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ATTO QUARTO 267


SCENA III.

La stessa.

Entra Antifolo di Siracusa.

Ant. Non incontro un uomo che non mi saluti, come s’io fossi suo intimo amico, e che non mi chiami per nome. Uno mi esibisce danaro, l’altro mi invita a pranzo; v’ha chi mi ringrazia dei servigi ch’io gli ho resi; chi mi prega di continuargli il mio favore; chi mi rammenta le promesse passate. — Tutto questo è certamente un incantesimo, illusione, malìa, e le streglie di Lapponia son venute a fermar qui la loro dimora. (entra Dromio di Siracusa)

Drom. Padrone, ecco l’oro che mi mandaste a prendere.... Come! siete già sprigionato?

Ant. Che diavolo dici?

Drom. E dov’è ito l’uffiziale, che come un cattivo angelo venne a rapirvi la dolce libertà?

Ant. Tu mi hai del demente.

Drom. Che avvenne di colui che dà riposo alle genti affaticate, che ha pietà dei falliti e dei miseri, che un ricetto offre a tutti gli infortunii umani?

Ant. Ma di chi parli, malandrino?

Drom. Dì quell’uffiziale che vi aveva arrestato.

Ant. Ah! via, rimanti nella tua follìa. — V’è qualche vascello che parta questa sera? Potrem noi una volta andarcene da questa città dove tutti delirano?

Drom. Sì, signore; e già vi dissi che una barca stava per mettere alla vela, ma l’uffizìale allora v’impediva di badarmi, e non sapevate più dove foste.

Ant. Tu hai smarrito il senno, ed io pure; e noi non passiam qui che d’errore in errore. Potenze del Cielo! toglieteci da questi luoghi. (entra una Cortigiana)

Cor. Ben trovato, messer Antifolo. Avete veduto l’orefice? Dov’è la mia catena?

Ant. Vattene, Satana! Ti vieto di tentarmi.

Drom. Padrone, è questa madonna Satana?

Ant. È il diavolo.

Drom. É peggio ancora, è la dama del diavolo, e qui viene in leggiadro arnese e con sembianze luminose per tirarci tutti nelle reti del suo amato.