La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo III
Questo testo è completo. |
◄ | Parte I - Capitolo II | Parte I - Capitolo IV | ► |
CAPITOLO III
Il principe di Satriano studiava per la Sicilia un piano di riforme economiche, delle quali doveva essere fondamento la viabilità. Le provincie erano separate da distanze assurde. Si viaggiava a dorso di bestie, e quando i fiumi e i torrentacci erano in piena, non si viaggiava punto. Da Catania a Palermo occorreva un cammino di quattro giorni, con tappe ad Adernò, Castrogiovanni e Roccapalumba; nè la polizia garantiva la sicurezza del viaggio, se di notte. Da Catania a Messina ci volevano non meno di due giorni, e le tappe erano Giarre, Alì e l’osteria della "zia Paola„, che ancora esiste, ed era allora esercitata da un vecchio bandito, e perciò non vi si andava che in compagnia e bene armati. Ed erano questi i viaggi più solleciti e più sicuri, essendovi strade regolari, costruite non molti anni prima. L’accesso a porto Empedocle, il grande caricatoio degli zolfi, ben difficile e pericoloso. Alcuni porti non avevano fari, altri avevano approdi insicuri, e non un solo chilometro di strada ferrata. La ricchezza territoriale, concentrata nella nobiltà, nel clero, nel demanio e nelle opere pie, sarebbe stata suscettibile di aumenti geometrici nell’interesse di tutte le classi sociali, solo che il governo lo avesse voluto, e Filangieri lo tentò. Bisognava però colpire l’immaginazione dei Siciliani e persuaderli che il governo di Napoli, politica a parte, era civile e riparatore, e che la riconquista della Sicilia non significava imbarbarimento e miseria. Egli era convinto che, attuando nell’Isola, ma rapidamente, un programma di riforme civili a cominciare dalle strade, si sarebbe fatta opera saggia e politicamente utile.
Filangieri aveva voluto il Cassisi per ministro di Sicilia a Napoli, reputandolo uomo a lui devoto. Era persuaso che, senza un accordo sincero e durevole tra lui e quel ministro, non sarebbe stato possibile tradurre in atto un piano di riforme, con l’intento di affezionare via via la Sicilia ai Borboni. Egli ha lasciato fra le sue carte documenti preziosi circa le sue lotte col Cassisi, e un ritratto di costui, forse un po’ appassionato, ma vero nel fondo. "In verità — lasciò scritto il Filangieri — non mancano in lui prontezza d’ingegno, laboriosità ed un corredo di conoscenze legali, soprattutto in materia penale. Di economia e di scienza amministrativa ne studiò qualche cosa, divenuto consultore in età provetta. Ma ha, e l’ebbe sempre, natura facile a passionarsi, corriva al sospetto, suscettibilissima. Anima aspirante a dominar tutto e tutti, ma piena di volgari passioni, che fecero della sua ambizione uno strumento di vedute municipali, d’ingiuste predilezioni, di vecchi e nuovi rancori, di gretti e meschini interessi. Però astuto e simulatore destrissimo, sapea infingersi meravigliosamente, e per affettar temperanza, all’opportunità lodava i suoi avversari, nel mentre ne meditava la rovina. Lusinghiero sempre e piaggiatore verso coloro di cui avesse bisogno, fossero pur delle più infime classi sociali, fu sempre invece schizzinoso con quelli che avesser bisogno di lui. Divorato da ansiosa bramosia d’innalzarsi, non voltò mai faccia ad ogni mezzo, qualunque esso fosse, che reputasse conducente al suo scopo, e combattè incessantemente ad oltranza per sbarazzarsi di coloro, che gli facevan ombra, fossero pure quei medesimi, che, piaggiati da lui, lo avessero aiutato ad elevarlo in dignità, e a farlo divenire un loro pari„.1
A spiegare la severità del giudizio, bisogna ricordare che il Cassisi, obliando ogni sentimento di gratitudine, divenne, dal primo giorno, geloso e astioso oppositore, e poi diffamatore del luogotenente. I primi attriti si manifestarono a proposito della scelta dei funzionarli voluti dal Filangieri per suoi collaboratori, e si vennero accentuando un po’ alla volta. Il Cassisi pretendeva regolare ogni cosa da Napoli, e Filangieri non era uomo da lasciarsi regolare. Pretendeva che si dovesse cancellare in Sicilia ogni ricordo o parvenza di autonomia, mentre Filangieri riteneva esser questo un errore grave, che poteva, in momenti difficili, riuscire fatale. In una sua memoria scritta, credo nel 1860, intese a provare la necessità di far scomparire qualunque simulacro di governo locale in Palermo, fondendo le sette Provincie dell’Isola con le quindici della parte continentale del Regno, e trasferendo la sede del Sovrano in altra città, che non fosse Napoli, nè Palermo, ma non indicando quale, per quanto chiaro apparisse che dovesse essere Messina per la Sicilia. Memoria importante per gli apprezzamenti, per le osservazioni qualche volta acute, e anche per i paradossi politici, alla quale Filangieri rispose con una lunga confutazione. Sulla memoria del Cassisi si leggono, di carattere del principe, queste parole: "A siffatta memoria, che io ritengo compilata da Cassisi, la quale, carezzando le passioni del Re, non manca di erudizione, io risposi nel modo che ravviserassi dalla scritta qui unita, la quale munisco di mia firma, ad futuram rei memoriam„.2
Filangieri riteneva che il ministero di Sicilia in Napoli non dovesse avere iniziative proprie, e molto meno dovesse ostacolar quelle del governo locale; e che i decreti del luglio e del settembre 1849 avessero di quel ministero fatto un semplice portavoce del luogotenente. Il Cassisi riteneva precisamente il contrario, mostrando al Re quanto fosse pericolosa l’accentuazione che dava il principe di Satriano all’autonomia dell’Isola, col mantener vivi i sentimenti di separazione e d’indipendenza nel popolo siciliano. Il Cassisi aveva sul Filangieri il vantaggio di essere siciliano, di stare accanto al Re, di poter a costui dire di conoscere l’Isola meglio del luogotenente, e di godere tutta la fiducia di Ferdinando II, perchè ne solleticava gli istinti di dominio, ne alimentava i sospetti verso i siciliani, e le antiche diffidenze contro Filangieri. Questi, entrando a Palermo con l’aureola di conquistatore, aveva assunto, per necessità di governo, un contegno addirittura da vicerè Ferdinando II, sospettosissimo, da principio celiava con lui chiamandolo Re Carlo o Carlo IV, ma poi cominciò ad esserne stranamente seccato e finì per dar causa vinta al Cassisi, mettendo il Filangieri nella necessità di dare e ripetere la sua rinunzia. Nel 1835 aveva usata maggiore durezza con suo fratello, il conte di Siracusa. Per suggestione del Franco, allora ministro di Sicilia a Napoli, egli credette che il giovane principe cospirasse con gli autonomisti per divenire re dell’Isola, e bastò questo sospetto per richiamarlo senza complimenti. Il conte di Siracusa non glielo perdonò più, e tornando a Napoli, assunse via via quel contegno di principe frondista, che molto accentuò negli ultimi anni, come si vedrà, e procurò non poche noie al fratello, e infiniti rodimenti alla polizia.
Aspra ed astiosa fu la lotta tra Filangieri e Cassisi. "II ministro per gli affari di Sicilia — scriveva il Filangieri nelle sue memorie — avea un potere sì, ma sventuratamente era quello di fare opposizione alle proposizioni del luogotenente, rappresentandole al Re con osservazioni contrarie. Se Cassisi abbia fatto uso di questo potere, val la pena di dirlo nell’interesse della storia, e perchè si comprenda quanto sia costato di pena e di travaglio al governo siciliano quel poco di bene che si è fatto, e quanto maggiore se ne sarebbe conseguito senza le contradizioni, le sofisticherie e le male arti del ministro residente in Napoli„.3
Primo atto del nuovo ministro di Sicilia a Napoli fu quello di consigliare il Re a non permettere che si ricostituissero le compagnie d’armi, e a non approvare alcune nomine di funzionarii, presentati dal luogotenente, sul quale cominciò ad esercitare — son parole del Filangieri — una "perenne, sospettosa, inquisitoriale investigazione„. L’opposizione di Cassisi agli amici e ai collaboratori del luogotenente fu sistematica. "Per notare alcuni nomi — scrisse il Filangieri — spietatamente perseguitati da lui, comincerò dal cav. don Gioacchino La Lumia, uno dei più eminenti giureconsulti, a cui fè accanita guerra, fin che egli fa obbligato di lasciare il ministero della giustizia, che gli era stato affidato dopo la restaurazione; fece guerra al cav. Lima, dotto giurisperito ed ottimo amministratore, ch’ei volle ostinatamente tener lontano dagli ufficii importanti, perchè quando era stato segretario del governo col luogotenente marchese delle Favare, avea avuta la disgrazia di vedersi inginocchiato ai suoi piedi il Cassisi a chieder mercè, per esser stato deposto dall’ufficio d’intendente, che per pochi mesi avea esercitato in Messina; fece guerra al comm. Maniscalco, uomo zelante, operoso, giusto, di molto tatto ed intelligenza; fece guerra al comm. Celesti, uno degli uomini più onesti, ch’io abbia conosciuto, di carattere indipendente, il quale per la capital colpa di aver reso splendidi servigi alla Monarchia fu, dopo il mio ritiro, il capro di espiazione immolato ad un’ira tanto sconvenevole quanto ingiusta; fece guerra a diversi ufficiali laboriosi ed onesti del Ministero, ricusò sempre di farne approvare la diffinitiva organizzazione, tenendo così in sospeso con danno del servizio pubblico le sorti di tanti impiegati„.4 E per mantenere sottointendente a Corleone il duca del Pino, che Cassisi aveva dipinto come un balordo e meschinissimo impiegato, Filangieri fu costretto ad invocare l’autorità del valoroso e intelligentissimo tenente colonnello Pianell, comandante la colonna mobile nei distretti di Corleone, Mazzara e Alcamo.5
Tutto ciò, che non facevasi di sua iniziativa, il Cassisi ostacolava in tutte le maniere. Erano obietto dei suoi sarcasmi le opere e le istituzioni, che il Filangieri ordinava o proponeva per Palermo: come il giardino inglese, il restauro del teatro di Santa Cecilia, l’ospizio di beneficenza, la strada di mezzo Monreale e un grande teatro, tanto desiderato dai Palermitani, e di cui, senza gli ostacoli creatigli, il luogotenente avrebbe fin da allora arricchita la città. Il ministro di Sicilia a Napoli finì con inframmettersi anche negli affari di giustizia, e Filangieri confessa, nei suoi appunti, che per averlo benevolo nelle cose d’interesse generale "ne sopportava con mirabile pazienza lo strapotere, secondandone quanto poteva le debolezze, studiandosi di prevenirne i desiderii, le tendenze e le simpatie, carezzandone i parenti e gli amici, e lasciandolo fare in Milazzo e nella provincia di Messina, ch’era il suo feudo„.6
Vi fu di peggio. Il principe di Satriano aveva vinta la contrarietà di Cassisi alla ricostituzione delle compagnie d’armi, ma non ne vinse un’altra, addirittura iniqua. E qui sarà meglio lasciar la parola allo stesso Filangieri: "Fra gli errori politici della restaurazione — egli scrive — vi fu il non volersi riconoscere il mutuo forzoso, imposto dalla rivoluzione. Ora, tra i creditori per tal causa vi fu il Monte di prestanza di Palermo e per una somma di ducati 32 000 all’incirca, ritratti dalla rivoluzione, mediante il pegno di certi argenti appartenenti a chiese. Restituiti per giusto consenso del Re questi argenti, io proposi di salvare da una mezza rovina uno stabilimento sì interessante ai bisognosi, mettendo a carico dello Stato la somma prestata su quel pegno. Ma un rescritto cassisiano dispose che rimanesse a carico del Monte la perdita; e quantunque avessi rimostrato, e con gravi ragioni insistito nella mia proposizione, rimase fermo il cennato rescritto„.7 Cassisi detestava insomma il luogotenente e non gli risparmiava sarcasmi e difficoltà, e fu a lui attribuito "l’ostinarsi del Re — sono parole del Filangieri — nonostante le mie insistenze a non venire a Palermo, allorquando nell’ottobre del 1862 erasi recato ed accolto con festevole entusiasmo, in Messina e Catania„. Erano questi gli umori fra il ministro di Sicilia a Napoli e il luogotenente in Sicilia, ben noti al re, che li alimentava non senza diletto, allorché scoppiò più clamoroso il dissidio per la faccenda delle strade.
Dotare la Sicilia di ponti e di strade era, come ho detto, la parte essenziale del programma del Satriano. Allo sviluppo delle risorse naturali dell’Isola, era condizione indispensabile unire i capoluoghi a Palermo, congiungerli fra loro e coi centri più popolosi. Il luogotenente voleva compiere quest’opera al più presto, per averne tutto l’effetto, ma la spesa non era consentita dalle risorse ordinarie del bilancio siciliano. Uno dei metodi adoperati, per rendere accetta la restaurazione, fu di tener basse le imposte, specie la fondiaria, che rappresentava l’uno e mezzo per cento sull’imponibile, allo scopo di favorire la classe dei possidenti. E poiché il Filangieri aveva imposto un piccolo aggravio di venti grana (85 centesimi) sulle aperture, cioè balconi, finestre e botteghe, e i proprietarii di stabili ne avevano mossa lagnanza al re, egli vi sostituì un lieve aumento addizionale sui fabbricati. La rivoluzione aveva abolito la tassa sul macinato, sostituendovi altri dazi, che poi non furono riscossi, e Filangieri decise di ripristinar quel balzello con un sistema di riscossione, che lo rese tollerabile. Il programma economico del governo napoletano era quello di riparare con la tastiera doganale alle inclemenze delle stagioni, regolando le esportazioni e le importazioni delle derrate alimentari, a seconda che il Regno era turbato dalla carestia, o favorito dall’abbondanza. Le ordinanze regie facevano il sereno e la pioggia, mantenendo un apparente equilibrio economico, ma le imposte basse impedivano i lavori pubblici in grande, indispensabili alla Sicilia e a tutto il Regno. Alla perspicuità del luogotenente tutto ciò non poteva sfuggire, e perciò, sempre nel fine di consolidare la restaurazione politica con miglioramenti economici, veri e concreti, egli immaginò tutto un piano di opere pubbliche, da costruirsi in un termine relativamente breve, elevando il tributo sull’imponibile fondiario dall’uno e mezzo al tre: aumento che poteva farsi senza serio pregiudizio dei contribuenti.
Fin dal giugno 1861, per mezzo del colonnello Tobia de Muller, del secondo reggimento svizzero di guarnigione a Palermo, il Filangieri aveva fatto chiedere all’ingegnere Chaley le prime notizie sui ponti sospesi; e dopo alcune lettere scambiatesi, invitò lo Chaley a Palermo per studiare i progetti sul luogo, anticipandogli le spese. Lo Chaley e Adolfo Sala compirono gli studi in sei mesi, e frutto di essi fu una rete completa di nuove e grandi strade, della complessiva lunghezza di 625 miglia, con otto ponti sospesi: le quali strade, nel numero di ventuno, erano distribuite in tutte le provincie dell’Isola.8 Il re ne autorizzò la costruzione con rescritto del 6 aprile 1852; ma, a suggerimento del Cassisi, non volle consentire che l’esecuzione ne fosse affidata alla stessa società francese, che aveva fatti gli studi e della quale erano a capo i signori Taix, Sciama e Sala. Fu invitato perciò il luogotenente a cercare, fra gli appaltatori. dell’Isola, persone capaci di eseguire i lavori. Questo primo ostacolo venne facilmente superato. Un mese dopo, in data 17 maggio 1852, il luogotenente inviò a Napoli un regolare contratto, convenuto con don Gaspare Giudice di Favara, "uomo notissimo per la sua opulenza, lealtà e costante devozione al Real Trono, il quale, associato ad altri capitalisti, specialmente a quelli della provincia di Girgenti, si obbliga ad intraprendere la costruzione delle strade e ponti dalla Maestà Sua autorizzati„. Insieme al contratto, firmato pagina per pagina dal concessionario e dal luogotenente, questi mandò a Napoli il direttore dei lavori pubblici, Bongiardino, con una sua lettera al Re, la quale si chiudeva con le seguenti parole: "Il giorno in cui questi fedelissimi sudditi vedranno messo mano ai lavori, innalzeranno certo voti sincerissimi al Cielo per l’ottimo Monarca, che ci governa, e la storia segnerà ai posteri questo nuovo tratto di sovrana clemenza, che darà una spinta impossibile a calcolarsi allo interno commercio, alle industrie ed alla civilizzazione di questa parte dei Regi dominii„.9
Si era sul punto di concludere, quando il Cassisi, il quale non voleva saperne in nessun modo, sollevò altre obiezioni e cavilli e propose modifiche, le quali, in fondo, non erano che pretesti per mandare all’aria ogni cosa. Egli calcolava anche sull’indole vivace e suscettibile del principe di Satriano. Sospetti ingiuriosi si diffondevano a Napoli e in Corte, dove erano più gl’invidiosi che gli ammiratori del Filangieri, sempre lì a soffiare nel fuoco. Cassisi insinuava che don Gaspare Giudice era un prestanome, un coperchiello, della compagnia francese, che si era voluta escludere; di quella compagnia, la quale, col Taix alla testa, aveva procurati tanti imbarazzi, undici anni prima, al governo di Napoli nella questione degli zolfi; forte meravigliandosi col re, che avventurieri esteri avessero potuto conquistar l’animo del luogotenente, al segno da fargli chiudere gli occhi sopra un contratto disastroso per la Sicilia.10 L’animo di Ferdinando II, aperto ad ogni genere di sospetti circa l’onestà dei suoi funzionarli, ne fu impressionato; ma parendogli troppo ardito prendere di fronte il Filangieri, dopo averlo autorizzato a firmare il contratto, nè volendo far credere ai Siciliani che egli non volesse le strade, si trovò d’accordo col Cassisi nel ritenere quel nuovo contratto privo di garenzie e nel proporre un sistema opposto, per il quale, invece di un impresario unico per tutte le strade, si trovasse un impresario per ciascuna provincia.
Alle osservazioni di Cassisi, minuziose, capziose ed irritanti, osservazioni da notaio, come scrisse Filangieri, questi rispose il 12 giugno con un memorandum, firmato da lui e dal Giudice, per dissipare i dubbii circa le garenzie degli assuntori, i quali, a cauzione degli obblighi, avevano depositato sessanta mila ducati sul Gran Libro di Sicilia. Si accettavano nondimeno alcune modifiche al contratto; si facevano osservazioni circa l’impossibilità di accettarne altre, e si notava che se vi sarebbero stati degli utili per la società assuntrice, questa anticipava in sei anni le somme occorrenti a tutt’i lavori, per riprenderle in quattordici, alla ragione di trecento mila ducati l’anno. Alle difficoltà e ai dubbii circa la capacità delle provincie di sostenere la spesa, Filangieri rispondeva inviando un quadro dell’imposta fondiaria, ripartita per provincie, e dimostrando che con l’elevare al 3 per cento la tassa sull’imponibile fondiario, sarebbero stati in tutto ducati 2 240 027 e grana 90; per cui sopra un imponibile di ducati 14 771 800, la tassa fondiaria sarebbe stata dal 15 al 16 per cento sul reddito, e perciò tollerabilissima. Corrispondenza lunga e stranamente curiosa, ignota finora, e nella quale si rivelano tutti gl’infingimenti del governo di Napoli, cui, mancando il coraggio di respingere il contratto, era più comodo ricorrere a cavilli e a previsioni in mala fede, per conseguire il vero fine di non farne nulla. La stessa proposta di Filangieri, di cominciare i lavori contemporaneamente in ciascuna provincia, diè al Cassisi nuove armi per affermare che gli assuntori volessero costruire i tronchi stradali meno dispendiosi, e poi lasciare a mezzo l’impresa e far rimanere l’Isola disseminata di tronchi non collegati fra loro, e di ponti senza strade per arrivarvi. Non è senza un profondo senso di malinconia, che si leggono i documenti, i quali si riferiscono a questo disgraziato incidente: documenti che il principe conservò nel suo archivio, annotati spesso con parole vivaci, le quali rivelano la grande amarezza di non poter riuscire all’attuazione del suo disegno. Alla fine, dopo aver inviato nel dicembre del 1852 un altro memorandum circa le condizioni economiche dell’Isola per i mancati ricolti, e la necessità urgente di opere stradali, dovè pur troppo persuadersi che non se ne voleva far nulla; e nel luglio dell’anno seguente, andò dal Re che era a Gaeta, e gli fece le sue vive rimostranze. Ma non ne ebbe che promesse rassicuranti, condite dalle solite espansioni, benevole nella forma, ma non sincere nella sostanza.
La lotta tra Filangieri e Cassisi, divenuta oramai palese, fu anche inasprita da ragioni personali. Il principe, dubitando di reggere a lungo nella luogotenenza di Sicilia, aveva chiesto che la rendita del suo maiorasco fosse iscritta sul Gran Libro del debito pubblico di Napoli. Il re, concedendola a lui in premio della conquista della Sicilia, l’aveva fatta iscrivere sul debito pubblico dell’Isola. Il Filangieri chiedeva quindi una inversione, facendo invece gravare sul Gran Libro di Sicilia alcune rendite, che per l’equivalente somma erano iscritte sul Gran Libro di Napoli, come provenienti da istituti ecclesiastici dell’Isola. Cassisi si oppose, e il Re fu con lui. Ma il Filangieri, non dandosi per vinto, e forse ebbe torto trattandosi di un interesse tutto suo, propose che il maiorasco fosse capitalizzato con alcuni fondi abbaziali e di regio patronato. Fosse dubbio circa l’avvenire del debito pubblico di Sicilia, com’è lecito supporre, o fossero altre considerazioni, a Cassisi non parve vero di poter commentare col Re queste insistenze come prova d’indiscrezione, anzi d’indelicatezza addirittura. E neppure la seconda proposta venne accolta.
E v’ha di più. Da lungo tempo si agitava una grossa lite per antichi diritti feudali tra i benedettini di Catania e la famiglia Moncada di Paternò. Per riguardo ai suoi figli, il Filangieri aveva interesse a vederla finita. Una sentenza arbitramentale era stata pronunziata contro i monaci, i quali veramente avevano torto; ma, essendo ricchissimi, disponevano di potenti influenze, la maggiore tra le quali si affermava che fosse quella del Cassisi. Certo è che questi, contrariamente al parere della Consulta di Palermo e poi del Consiglio dei ministri di Napoli, concordi circa l’eseguibilità della sentenza a favore della famiglia Paternò, alla quale si sarebbe dovuta pagare la somma di oltre mezzo milione di lire (48 000 once), si ostinava a dar ragione ai monaci; e vi si ostinò tanto, che solo dopo il 1860 la sentenza fu potuta eseguire. Questi due fatti misero il colmo alla misura. "Io era già stanco — scriveva Filangieri nei suoi ricordi — della lunga lotta, nè più mi caleva di rimanere al potere dopo che, per esclusiva colpa di Cassisi, non ero riuscito a donare alla Sicilia un buon corredo di strade e di ponti„. E l’11 giugno 1864 si dimise con una lettera al Re, dove si legge: "Fino a che il cav. Cassisi non ha manifestamente ed in modo insultante attaccata la mia riputazione, io per obbedire ciecamente agli ordini, di che piacque alla M. V. onorarmi, il dì 31 luglio dello scorso anno in Gaeta, pel solo rispettoso attaccamento, che nutro per la M. V., mio Augusto ed adorato benefattore, sono qua ritornato, ed ho con pazienza e rassegnazione sofferte tutte le contrarietà per parte di lui, che rendeva sì amara la mia vita pubblica„. E concludeva: "Signore, sul settantesimo anno dell’età mia, non avendo più altro scopo, se non quello di morire in possesso della stima e della benevolenza della M. V., io non saprei esistere più oltre, se la M. V. non mi concedesse la predetta grazia„.11 Nel mese successivo, non avendo avuto risposta, lasciò Palermo e andò in Ischia a curare le sue ferite.
E qui avvenne uno di quei fatti, i quali trovano solo riscontro nella cronaca dei peggiori governi assoluti. Stando il Filangieri in Ischia, dimissionario sì, ma senza che le dimissioni fossero state accolte, seppe che il Cassisi, profittando dell’assenza di lui, aveva aperta un’inchiesta, specialmente contabile su ogni ramo della gestione luogotenenziale. Richiamò da Palermo i registri dei pagamenti della tesoreria; fece investigare circa le spese del giardino inglese; ordinò di sospendersi i lavori dell’ospizio di beneficenza, che per fortuna era compiuto, e dispose nuove verifiche sopra alcune strade finite e già consegnate. "Notisi — scrisse Filangieri — che cotali pratiche eseguivansi al ministero, nel mentre il Re ricusava di concedermi il riposo e voleva che io tornassi in Sicilia, e certamente quelle pratiche non erano atte a persuadermi a ritirare la domanda del mio riposo„12. E difatti il principe di Satriano, benché vecchio, si sentì rimescolare il sangue, e scrisse al re che in Sicilia non avrebbe più messo il piede, a nessun costo. Ferdinando II gli rispose una lettera napolitanamente bonaria, nella quale, senza far motto dell’inchiesta, accettò la rinunzia. Questo avveniva nell’ottobre del 1854, proprio due anni dopo il viaggio del Re in Sicilia. "Fu allora — continua il Filangieri — che il Cassisi ridivenne propriamente procuratore generale; si ordinarono inchieste, si fecero requisitorie, volevasi a tutt’uomo scoprir fraudi, furti e malversazioni. Era un fiume gonfio negli argini suoi, che straripava in tutti i sensi; egli allora mostrò tutto sè stesso! . . . Può ben dirsi che il ministro Cassisi sia stato il tarlo della restaurazione; e confesso di essere stato io l’autore di questo errore, ma io non lo conoscevo profondamente come ora lo conosco„.13
Il principe di Satriano apparve come una vittima dell’odio non spento del Re per la Sicilia, e fu fatto segno di grandi simpatie. I Siciliani avevano dimenticato gli atti di rigore politico da lui compiuti, per ricordare solo che il governo suo fu, in complesso, benefico all’Isola. Egli ripristinò, in maniera quasi perfetta, la sicurezza pubblica; fondò un’amministrazione civile, intelligente ed onesta; rese autonomo il Banco; istituì il Gran Libro del debito pubblico; creò la Borsa, l’istituto d’incoraggiamento, commissioni permanenti per i lavori pubblici, per l’agricoltura, le foreste e le arti; accrebbe qualche insegnamento universitario; iniziò il frazionamento dei latifondi coi provvidi decreti del 16 febbraio e 29 marzo 1852, che rendevano alienabili gl’immobili appartenenti al demanio, ai pubblici stabilimenti e ai luoghi pii laicali; e non ostante che il suo progetto per le strade fosse miseramente naufragato, ne iniziò parecchie, tra le quali, la bellissima da Palermo a Messina, per Cefalù. Cercò di cancellare i ricordi dei primi tempi, adoperando tutte le risorse del suo ingegno e le seduzioni del suo spirito, per entrare nelle grazie dei Siciliani, e si studiò di tener vivo in essi il sentimento di una ragionevole autonomia, solleticandone l’amor proprio nei limiti legittimi e dissipando o attenuando le cagioni di diffidenza e di odio verso Napoli. Perdonò molto, nè volle che l’azione del suo governo apparisse ispirata dal fine di comprimere duramente ogni legittima aspirazione. Non fu opera reazionaria la sua, e di tale condotta gli scrittori borbonici, specie il De Sivo, gli fecero colpa, quasi che egli mirasse a tener vivo il fermento rivoluzionario, mentre non mirava che a sopirlo. Durante il suo governo, la polizia politica non fu eccessiva, ed egli non avrebbe dubitato di accogliere tutte le domande di rimpatrio, inviategli da parecchi emigrati, anche fra i più messi, se il governo di Napoli non si fosse opposto. Tornò il duca di Serradifalco, già presidente della Camera dei Pari ed uno dei quarantatre esclusi dall’amnistia e tornarono altri. Per il marchese Spedalotto di Paternò aveva presentata istanza nel 1850, la moglie di lui, ma da Napoli venne risposto negativamente. E nel 1859, quando Filangieri assunse la presidenza del Consiglio dei ministri, le domande di rimpatrio si ripetettero, e il Maniscalco, in data 8 giugno 1859, inviò a Napoli un elenco di venticinque emigrati, che avevano ridomandato di tornare. Erano tra questi lo stesso marchese Spedalotto di Paternò, Stefano Interdonato, i fratelli Cianciolo di Palermo e i Gravina di Brolo. E sulla lettera del Maniscalco, il Filangieri scrisse di suo pugno queste significanti parole: "Si conservi, per rammentare che il Real Governo, in opposizione del mio parere, ebbe torto di non aderire alle domande di questi venticinque emigrati e di trattarli bene, mantenendo un’invisibile vigilanza, perchè così facendo quasi tutti gli emigrati sarebbero rientrati, e sotto gli auspici del conte di Cavour, non si sarebbe formata quella consorteria, che ha tanto nociuto agli ultimi sovrani del Regno delle Due Sicilie„.14
Ad Alfredo Sala, che con grande deferenza scrisse del principe di Satriano nei suoi Souvenirs de six mois, pubblicati nell’Illustration, e nei quali narrò con pittoreschi colori la sua dimora in Sicilia, egli scrisse, il 13 febbraio 1866, una lettera, che si chiudeva con queste parole: "Lorsque le ministre des affaires de Sicile décida le Roi, mon Auguste Souverain, à ajourner indéfiniment la construction des ponts et des routes, dont cette Île avait un aussi urgent besoin, j’acquis la triste conviction que le désaccord complet entre la manière de penser du chevalier Cassisi et la mienne sur les questions, qui d’après mes opinions intéressaient plus directement le bien être de cette partie du Royaume, m’imposait le devoir de solliciter de Sa Majesté ma retraite. L’ayant obtenue, il ne me reste maintenant qu’ à faire des voeux, pourquoi la marche que l’on a adoptée et l’administration de mon successeur puissent produire la prospérité des Siciliens et leur faire aimer le Roi. Dii faxint!„.15
Ma finchè visse non dimenticò le grandi amarezze, delle quali il Cassisi gli avea data cagione, e dai suoi appunti traggo questi brani caratteristici, i quali a me pare abbiano importanza per la storia:
Io avea conosciuto da poco il cavalier Cassisi, e lo reputava uomo laborioso ed energico. Dopo la presa di Messina, lo chiesi al Re nella qualità di commessario civile; ma egli non volle avventurarsi nell'incertezza, e ricusò. Al diffinitivo organamento del governo lo proposi ministro per gli affari di Sicilia; parendomi che la energia e la operosità fosser requisiti necessarii per chi dovea sedere nei consigli del Re, e tutto solo sostenere i rapporti della Luogotenenza. Il Re avea difficoltà, ma mi tornò facile il vincerle.
Dopo conseguita la nomina a ministro del Cassisi, mi accorsi che quest’atto sovrano fu poco applaudito, soprattutto in Palermo, per precedenti, che non erano una raccomandazione in quella città. Seppi in fatto che il Cassisi e la cittadinanza si odiavano di cuore reciprocamente, a causa di certe vendette perpetrate a suo danno, reputandosi egli fautore e lodatore delle novità fatte nell’anno 1838, cioè, la soppressione della Segreteria di Stato in Sicilia, l’introdotta promiscuità degli ufficii, l’abolizione delle compagnie d’armi, ecc. Molto dicevasi a suo carico, ed i più. indulgenti osservavano il mancare in lui le qualità di uomo di Stato.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Egli, non volendo smettere l' abito di giudice istruttore, e di Procuratore Generale criminale, si fe’ maestro di perenne, sospettosa inquisitoriale investigazione. Erasi sempre nascosto nel pericolo, ed ora dal suo gabinetto, facendo il dottrinario come uno scolaro, esercitava il facile ufficio di censore, niente curando gl'imbarazzi e le difficoltà di chi operava.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
E finì con l'immischiarsi in tutti gli affari, anche giudiziarj, facendo comprendere ai pubblici funzionari che da lui dipendeva il loro destino. Dava premio agli adulatori, impunità ai cattivi, sostegno agl'insubordinati, persecuzione agli uomini indipendenti; ma quando i perseguitati stanchi cedevano, abbiosciavansi, e mettevansi a sua disposizione, ottenuto il suo scopo, cantava facilmente la palinodia, e dallo sdegno passava alla protezione. Egli mirava ad acquistare influenza e dominazione, non bastandogli quella che legittimamente derivava dalla natura del suo ufficio; e certamente non potrei io negare la non invidiabile sua grande abilità, con la quale è riuscito ad affievolire il potere della Luogotenenza con danno del paese e della Monarchia, ed a fondare quel dualismo, del quale indarno vuol scusarsi nel suo libro.
Questa memoria, che è un terribile atto di accusa contro il Cassisi, fu dal Filangieri scritta nel 1855, in confutazione del libro del Cassisi: Atti e progetti del ministero per gli affari di Sicilia, pubblicato in quell’anno e che è davvero povera cosa, ma oggi divenuto rarissimo.16 Più serio è il libro del Bracci su riferito, ispirato chiaramente dallo stesso Cassisi e da quel mondo siciliano, che era a Napoli nel Ministero e in Corte e che non tollerava il Filangieri; il qual libro, si noti, venne fuori nel 1870, tre anni dopo la morte del principe di Satriano.
In omaggio alla verità, io, non volendo che un giudizio tanto severo sul conto del Cassisi, dato da un suo avversario così autorevole come il principe di Satriano, passasse alla storia senza difesa, feci vive e ripetute premure presso il figlio di lui, perchè volesse illuminarmi con documenti e notizie, ma non ne ebbi risposta. Solo mi fece sapere, per mezzo del barone Giuseppe Arenaprimo, al quale io devo molta riconoscenza, per essermi stato di grande aiuto nel raccogliere le memorie concernenti la città di Messina, che egli, Tommaso Cassisi, preferiva che non si facesse polemica su quest’argomento. Strano esempio di pietà filiale!
Note
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ II principe di Satriano era molto affezionato al Celesti. Nel rimettere in ordine le sue carte, sopra una lettera da lui scritta nell’ottobre del 1849 in difesa del Celesti, annotò, di suo pugno: "Povero Celesti! Che infame quel C....! E pure a quest’uomo credevasi, non a Carlo Filangieri!„
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Id. id.
- ↑
Le strade da costruirsi dovevano essere le seguenti:
Strada del fiume Torto a Gioiosa per compimento della strada di Messina-Marina, per miglia 87;da Corda a Gangi, per miglia 54;
da Gangi a Nicosia, per miglia 10 ½;
da Leonforte, per Nicosia, a Mistretta, per miglia 35;
da Sant’Agata a Bronte, per miglia 38;
da Patti a Randazzo, per miglia 32;
da Caltanissetta pel ponte di Capodarso a Piazza, dedotte le miglia che si possono mettere a profitto della antica strada, rimangono a costruirsi per miglia 28 ½;
da Piazza a Castrogiovanni, per miglia 18;
da Piazza, per San Michele, a Caltagirone, per miglia 16 ½;
da Caltagirone, per Vizzini, a Floridia, per miglia 56;
da Palagonia, pel fondaco di Primosole, per miglia 20 ½;
da Ragusa, per Vittoria, a Terranova, per miglia 33;
da Terranova a Piazza, per miglia 26;
da Comitini, per Casteltermine, al confine della prov. di Girgenti al torrente Saraceno, per miglia 28;da San Giuseppe a Corleone, per miglia 20;
da Corleone, per Sambuca, a Sciacca, per miglia 40;
da Sambuca a Partanna, per miglia 21;
da Salemi a Marsala, dedotte le miglia costruite, restano a costruirsi, per miglia 12;da Salemi per Santa Ninfa a Castelvetrano, per miglia 11;
da Castelvetrano a Mazzara, per miglia 14;
da Mazzara a Marsala, per miglia 18.
I ponti poi erano: uno sul fiume Grande o Imera settentrionale; uno al Finale, sul torrente Pollina; uno sul fiume Rosmarino; uno sul Cimaroso presso Nicosia; un altro sul Cimaroso tra Adernò e Regalbuto; uno alla Giarretta sul Simeto; uno sul fiume San Pietro e l’ultimo sul Platani, a Passo di ferro. - ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ V. Memorie storiche intorno al Governo della Sicilia, scritte da Francesco Bracci, direttore nel Ministero per gli affari di Sicilia a Napoli — Palermo, Pedone Lauriel, 1870. Il Bracci, siciliano, era devoto al Cassisi. A lui rispose vittoriosamente il principe Gaetano Filangieri, ma la risposta manoscritta restò fra i documenti del suo archivio.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Id. id.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Id. id.
- ↑ Archivio Filangieri