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114 | LA DODICESIMA NOTTE O QUEL CHE VORRETE |
farò un processo, se vi sono leggi in Illiria: sebbene io lo abbia battuto primo, ciò a nulla vale.
Seb. Togliete via quella mano.
Tob. No signore, non vi lascierò a meno che non riponiate il vostro ferro: siete troppo rinfocolato: su via, calmatevi.
Seb. Mi sottrarrò alle tue mani: che vuoi tu da me? Se osi provocarmi, sguaina tu pure la spada.
Tob. Che, che? Converrà dunque ch’io ti cavi una o due goccie di quell’insolente sangue. (guainando la spada; entra Olivia)
Ol. Fermatevi, Tobia: sulla vostra vita, fermatevi.
Tob. Signora?
Ol. Vi manterrete sempre lo stesso? Uomo rozzo e scortese, degno d’abitar le rupi, o le caverne selvaggie, dove mai non si apparò il vivere civile, esci dal mio cospetto. — Non essere sdegnato, caro Cesario. — Uomo brutale, esci. (escono ser Tobia, ser Andrea e Fabiano) Te ne prego, mio dolce amico, lascia che la prudenza, e non la collera ti governi in questa circostanza. Entra con me nella mia casa, e dopo che ti avrò raccontato quante scene stravaganti e bizzarre ha fatte colui, tu riderai soltanto di questa. Vieni: non essermi avverso; sia egli maledetto; egli atterrì il mio povero cuore contendendo teco.
Seb. A che accenna ciò? Da qual parte va il ruscello? O io sono impazzito, o questo è un sogno. — La mia imaginazione sepellisca pure così i miei sensi nei flutti di Lete, e se un inganno è questo, possa io essere sempre così ingannato.
Ol. Vieni, te ne prego: vuoi lasciarti condurre da me?
Seb. Di buon grado, signora.
Ol. Oh, rispondi sempre in questo modo! (escono)
SCENA II.
Una stanza nella casa di Olivia.
Entrano Maria e il Villico.
Mar. Te ne scongiuro, mettiti questa veste e questa barba: fagli credere di essere messer Topas il curato; fa subito; intanto andrò a cercare ser Tobia. (esce)
Vil. Bene, mi travestirò, e vorrei essere il primo che indossata avesse una somigliante zimarra. Non sono abbastanza pingue per ben compiere questa parte, nè magro abbastanza per essere riputato sagace teologo: ma il dire di un uomo che è