La fida ninfa/Atto primo

Atto primo

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La fida ninfa Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Boschereccia, montuosa, con veduta da un lato

del palazzo d’Oralto.

Oralto e Morasto.
Morasto.   Qual mai, signor, degno compenso e quali
a si gran merto eguali
grazie render poss’io di tanto dono?
Il mio destin tu cangi in un baleno
e di schiavo, qual fui gran tempo e sono,
tuo ministro mi rendi e a me t’affidi.
Che debb’ io dir? Questa per te disciolta
non imbelle mia destra a tua difesa
s’armerá sempre e prode
di tua vita sará fedel custode.
Oralto.   Ben, Morasto, tu’l sai; perfin d’allora
ch’io di te feci nella Tracia acquisto,
con occhio amico io ti mirai d’ognora.
Or uopo avendo di fedel compagno
che regga in parte e vari ufizi adempia,
te solo io scelsi; in avvenir disciolto
e di custodia immune, i’ vo’ che solo
il benefizio mio sia tua catena.
Ma quando avvenga di pòr Tarmi in opra,
fa che uguale alla fé valor si scopra.

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Morasto.   Non fia leggera impresa

il secondarti nell’ardir per esso
in quest’ isola hai regno e sol con esso
tutto l’Egeo poni in terror; di rado
tornano i legni tuoi senza gran prede,
e ad un trionfo ognor l’altro succede.
Oralto.   Ma quanto ha mai che ’l piú gradito acquisto
non feci dell’altr’ier ! Col padre loro
due giovinette e vaghe ninfe.
Morasto.   E dove
potesti far si rara preda?
Oralto.   A Se irò.
Morasto.   A Sciro?
Oratto.   Or le vedrai, ch’esse e alcun altro,
della maggior sorella
secondando ii desio,
dal guardato recinto uscir permisi
e gir vagando tra lo scoglio e ’l rio.
Ma sai tu che colei
col volto suo fa sul mio cor vendetta?
Ora all’armi t’appresta e a non tradire
il tuo sembiante e la mia speme; è nostro
quanto acquistar si può con forza e ardire.
Chi dal cielo o dalla sorte
fatto grande non si trova,
faccia sé col suo valor.
Tutto il mondo è del piú forte:
Alma vile a che mai giova?
Povertá vien da timor.

SCENA II

Morasto.

O mia diletta Sciro, o sospirata

mia dolce patria, cosi dunque ancora

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d’avari predator gioco pur sei!

Ma a ricercar costoro
come ancor non m’affretto e a chieder loro
de’ genitori miei
e della cara mia ninfa novelle?
Dapoiché gli è pur ver che tanti affanni
non seppero giá mai sveller dal core
un amor che mi strinse in si verd’anni,
e che due gran portenti
di fermezza immutabile vid’io
nel mio crudo destili, nell’amor mio.
Dolce fiamma del mio petto,
ben cangiarmi nome e stato
potè il fato,
ma non mai cangiarmi il cor.
A vagar fu il piè costretto,
Ma il pensiero in sé ristretto
e in te fisso stette ognor.

SCENA III

Elpina e Osmino.

Elpina.   Ciò ch’io ti dico è vero:

nelle patrie mie selve un si leggiadro
pastor, come tu sei, non rimirai.
Osmino. Ciò ch’io ti dico il giuro:
ne’ miei si lunghi in tante parte errori
ninfa cosi gentil non vidi mai.
Elpina.   Ma tu forse mi beffi.
Osmino.   E che mai pensi?
Altro pregio io non vanto
che lingua ognor verace e cor sincero;
ciò ch’io ti dico è vero.

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Ei.fi va. Credimi pur che, quando

del tuo carcere uscito
a diseiór me corresti,
sentii rapirmi il core.
Crudo liberatore
tu mi legasti allor, non mi sciogliesti.
Osmino.   Questi soavi detti
empion di tal dolcezza il petto mio,
che giá tutti i miei guai pongo in oblio.
El.PINA. Ed io per te fin posi al pianto amaro,
ch’ognor m’inondò il sen, da che rapinne
questo crudel corsaro.
Osmino.   (a parte; D’aleggiar mio tormento
cosi scherzando io tento,
ma la gentil sorella
non si può amar da scherzo,
tanto è leggiadra e bella.
Elpina.   Dimmi, pastore,
Osmino.   Ninfa, mi spiega,
Elpina.   s’io ti dò il core,
Osmino.   se amor mi lega,
a due) e quale avrò del mio penar mercé?
Elpina.   Altro io non chiedo,
Osmino.   nbn altro io bramo,
Elpina.   se l’alma cedo,
Osmino.   se servo ed amo,
a due) che trovar nel tuo seno amor e fé.

SCENA IV

Licori e Nakete.

Licori.   Selve annose, erme foreste,

dite voi se mai vedeste
alma afflitta al par di me.

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O ricetto d’infelici,

scoglio infausto, aspre pendici,
viver qui vita non è.
Questo dunque è ’l gioir che di mia etade
m’apprestava il destin nel piú bel fiore?
Narete.   Figlia, in preda al dolore
non ti lasciar cotanto.
Che giova, oimé, sempre disfarsi in pianto?
Or di’: ti die piú noia il fiero Oralto?
Licori.   No ’l vidi piú, ma ’l suo ferino ingegno
fa che sempre io paventi; io temo, o padre,
temo piú del suo amor che del suo sdegno.
Narete.   Tu resisti, ma pur ti sforza
non irritarlo;
furor pazzo piú si rinforza
col provocarlo.
Licori.   Di quest’empio ladron...
Narete.   Deh taci, figlia,
ch’un di costor s’appressa.

SCENA V

Morasto e detti.

Morasto.   Eccoli al fine. O cieli traveggo? O Dèi!

Non è questi Narete?
Non vegg’io qui la mia Licori? È dessa.
Narete.   Che ha costui, che te si attento mira?
Morasto.   Ah certo è dessa ! Ah che, se l’occhio errasse
errar non puote il cor. Mi scuopro, o taccio?
Narete.   Pur segue; andiam, Licori, usciam d’impaccio
(partono)
Morasto.   Dunque la ninfa mia
ch’io di piú riveder speme non ebbi,
quella il cui dolce nome in questi faggi

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ho tante volte inciso, è qui presente?

Se ben cresciuta si di membra e d’anni,
i lineamenti suoi pur raffiguro.
Me in quest’abito barbaro e con questo
bosco sul labro, trasformato tanto
da estranio clima e da disagi e guai,
non fia ch’alcun ravvisar possa mai.
Ma, o ciel, trovarla in cosi duro stato
dirassi dono o crudeltá del fato?

SCENA VI

Elpina e detto.

Et. pina. Deh, come volentier ciò che di noi

esser debba, a costui chieder vorrei !
Morasto.   Giovinetta gentil, di che paventi?
Non isdegnar ch’io teco
favelli alquanto.
Elpina.   II padre mio m’impose
che da soldati io fugga.
Mor asto. Di me non dubitar, che sempre amico
a que’ di Sciro io fui, da che approdando
molt’anni sono a quella spiaggia, io vidi
amore e cortesia regnarvi. Allora
i’ vi conobbi Alceo, conobbi Silvia:
dimmi, son eglin vivi?
Elpina.   Vivi, ma solo al pianto ed al dolore.
Morasto.   Ahi, che si spezza il core.
Elpina.   Poich’ebber giá due figli, or d’ambo priv
hanno in odio la vita.
Morasto.   E come d’ambo?
Elpina.   Osmin, ch’era il maggiore,
vago fanciullo e per comun volere
a la mia suora destinato, a Lemno.

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dov’eran iti pe’ solenni giuochi,

da’ soldati di Tracia lor fu tolto.
Morasto.   O fiera, a me pur troppo nota istoria.
Ri. pina. L’altro, bambino ancor, segnando appena
d’incerta orma l’arena,
portato via dai lupi
si tien che fosse, poiché incustodito
non si trovò di lui se non fra ’l sangue
una lacera spoglia,
dove la selva si congiunge al lito.
Morasto.   O prosapia infelice! Io piú non posso
il pianto trattener; forz’è ch’io parta.

SCENA VII

Elpina.

Egli sen va senza pur dirmi addio.

Ma dov’è il pastor mio?
Esser lieta non so lungi da lui,
né ragionar vorrei mai con altrui.
Aure lievi che spirate,
il mio ben deh ricercate,
e poi ditemi dov’è.
Ravvisarlo è agevol cosa,
ha la guancia come rosa,
biondo ha ’l crin, leggiadro il pie.


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=100%|v=1|t=1|SCENA VIII}}

Osmino e Licori.

OSMJNO. Troppo disconverrebbe

a volto si gentil si austero core.
S’amata esser non vuoi,
nascondi gli occhi tuoi ;

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e se a fallo ed a colpa

vieti per te amor con nuova legge ascritto,
te che lo désti e ’l tuo sembiante incolpa,
e non punire altrui del tuo delitto.
Licori.   Tu non m’intendi ancor? Fin da’prim’anni
amore in odio ho preso: al fier destino
piacque cosi; t’accheta
e d’altro parla o lungi porta il piede.
Osmi no. Ma io non son si ardito
che amor ti chiegga; un ragionar cortese,
un conversar gentil
indifferenza non offende.

SCENA IX

Elpina e detti.

Elpina.   Or ecco

ch’egli è pur qui. Ma che discorre?
Licori.   Or come
in si misero stato
di vaneggiare hai cor? Se vanti senno,
pensa di libertá, pensa di scampo.
Elpina.   Mio pastorei gentile,
dimmi: di che favelli con Licori?
Osmi no. O bella ninfa, lasciami, ti prego,
eh altra cura or mi stringe. E credi forse
che la comun salvezza
poco a cuore mi sia? Sappi ch’io molta
col ministro d’Oralto
vo stringendo amistá; sappi che a forza
egli serve al corsaro, io di tentarlo
non lascerò.
Licori.   O questa si d’uont saggio
opra sará
Elpina.   M’ascolta: io non vorrei

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che tu parlassi con Licori, io sento

certo affanno nel sen che mi contrista.
Non so che sia, ma parmi
ch’una gelida mano
mi stringa il cor; meco ten vieni altrove.
Osmino. Vanne ch’or or ti seguirò; ma dimmi :
quand’altri a sé non manca,
l’accorarsi che giova? Uom franco e lieto
in gran parte delude il suo destino
e pronto è sempre ad afferrar ventura.
Lascia però che miglior sorte io speri,
giá che sol per virtú de’ tuoi begli occhi
mi tornarono in sen dolci pensieri.
Elpina.   Cosi mi bada? È un tristo, è un traditore,
ora il conosco; il lascio e me ne vado,
e quand’ei di parlarmi avrá desire,
farò vendetta e noi vorrò piú udire.
Licori.   A si vani pensier dá bando omai.
O SMINO. Non siain, non siam, Licori,
(mi credi) árbitri noi de’ nostri cuori.
Licori.   Alma oppressa da sorte crudele
pensa invan mitigar il dolore
con amore, ch’è un altro dolor.
Deh raccogli al pensiero le vele,
e se folle non sei, ti dia pena
la catena del pie, non del cor.

SCENA X

Oralto e Morasto.

Oralto.   Odi, Morasto: a colei vanne e dille

che a la clemenza mia
troppo mal corrisponde,
dille ch’assai m’offende
quel suo da me fuggir, che muti stile,

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né faccia ch’in mio danno usi il suo pie

la libertá,
ch’egli pur ha
da me.
Dille che pensi ch’ io soffrir non soglio,
e che sempre alla fine
con chi può ciò che vuol vano è l’orgogl
Morasto.   Ubbidirò, signor, ma intanto scusa
di rozza pastorella aspro costume,
e stupor non ti dia,
ch’usa alle selve, ognor selvaggia sia.
Oralto.   Se fera è fatta, io la terrò qual fera.
Morasto.   Per mansuefarla usar si vuol dolcezza.
ORATTO. Ma se questa non può, potrá la forza.
Morasto.   Crudeltá diverrebbe allor l’amore.
Oralto.   Crudeltá che di poi le sará cara.
Morasto.   La trarrebbero a morte ira e dolore,
onde quel ben, di cui goder vorresti,
tu stesso a te torresti.
Oralto.   Or non richiesto tuo consiglio cessi,
ch’io te a servir non a garrire elessi.
Cor ritroso, che non consente,
ben sovente
è capriccio, non onestá;
niega all’uno, poi dona all’altro
che piú scaltro
senza chiedere ottener sa.

SCENA XI

Morasto.

In cor villano amore

non amor, è furore.
Ma lode al ciel che dopo tal comando,
senza dare ad Oralto alcun sospetto,

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io ragionar potrò con la mia ninfa,

e scoprir se piu in lei vive l’affetto.
Giá noi debbo sperar, ben so che al vento
sen van gli affetti de’prim’anni acerbi;
troppo di rado avvien che adulta donna
d’un fanciullesco amor memoria serbi.
Dimmi, Amore:
in quel core
vive il mio nome ancor? Ahi, troppo spero.
Delle dure
mie sventure
fòra troppa mercede un suo pensiero.

SCENA XII

Narete, Licori ed Elpina.

N A RETE. Vieni, gran meraviglia

debbo narrarti, o figlia:
nel folto di quel bosco alcune piante
ho vedute pur or di note impresse,
ed ho veduto in esse
di Licori e d’Osmino
scólti ed intrecciati in mille guise i nomi.
Licori.   O che mi narri tu !
Ei.pina. Coni’esser puote?
Licori.   Qual mai ferro gl’incise?
Elpina.   Qual mano segnò mai si fatte note?
Narete.   E di piú Sciro Sciro in cento tronchi
agli occhi si presenta.
Elpina.   Alcun altro infelice
forse da nostre spiagge
in schiavitú fu tratto a questi lidi.
Licori.   Forse l’istesso Osmino,
dai traci involator condotto intorno,
fece anche qui soggiorno?

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N A RETE. O dell’eccelso, annoso, intatto bosco

Driadi pietose, amabil Geni amici,
adempiere a voi tocca i fausti auspici.
Licori.   Amor, che forse co’ be’ dardi tuoi
quelle note segnasti,
deh se i nomi accoppiasti,
le salme accoppia ancor tu che lo puoi.
Narete.   Itene, o figlie, ed a Giunon regina
la qual di noi fu tutelar mai sempre,
perch’a nostri desiri omai si pieghi;
fate Lare avvampar, volare i prieghi.
S’egli è ver che la sua rota
giri e volga la fortuna,
fissa ancor ne’ nostri danni
rimaner piú non potrá.
Tempo è ben che si riscuota
quel destin che ad una ad una
le sventure per tant’anni
contra noi vibrando va.