il doppio dello stipendio annuo. Si chiamava Vincenzo D'Anna, ed è oggi senatore e presidente di sezione al Consiglio di Stato.

Gli altri direttori, Francesco Mistretta e Giuseppe Castrone, non avevano importanza fuori la vita dei rispettivi dicasteri, nè personalità spiccata. Il Castrone era un giurista non senza valore; e il Mistretta, magistrato di qualche dottrina, aveva pronunziato il tronfio discorso, tre anni prima, all’accademia Peloritana per commemorare il viaggio del Re a Messina: l’uno e l’altro singolarmente protetti dal Cassisi che li considerava creature sue. Il Castrone, dopo il 1860, esercitò a Napoli con largo successo l’avvocatura civile e vi morì.

I tre nuovi direttori, pienamente d’accordo fra loro, non si trovavano in pari accordo con Maniscalco. Tra Maniscalco e Spaccaforno si rivelò subito una decisa incompatibilità di carattere, che solo la ben dissimulata prudenza di entrambi non fece degenerare in conflitto; anzi il Maniscalco si studiava di usare a Spaccaforno apparenti riguardi, che lo Spaccaforno ricambiava con altrettanta affettata cortesia. Ma i tre direttori si [p. 72 modifica]vendicavano del collega, dicendone un gran male al luogotenente e facendo risalire a lui la responsabilità di quegli atti, che più urtavano il sentimento pubblico e insistevano perchè fosse allontanato. Il Maniscalco, al contrario, certo del favore del Re, non si curava di questi intrighi occulti, anzi affermava ogni giorno di più il poter suo. Ma quella unità e risolutezza di indirizzo nel governo, vero segreto del successo di Filangieri, cessarono di esistere e cominciò invece quel fatale giuoco a scarica-barili, che fu tanto utile alla rivoluzione. Maniscalco, rimasto devoto a Filangieri, lo informava delle cose del governo, non celandogli i suoi timori, e la poca fiducia nei colleghi. E questa corrispondenza, che va dal 1855 al 1860, non è priva d’interesse.1

I ministeri di Sicilia non offrivano lo spettacolo babilonico dei ministeri di Napoli. Erano anch’essi raccolti in un solo palazzo, dove sono oggi gli uffici della prefettura, accanto alla casa monumentale dell’arcivescovo, ma gl’impiegati erano pochi, le competenze più distinte, la disciplina osservata e i contatti col pubblico affatto proibiti. Solo una volta la settimana, il venerdì, gli ufficiali di ripartimento (capidivisione) davano udienza pubblica, cioè ricevevano quelli i quali andavano a prender conto dei loro affari, o vi mandavano i proprii incaricati. Era riconosciuta una classe di sollecitatori, che potrei paragonare agli spedizionieri presso le congregazioni ecclesiastiche di Roma. Le sale dei ministeri erano pulite e le scale non ingombre di postulanti, perchè, tranne gl’impiegati, nessuno vi saliva. Amministrazione ordinata e onesta, con orario strettamente osservato, dalle 10 alle 4, senza interruzione.


Il governo di Castelcicala non poteva avere e non ebbe unità d’indirizzo. Era, in sostanza, il governo di Cassisi, il quale però rifuggiva dalle responsabilità rischiose e odiose. Castelcicala non dava ombra, anzi cercava di limitare la propria responsabilità e di parere il meno che potesse. Carezzava Cassisi e in molte cose non muoveva foglia senza di lui; non amava Maniscalco, per il male che ne sentiva dire, ma non disse mai al Re, risolutamente, di mandarlo via; lasciava che v’insistesse Cassisi, ripetutamente e petulantemente, è vero, ma pur troppo senza [p. 73 modifica]conclusione. Generoso e bonario, teneva aperta la reggia alle feste e ai conviti; conservò Charles, il celebre cuoco del suo predecessore, e furono i suoi pranzi ugualmente sontuosi. Non recedendo dal cerimoniale regio, usciva anche a piedi, mostrando di non aver paura, ma l’indole flemmatica lo faceva ritroso di ogni decisione, pur divenendo ad un tratto violento e persino brutale, se si persuadeva che qualcuno abusasse dell’ufficio suo. Essendogli riferito che un colonnello di cavalleria profittava malamente sui foraggi, ordinò che il reggimento sfilasse un giorno alla presenza di lui. E visto lo stato dei cavalli, compiuta che fu la sfilata, avrebbe detto al colonnello, a voce alta: "signor colonnello, lei è un ladro„. Si immagini l’impressione. Tornato al quartiere, il colonnello fu colpito d’accidente.

Non si parlò più del gran progetto del Filangieri per la costruzione delle strade, ma se ne fecero alcune con i fondi ordinarli del bilancio; s’innalzò qualche faro; si costruì un nuovo porto a Milazzo, patria di Cassisi, e furono allargati gli scali di Palermo, di Messina, di Trapani e di Girgenti; congiunta più tardi la Sicilia a Napoli col telegrafo elettrico, e iniziata una rete telegrafica per tutta l’Isola. Il bilancio fu tenuto in pareggio e i fondi pubblici salirono a 120 ducati. Non essendo il Ruffo uomo da iniziative, fece tutto quel bene compatibile con l’indole e la posizione sua, destreggiandosi, non senza abilità, con Cassisi, il quale voleva mostrare al mondo che il padrone della Sicilia era lui e fino a un certo punto era nero.

Se il principe di Satriano ebbe nel suo passivo politico le tragiche esecuzioni del Garzilli e dei suoi compagni, il principe di Castelcicala ebbe quelle del Bentivegna e dello Spinuzza. Se il Filangieri giustificò le prime con la necessità di dare degli esempii, Castelcicala giustificò le altre ... lavandosene le mani. La storia del Bentivegna e dei suoi compagni è stata narrata, con copia di documenti e retto senso storico, da Alfonso Sansone,2 e tutti i particolari sono contenuti in quel suo interessante volume. Ma il Sansone ignorò una circostanza, forse capitale, che potrebbe spiegare la condotta del governo di Sicilia in [p. 74 modifica]luogotenente, per salvar la vita a quei due. Quindici giorni dopo la rivolta di Mezzoiuso, era avvenuto a Napoli l’attentato di Agesilao Milano, che si credette organizzato da una setta potente di rivoluzionari; e però, insensibile il Re alle istanze di coloro che lo consigliavano di salvare la vita al soldato calabrese, non volle saperne di far la grazia al Bentivegna, anche perchè questi, già deputato nel 1848, era fuggito a Genova e ne era tornato a istigazione del Mazzini, per ritentare quella rivolta che non gli era riuscita nel 1853. S’imponeva l’esempio, e si passò sopra a tutte le forme, sino al punto che il Cassisi, per mezzo dei suoi fidi, ne fece cadere la responsabilità sulle autorità di Palermo, asserendo di avere lui altra volta protetto il Bentivegna e fattolo condannare al confine. Si disse pure a Napoli che, perchè la regia clemenza non salvasse il Bentivegna, si era fatta conoscere al Re la condanna dopo che era stata eseguita. Cosi affermarono gli scrittori borbonici, e questo fu il motto d’ordine della diplomazia napoletana, perchè la fucilazione del barone Bentivegna, per la posizione sociale di lui, per i suoi legami col partito mazziniano e per l’infamia veramente unica della procedura, produsse enorme impressione in tutta Europa. Gli esuli siciliani, che erano in Piemonte, indussero il Brofferio ad accusare, nella tornata del 15 gennaio 1857, il conte di Cavour di non aver fatto nulla per impedir quell’eccidio. "Come si è corrisposto — esclamava il Brofferio — agli italici entusiasmi? Udite! Insorgeva la Sicilia, prima sempre nel magnanimo arringo, e i ministri stettero con le mani conserte e il ciglio asciutto a vedere le palle soldatesche rompere il petto del prode Bentivegna. Se una nave del Piemonte fosse stata spedita nelle acque di Messina, almeno a tutelare i nostri concittadini là dimoranti, che ne avevano il diritto, la vista della nostra bandiera avrebbe confortato quel generoso popolo nei pericoli e nelle battaglie. La nave non comparve; e immobili e muti, abbandonammo quei generosi al cannone degli Svizzeri e alla mannaia del Borbone! ... E i nostri consoli, che facevano? Non spedivano appunti al nostro governo su quanto avveniva laggiù? I nostri consoli facevano voti per la vittoria del Re di Napoli; il console di Messina calava sul Miseno per bere coi soldati borbonici alla salute del tiranno, anzi, nelle sere in cui si facevano le luminarie ordinate dalla polizia, il [p. 75 modifica]nostro console fu il solo di tutti gli agenti diplomatici che illuminasse le finestre del suo palazzo (Sensazione). A Napoli non vi fu insurrezione, ma vi furono quelle catastrofi che precedono i grandi movimenti. Furono incendiati castelli, polveriere, navi, un tremendo attentato scosse Europa: noi soli non sembrammo meravigliati nè commossi .... E il Caligola di Napoli viene ogni dì più baldansoso .... Rispondetemi, confondete la mia sfiducia, umiliate la mia incredulità, e vi benedirò di avermi umiliato e confuso„.


Dopo questa sfuriata del Brofferio, piena di inesattezze e di ampollosità, seguirono poche parole del deputato Giorgio Pallavicino, e poi rispose Cavour, il quale ebbe in quella circostanza uno degli scatti più felici della sua eloquenza. Egli notò che il console del Piemonte a Messina era un messinese, avente le sole funzioni di console locale, e che i fatti furono molto esagerati, mentre il console del Piemonte a Palermo informò sempre fedelmente il governo di quanto avveniva. E soggiunse: "Non mandammo un naviglio a Messina, e il deputato Brofferio ce ne accusa. Ma le nostre parole e la nostra politica non tendono a eccitare o appoggiare in Italia scomposti, o vani e insensati tentativi rivoluzionarii. Intendiamo noi diversamente la rigenerazione italiana. Noi seguimmo sempre una politica franca e leale senza linguaggio doppio, e finchè saremo in pace cogli altri potentati d’Italia, non impiegheremo mezzi rivoluzionarii, né cercheremo di eccitar tumulti o ribellioni. Se avessimo voluto mandare un naviglio, per suscitare indirettamente moti rivoluzionari, avremmo, prima di farlo, rotta la guerra e dichiarate apertamente le nostre intenzioni. Quindi, e lo dichiaro altamente, io mi compiaccio del rimprovero rivoltomi dal deputato Brofferio. Rispetto a Napoli, rispondo con dolore al deputato Brofferio. Egli ha ricordato fatti dolorosissimi: scoppio di polveriere e navi con perdite di molte vite e un attentato orrendo. Egli ha parlato in modo da lasciar credere che quei fatti sian opere del partito Italiano. Io li ripudio, li ripudio altamente, e ciò nell’interesse stesso d’Italia (Vive approvazioni). No! Questi non son fatti, che possano apporsi al partito nazionale Italiano: son fatti isolati di qualche illuso disgraziato, che può meritar pietà e compassione, ma che devon essere stigmatizzati da tutti gli [p. 76 modifica]uomini savi, e principalmente da quelli che hanno a cuore l’onore e l’interesse d’Italia (Bene)„.

Parlò anche il Mamiani, il quale enfaticamente esclamò, che "Re Ferdinando, per quanto ignora tutte le arti generose del regnare nel secolo XIX, altrettanto conosce a maraviglia tutte quelle del medio evo„. Il Brofferio non si mostrò sodisfatto della risposta di Cavour e replicando, concluse: "Il deputato Mamiani ha detto: Questa povera Italia, flagellata e battuta non si stenderà mai nella tomba, e i tiranni quando vorran toccarne il cuore, sentiranno i palpiti e diranno: Essa vive! . . . Sì: vive, ma non della vita che noi le abbiam data. Vive l’Italia del sangue che le fluisce nelle vene, che la scalda dal sepolcro, e tocca a noi risuscitarla interamente, non lasciarla coperta di battiture sotto il funereo coperchio. Vive, ma di vita quasi peggiore della morte. Risuscitiamola! (Bravo, bene a sinistra)„.

In verità, la procedura, seguita riguardo al Bentivegna, fu veramente infame, e il Brofferio avrebbe fatto meglio se si fosse limitato a bollarla cosi. E di fatti, contestata dagli avvocati Puglia, Bellia, Sangiorgi e Del Serro — a nome dei quali parlò coraggiosamente ed eloquentemente il quinto avvocato, marchese Maurigi — la competenza del Consiglio di guerra, perchè il Bentivegna era stato arrestato senz’armi e non in conflitto, il giudizio venne continuato e la fucilazione eseguita, non pare credibile, un giorno prima che la Corte di cassazione pronunziasse sulla competenza del tribunale che li aveva condannati! Varie voci corsero in quei giorni, perchè nessuno voleva la responsabilità per sè, ma la verità è questa. Allorchè il Castelcicala partì la prima volta per la Sicilia, il re gli consegnò un plico, sul quale era scritto "Istruzioni segrete da leggersi nel caso di movimenti insurrezionali„. Condannati il Bentivegna e lo Spinuzza a morte, il Gallotti, segretario particolare del principe, aprì il plico e vi lesse queste parole: "Le sentenze dei Consigli di guerra saranno senz’altro eseguite„. Finse di non aver letto e consigliò Castelcicala di telegrafare al re per chiedere istruzioni. E la risposta immediata del Re fu questa: "Leggete le istruzioni segrete„. La sentenza fu eseguita, e il Sansone ne narra i particolari commoventi e quasi incredibili. Il Gallotti, mi confessò pure che il luogotenente e lui bruciarono le istruzioni prima di lasciar Palermo; e che Francesco II, [p. 77 modifica]avanti di lasciar Napoli, ne trovò l’originale fra le carte segrete: non escludeva che fossero state portate a Gaeta coi documenti più importanti dell’archivio di Corte, e del ministero degli esteri. Del tentativo per salvare Bentivegna, il Castelcicala nulla disse al Maniscalco, il quale, nella sua qualità di direttore per la polizia, non ignorava la mente sovrana. Ma l’odio maggiore per quelle esecuzioni si addensò sul capo di lui, anzi fu da allora veramente che si cominciò a formare la trista leggenda sul nome suo: leggenda alimentata e accreditata dal ministro di Sicilia a Napoli e dai colleghi del Maniscalco a Palermo, & soprattutto dallo Spaccaforno, che seguitava non pertanto a mostrarglisi deferente e amico. Ma il Maniscalco compiva il suo dovere, fingendo di non accorgersi di quel che avveniva intorno a lui, intento a dare alla Sicilia la coscienza che il governo era forte e capace di soffocare qualunque conato di rivolta.







Note

  1. Archivio Filangieri.
  2. Cospirazione, e rivolte di Francesco Bentivegna e compagni, con documenti e carteggi inediti. — Palermo, 1891, Tipografia del "Giornale di Sicilia„.