La cieca di Sorrento/Parte seconda/IV
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IV.
l’esplorazione
Nel di 22 gennaio 1827 la città di Napoli presentava uno spettacolo sublime e curioso; chè un mantello bianco covriva interamente le sue case e le sue circostanti campagne, per essere in tutta quella giornata caduta in copia grandissima la neve, a segno che per moltissimi dì consecutivi non pur sulle altezze de’ monti e de’ colli adiacenti, ma sibben su i tetti e sulle terrazze delle case duravano tuttavia saldi e biancheggianti gli strati nevosi. Il freddo però era intenso assai; laonde tutti gli abitanti più agiati della città si rimaneano nelle loro dimore coi piedi distesi in sugli alari degli schioppettanti cammini, ovvero chinati sulle ardenti braci accese nel mezzo delle stanze.
E la sera di questo giorno, la scena era oltremodo singolare, imperciocchè ti dava propriamente l’immagine d’un demonio in camicia, secondo la felice espressione di un giovane scrittor napolitano rapito per tempissimo alla fama delle lettere ed all’affetto de’ suoi amici1. Tutti coloro che per faccende indispensabili erano stati costretti ad uscir dalle loro case durante il giorno, vi si riducevano in tutta fretta al cader della sera, che annunziavasi trista e agghiacciata. Quasi tutte le botteghe si erano chiuse; e nelle strade di Napoli, pel consueto rumorose e popolate anche nel cuor della notte, regnavano in quella sera, allo scoccar dell’avemmaria, il silenzio e la solitudine.
Non occorre il dire come parimente, anzi vie più diserta e tetra si fosse quella lunghissima strada che, prendendo le mosse dal Ponte della Maddalena, per parecchie miglia fiancheggiata a sinistra da paludi, a dritta or dal mare or da casini, va a metter capo nella bella Portici. Cessato era lo sfioccarsi della neve; ma tutti quei vicini villaggi e casolari ne erano ricoperti, come da immensa coltre. Qualche punto di fuoco compariva a distanza in mezzo alle masse di biancore; e le cappe de’ cammini co’ culminanti fumaiuoli; le sole che discoperte restassero dalla neve, mostravansi qua e là nerissime e fantastiche, dando la precisa apparenza di monaci avvolti ne’ loro cappucci, e che se la divertissero a fumare su vastissima terrazza di marmo.
La solitudine di que’ luoghi ispirava terrore, sì che nessun’anima vivente od animale di sorta alcuna stampava quivi orme del suo passaggio.
Avresti detto esser quelli i confini del settentrione, di cui perennemente sono signori il ghiaccio e le tenebre, i due elementi della morte e del caos.
Eppure, in questi due elementi per lo appunto suole il delitto escogitare ed eseguire le perverse sue opere, quasi rettile impuro; figlio della corruzione, che si pasce di macerie e di cadaveri.
Due esseri umani, avvolti in ampi ferraiuoli di rozzo panno, attraversavano, fumando corte pipe di creta, quella strada così deserta. L’un di loro, il più giovine, avea sul capo un cappello calabrese con un nastro rosso affibbiato in sul finir della tesa d’avanti; e l’altro portava un largo cappello di cuoio inverniciato. Il loro passo era lento e pesante, interrotto a quando a quando da un conversare animato, benchè sommesso, accompagnato da un continuo riguardare incerto o sospettoso all’intorno, come se temuto avessero di essere ascoltati in quella opprimente solitudine.
Questi due individui erano Nunzio Pisani e il notaio Tommaso Basileo.
Innanzi di seguitarli nel loro cammino, è mestieri che ci soffermiamo alquanto, e diamo ai nostri lettori un rapidissimo cenno anche del primo di questi due personaggi, che abbiamo presentato di scorcio ne’ precedenti capitoli, e i cui fatti fortemente si ligano al viluppo della nostra istoria.
Nunzio Pisani era nato nella Calabria ultra-seconda da genitori di dubbia fama nell’esercizio delle loro industrie commerciali. Male allevato, quantunque d’indole non interamente inchinevole al male, il giovinetto trovossi ben per tempo invischiato ne’ vizi dell’età sua, che al mal’oprare incitavanlo i compagni. Nato egli era un poco rachitico e gobboso; ma questi vizi corporali erano stati in lui largamente compensati da un ingegno pronto e vivace e da una sottigliezza di spirito portentosa, per la quale a’ salotti più graziosi e spontanei prestavasi, e non poche volte sulla propria deformità motteggiava e rideva. Nessun mestiere od arte egli faceva; però, sempre che fatto gli venisse, nelle masserizie paterne cacciava le mani, e, provvedutosi di quattrini, iva a starsi a trebbio coi compagni nelle biscazze e ne’ rioni, il giuoco, la bottiglia e le donne diventarono per lui in brevissimo tempo cocenti bisogni, a tale che starne senza non poteva un sol giorno.
È agevole il supporre che, seguitando un tal tenore di vita, due sole vie l’avvenire gli schiudea dinanzi, la forca o lo spedale: abbiamo accennato quale di queste due verificossi.
Morto suo padre, ei trovavasi nel durissimo stato di provvedere alla propria esistenza e a quella della madre, allorchè campo vastissimo di ventura gli offrirono i rivolgimenti politici dell’anno novantanove, d’infausta memoria. In quel tempo di anarchia e di trambusti, di spoliazioni e di morti, la ruota di fortuna girava con incredibile celerità, trabalzando dall’alto in giù individui, famiglie e città. E Nunzio non fu de’ capovolti, perciocchè, abbracciando sempre le parti del vincitore, battagliando con prosperosa fortuna, seppe avviticchiarsi alla girevolissima ruota e raccogliere un piccolo avanzo di quel naufragio. Non diremo delle sue opinioni o simpatie politiche, che negli uomini come lui la politica è un nome chè diversamente non suona da rapina e saccheggio. E quando cessarono gli sconvolgimenti e le turbolenze, Nunzio si vide in possesso di un’agiatezza che non mai avrebbe potuto sperare. Tiriamo un velo su le sorgenti di questo suo peculio; e diciamo soltanto che i suoi vizi non erano però scemati, chè anzi, per la facilità di poterli soddisfare, vie più accresciuti si erano e con maggiore intensità.
Nunzio in età di oltre trentasei anni diventò marito, e, poco tempo appresso, padre di un figliuolo, e, molto più tardi, d’una bambina, Già presso a toccare il confine della giovinezza, cominciando il denaro ad assottigliarsi considerabilmente, gli fu necessità di attutare alquanto le sue tristi passioni, ma non tanto che le malnate radici strappate ne fossero dal suo cuore. Il giuoco massimamente era per lui funesto bisogno, per cui tutto metteva in non cale, doveri di famiglia, amor di sposa e di figliuoli, rischiando sovra una carta il pane dei suoi bambini e della sua compagna. Non ostante i saggi consigli di sua moglie e di qualche vero amico, ei perdurava nel vizio con isfrenata libidine, a tal punto che guari non andò, e la miseria, inseparabil compagna degli ostinati giuocatori; venne di bel nuovo a bussare alla porta di Nunzio.
Vi fu un momento in cui questi, vinto dalla tenerezza pe’ suoi e spaventato dall’orrendo avvenire che loro avrebbe preparato, giurò in cuor suo di abbandonare la strada della perdizione in cui s’era disperatamente messo, e cercar nel lavoro un pane benedetto dal cielo. Ma la fama della sua scioperata condotta erasi nel paese divulgata, per essere sempre più pronte a spandersi le tristi che le voci buone; onde freddo accoglimento trovavano da per ogni dove le sue istanze, quante volte non se gli rispondeva con lo scherno e con l’insulto. La Provvidenza non ha posto confine al pentimento e al perdono, ma rende talora arduissimo il ritorno alla virtù, per ostacoli e spine, affinchè gli uomini traggano da ciò salutare insegnamento, e troppo non indugino a dismettere i mali abiti ed il colpevole oprare.
Entrò allora nell’animo di Nunzio cupa e tremenda la disperazione di tutto; disperò della sua eterna salvezza, ebbe orrore della sua fisica e morale deformità, maledisse la natura che per cordoglio maggiore gli avea dato anche un figlio deforme, bestemmiò il giorno della sua nascita e del suo matrimonio, e ad ogni più turpe e vile azione si abbandonò per dar pabolo a’ vizi cui era tornato con inaudita passione.
Eppure, in mezzo a tanta bassezza e corruzione, tre angioli gli erano stati concessi dal cielo per conforto de’ suoi giorni e per condurlo sulla via retta, le tre donne che stavano in sua casa; la madre, pia, rassegnata, di cuore evangelico, la quale con tutto il fervor dell’anima pregava per lo ravvedimento di suo figlio; la moglie, buona, docile, ubbidiente, che staccasi in lagrime amare su i vizi di suo marito, onde miseria e vergogna ne derivavano alla famiglia; e la figliuola Caterina, la più cara, la più aggraziata delle fanciulle, e che con la sua virginea innocenza avrebbe rattemperata e vinta ogni più selvaggia e corrotta natura.
Parecchi anni scorsero in questa vita di miseria e di abbiezione; ma la disordinata condotta di Nunzio, ed alcuni fatti in particolare, pe’ quali la giustizia correa sulle peste dei reo, determinavano il Pisani ad abbandonare la sua terra nativa e la famiglia. Ei giunse però in Napoli in miserando stato, ricoverando, durante il viaggio, per ceppaie e boscaglie, e vivendo or d’elemosina, or di furto, or di erbe selvatiche, a seconda che il destro e il bisogno dettavangli.
Non erano passati molti mesi dalla sua venuta in Napoli, che un giorno, standosi oziosamente fumando un mozzon di sigaro all’angolo di una strada poco frequentata, vide accostarsi a lui un uomo già maturo di età, che gli offrì di lucrarsi qualche ducato purchè avesse voluto aiutarlo in una faccenda di dilicata natura. Trattavasi d’involare una carta dalla tasca di un uomo. Nunzio era troppo accorto per non comprendere che quel negozio pizzicava del birbante, e però, intingendo onestà, disse che ei non faceva di tali cose, cui la sua coscienza ripugnava; e, come quegli accresceva per gradi il guiderdone dell’opera, il Pisani non si accontentò che quando vide l’altro voltar le spalle per desistere dall’impresa; il prezzo era arrivato a venti piastre. Nunzio eseguì a puntino la commissione; la carta fu involata con sorprendente destrezza, e il compenso convenuto fu pagato.
Quell’uomo era notar Tommaso Basileo — Da quel giorno in poi un’amicizia intrinseca passò tra i due bricconi, amicizia nefanda di colpe codarde ed oscure.
In mezzo a tanta corruttela morale, morto non era però nel cuor di Nunzio ogni sentimento di amore per la famiglia, che egli aveva abbandonata e coperta d’infamia; ed una volta mandolle una somma, ma senza rivelarle il luogo in cui trovavasi, il genere di vita al quale si era dato, e il compagno che la sorte gli avea fatto incontrare e che davagli a poco a poco la spinta al patibolo.
Questi due individui s’incamminavano la notte del 22 gennaio 1827 verso Portici, stampando i loro passi di belve feroci su gli spessi strati di neve.
— Tu dici adunque, dicea Nunzio, che domani all’alba partirà il marito?
— Ne sono sicurissimo; da due mesi gli tengo le spie addosso, sto in sull’avviso, e questa mattina finalmente sono stato informato che per diplomatiche faccende egli debbe per alquanti giorni allontanarsi. Pare che sua moglie abbia preferito di starsene a Portici durante l’assenza del marito, perchè ieri appunto ei la menò qui.
— E sei certo che per domani sera non tornerà?
— Certissimo, come di dover morire...
— Ucciso o appiccato, soggiunse Nunzio con sogghigno.
— Ti rimando l’augurio, amicone, risposegli il notaio toccandogli le spalle... A fe mia, faresti una bella figura sulla forca! Come salterebbe la tua gobba! Faresti ridere il boia!... Ma parliamo di negozi... non è tempo di celie! Maledetta neve! E dire che doveva appunto in questa giornata caderne tanta!
— Corriamo anche il rischio che con questo tempo orribile l’amico non partirà.
— Oh! per questo non dubitare... l’ordine del ministero è urgentissimo.
— Come sei ben ragguagliato, per bacco! Ti prenderei pel segretario del marchese, se non sapessi che sei un famoso birba curiale.
— Tu sai che io sono il notaio del marchese, e i notai presso a poco godono de’ diritti e privilegi de’ medici. Bella professione è la nostra!..
— Massimamente quando vi si accoppia una buona dose di bricconeria.
— Tu fai sempre lo spiritoso sulla mia morale, come se tu fossi il più santo e dabbenuomo del mondo; fammi, la grazia, un poco di spirito sulla tua gobba.
Nunzio Pisani raggrottò la ciglia, mordette la pipa che avea tra le labbra, e gittò sul notaio uno sguardo feroce.
— Vedi adunque, mio caro Nunzio, riprese il notaio, che il tempo stringe diabolicamente, e che l’affare non debbesi procrastinare oltre tutta la giornata di domani.
— Ebbene, l’affare sarà fatto per domani... Ora esamineremo fa posizione del casino; il riverbero della neve ci serve molto bene in questa fittezza di tenebre.
— Abbiamo un’altr’ora di cammino.
— Per tutt’i demonii mi sento agghiacciato come un sorbetto!... Se non fosse la speranza di uscire di questa vita di miserie e di stenti! Tu dici che in quel casino ci è da fare un bottino da principe, n’è vero?
— Corbezzoli! Avrei voluto farti leggere i capitoli matrimoniali! Che beni di Dio! Che dote! Che gioielli! Con che lusso sono guarnite quelle stanze! L’oro e il raso vi sono sparsi come questa neve. A proposito, mi dimenticava di dirti il meglio. Nella camera da letto della signora Marchesa sta il colpo-maestro.
— Che intendi dire?
— In uno scrigno dappresso al letto sta il cassettino in cui son riposti tutt’i gioielli regalati dal Marchese a sua moglie per dono di nozze, oltre quelli di proprietà di lei..... Credo che ci sarà per venti o trentamila ducati.
— Como diavolo sai tutto questo?
— Nell’està scorsa, sotto un frivolo pretesto, venni a far visita al Marchese in questo casino per istudiarne la topografia... Dopo esserci intrattenuti per qualche mezz’oretta, egli fu da me espressamente pregato di farmi vedere tutto il casino; attraversammo però varie stanze e tra le altre quella della moglie. Magnifica posizione pel nostro affare! Una terrazza all’altezza di due uomini appena riesce sovra la contigua villa di sua proprietà... Il balcone di questa camera apre sulla terrazza... Di ciò discorreremo per la via... Intanto, per dirti.... i cassettini dello scrigno stavano abbassati... la scatoletta delle gioie era aperta.... Finsi di non essermi accorto di tutto ciò; ringraziai il Marchese della sua compitezza; feci del mio corpo un arco per ossequiar la bella Marchesa e mi affrettai di uscire. Che ti pare, eh? Mi dice il cuore che la scatoletta non è stata rimossa da quel luogo; imperocchè so che la Marchesa passa quasi tutto l’anno a Portici.
— Veggo che monna fortuna ti guarda di buon occhio, vecchio nottolone; fu proprio una buona stella che mi ti fece incontrare... Dimmi un poco, e la Marchesa è bella, n’è vero?
— To! to! Che ti salta in testa ora? Vorresti divertirti a far l’occhietto alla Marchesa invece che a’ gioielli?
— All’una e agli altri.
In su questo tenore ragionandola pari loro, que’ due malandrini giunsero al designato luogo; e, dappoi che tutte le opportune esplorazioni ebbero fatte intorno al casino per speculare il sito più acconcio donde investirlo, e quindi alcun poco rifocillatisi in una rustica bettola, aspettarono il domani per dar compimento alla infernale loro opera.