La capitana del Yucatan/18. La fuga di Cordoba
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CAPITOLO XVIII.
La fuga di Cordoba.
Mentre nel campo di Pardo succedevano questi avvenimenti, il bravo Cordoba e l’attendente del capitano Carrill, sfuggiti miracolosamente alla cattura a prezzo d’una penosa affumicazione, si studiavano sul modo di lasciare il loro nascondiglio per correre sulle tracce della marchesa, prima di far ritorno all’Yucatan, volendo sapere dove era stata condotta dall’aiutante del capo insorto.
La cosa non era però tanto facile, poichè contrariamente alle loro speranze, i negri ed i creoli che avevano assalito il fortino non avevano ancora abbandonati quei dintorni, anzi si erano accampati parte nel bosco e parte si erano alloggiati nella torre e nelle casematte.
Cosa aspettassero, nè Cordoba nè lo spagnuolo erano capaci di indovinarlo, ma probabilmente quella fermata doveva avere qualche relazione colla sperata resa o cattura del Yucatan.
— Per centomila pesci cani! — esclamò il lupo di mare, che cominciava a perdere la pazienza. — Che non si decidano ad andarsene?... Ecco già la ventesima volta che mi spingo fino all’uscita della galleria e che vedo sempre quei brutti negri ed i loro dannati tromboni.
— Che sospettino qualche cosa? — chiese lo spagnuolo.
— Che noi ci troviamo qui?
– Sì, signor tenente.
– Non è possibile, poichè sarebbero già venuti ad esplorare la galleria.
– Ed allora che cosa aspettano? Non vi sono truppe spagnuole in questi dintorni.
— Che abbiano invece scorto il nostro marinaio a prendere la via del mare e che attendano il suo ritorno coi rinforzi?... Quei furfanti sono furbi e possono avere indovinato il nostro progetto.
— È possibile anche questo, signore.
— Brutto affare!...
— Che ci costringerebbe forse ad un lungo soggiorno in questa niente affatto comoda galleria.
— E colla prospettiva d’un lungo digiuno, — aggiunse Cordoba. — Uno dei miei due biscotti è già sparito e sentirei il desiderio di sgretolarmi anche l’altro.
— Bisogna economizzare, signor tenente. Io ho ancora intatti i tre datimi dai marinai.
— Io non sono uno spagnuolo di razza pura, amico. Voi vi accontentate d’una sigaretta per colazione, d’una cipolla e d’una crosta di pane per pranzo, e per cena d’una serenata al chiaro di luna, ma io ho perdute le abitudini dei miei antenati.
Carrai!... Noi scherziamo come mozzi a terra, e non pensiamo che ogni ora che passa la nostra Capitana si allontana da noi e che per lei il pericolo aumenta!... Dove l’avranno condotta quei birbanti?
— Al campo di Pardo, sono certo di non ingannarmi.
— Sarà molto lontano di qui?
— Dieci o dodici ore di marcia; se si trova ancora sul margine della palude, di fronte all’ensenada di Cortez.
— Saprai condurmi colà?
— Lo spero, signore.
— Prima di tornare all’Yucatan voglio sapere cosa è accaduto della marchesa. Ho delle gravi inquietudini sul suo conto.
— La Capitana è donna energica e non cederà, signor tenente. Tenteranno di costringerla alla resa della nave, ma non otterranno da lei alcun risultato.
— Oh!... Di questo non dubito, però se ricorressero a dei mezzi estremi?... Gl’insorti hanno martirizzato di frequente gli ufficiali spagnuoli caduti nelle loro mani.
— È vero, ma Pardo non è crudele e non permetterebbe ai suoi uomini di commettere simili barbarie verso la marchesa.
— Lo voglio sperare, nondimeno vorrei andarmene presto di qui.
— Aspettiamo che calino le tenebre, signore. Se l’uscita della galleria non sarà guardata come io credo, non avendo gl’insorti alcun motivo per mettervi delle sentinelle, noi prenderemo il largo. Volete un consiglio? Chiudete gli occhi e cercate di dormire; questa sera non potrete farlo di certo, se dobbiamo prendere il largo.
— Lo accetto, se mi sarà tuttavia possibile di farlo, con tante inquietudini che mi turbano il cuore ed il cervello. —
Si ritirarono nella parte più lontana da entrambe le uscite e si sdraiarono al suolo, mettendosi accanto i fucili per essere pronti a qualunque evento.
Malgrado tante preoccupazioni, la stanchezza estrema la vinse, e se qualcuno si fosse introdotto nella galleria, avrebbe udito un sonoro russare.
Quando Cordoba si svegliò, accese un zolfanello e guardato l’orologio vide che segnava le undici.
— Antimeridiane o pomeridiane? — si chiese. — Qui non vi sono nè stelle, nè sole per saperlo.
Scosse lo spagnuolo ripetutamente, dicendogli:
— Credo che sia giunto il momento di abbandonare l’alloggio.
— Non domando di meglio, — rispose l’attendente del capitano Carrill. — Una boccata d’aria fresca e pura la desidero, signore. Deve essere tardi.
— Credo che la mezzanotte non sia lontana, la nostra dormita deve essere stata piuttosto lunga. È impossibile che sieno le undici antimeridiane, d’altronde presto lo sapremo. —
Stritolarono un biscotto, presero i loro fucili e si diressero verso l’uscita della galleria.
Trovato il cadavere del serpente, rallentarono la marcia, sapendo di non essere lontani dallo sbocco, e dopo d’aver ascoltato attentamente, si avvicinarono alla fessura, la quale s’intravedeva appena, essendo notte.
— Vediamo, — disse Cordoba, sporgendo il capo con precauzione.
Guardò al di fuori e con sua sorpresa ed insieme gioia non vide nè uomini, nè tende, nè capanne di frasche.
— Se ne sono andati, — disse.
— Siete certo?
— Non pretendo di avere gli occhi dei gatti, però sono ottimi, e se vi fosse qualcuno lo avrei già scorto.
— Allora possiamo uscire.
— Nessuno ce lo impedisce. —
Cordoba, certo ormai di non correre alcun pericolo, stava per lanciarsi all’aperto, quando udì improvvisamente una voce che usciva da un folto gruppo di cespugli, ad esclamare:
— Toh!... Questa è strana!... Se credessi agli spiriti, direi che ne ho veduto uno presso l’entrata della galleria. —
Un allegro scoppio di risa fu la risposta.
Cordoba, pronto come il lampo, si era ricacciato nel sotterraneo, urtando vivamente lo spagnuolo che gli stava dietro.
— Carramba!... — esclamò. — Qui gli occhi dei gatti sarebbero stati proprio necessari.
— Siamo stati scoperti? — chiese il soldato, con ansietà.
— Lo temo.
— Fuggiamo, signore.
— E dove?...
— Nella galleria.
— Aspettiamo un po’: odi? —
La voce di prima, che pareva quella d’un negro dal modo con cui storpiava orribilmente l’r, riprese:
— Tu ridi, ed io ti dico che ho veduto un’ombra umana presso l’uscita della galleria.
— Sarà stato qualcuno dei nostri compagni accampati nel fortino e che avrà voluto farci uno scherzo.
— E se invece fosse qualche spagnuolo?
— Venuto da dove?
— Io non lo so.
— Tu hai sognato, Manco.
— Ti dico che l’ho veduto.
— Allora andiamo a vedere, se non hai paura.
— Quando ho il mio trombone non temo nessuno, — rispose colui che abbiamo udito chiamare Manco.
Cordoba non si era mosso. Prima di fuggire, voleva vedere con quali e con quanti nemici aveva da fare.
Ben presto fra i cespugli comparvero due negri vestiti solamente con una camicia sbrindellata ed armati di due enormi tromboni. Uno era vecchio, e l’altro invece assai giovane, forse poco più che ventenne.
I due insorti, perfettamente visibili, essendo allora sorta la luna dietro le alte cime degli alberi, stettero un momento immobili, tenendo le loro mostruose armi puntate verso l’entrata della galleria, poi il vecchio disse:
— Va innanzi, Manco.
— Tu che non credi agli spiriti, precedimi.
— Io non sono superstizioso, ma essendo più vecchio, devo comandare. Va innanzi adunque.
— Volentieri, solo temo che il mio trombone sia guasto, compare.
— Il mio è forse in peggior stato del tuo.
— Compare!...
— Manco!...
— Io comincio a credere che tu non abbia meno paura di me.
— Io non so che cosa sia la paura.
— Allora precedimi. —
Il vecchio esitò un momento, poi, temendo forse i sarcasmi del giovane, osò fare alcuni passi innanzi, con una certa irresolutezza da far ridere Cordoba.
— Sono due poltroni che tremano entrambi di paura, — mormorò il lupo di mare. — Ce la sbrigheremo presto con costoro. —
Il negro si era arrestato a venti passi dalla galleria e pareva deciso a non andare più innanzi, non ostante avesse dichiarato di non aver mai saputo cosa fosse la paura.
— Manco, — disse. — Sei proprio certo di aver veduto un’ombra, o hai voluto scherzare?
— Non ho scherzato, compare.
— Che sia stato uno spirito? Io non li temo, specialmente quando ho il mio trombone, però...
— Vorresti dire che sarebbe meglio non immischiarci negli affari degli spiriti.
— All’incirca.
— Compare!...
— Manco!...
— Andiamocene da qui.
— Senza aver sparato i nostri tromboni?...
— È vero.
— Miriamo dentro la galleria.
— Sì: se lo spirito vi è, lo faremo fuggire. —
Cordoba non aveva perduto una sillaba di quest’interessante dialogo. Si nascose dietro l’angolo della roccia per non ricevere in corpo un paio di chilogrammi di chiodi, poi si levò rapidamente la giacca ed il cappello e mise l’una e l’altro sulla canna del fucile, mormorando:
— Ah... Avete paura degli spiriti?... Ecco un fantoccio che vi farà trottare, miei cari poltroni!... —
In quell’istante i due negri scaricarono i loro enormi tromboni, con un fracasso assordante. La mitraglia penetrò nella galleria con acuti sibili, massacrando le rocce.
— Ah!... Ah!... — esclamò il negro Manco, dilatando la sua larga bocca e mostrando una formidabile dentatura capace di fare invidia ad uno squalo. — Compare!... Abbiamo ucciso lo spirito.
— Sei certo?... — chiese il vecchio.
— Non lo vedo più. Hai veduto se i tromboni ammazzano tutti!... E tu avevi paura!...
— Eri tu che non volevi andare innanzi, Manco. Io non ho mai avuto paura degli spiriti.
— Ma che paura!... Io scherzavo.
— Ed anch’io.
— Allora siamo due prodi.
— Più prodi dei creoli, Manco, te lo assicuro.
— Lo vedremo, — mormorò Cordoba, che si divertiva immensamente alle fanfaronate di quei due negri.
Alzò la canna del fucile sporgendola dall’apertura e fece ondeggiare il fantoccio nel vuoto.
A quella improvvisa apparizione i due valorosi mandarono un urlo di terrore e tale fu la loro emozione che caddero l’uno sull’altro, gridando:
— Lo spettro!... Lo spettro!... —
Risollevatisi, presero i loro tromboni e fuggirono a rompicollo attraverso la foresta, urlando come fossero impazziti.
— Presto, amico, — disse Cordoba allo spagnuolo. — Giacchè la via è libera, approfittiamo per prendere il largo. —
Lasciarono la galleria ed attraversata la spianata di corsa, si cacciarono nel folto della foresta, temendo che le urla dei due negri attirassero sul luogo gli insorti accampati nel fortino.
Dopo un quarto d’ora di corsa disperata, s’arrestarono in mezzo ad una macchia di enormi cedri, mettendosi in ascolto.
La grande foresta era diventata silenziosa; non si udiva nemmeno una foglia a stormire, regnando allora una calma completa.
Ripreso il respiro, Cordoba ed il suo compagno divorarono alcuni aranci che avevano trovati a terra, per dissetarsi, poi si rimisero in marcia cercando di orizzontarsi colle stelle.
La boscaglia non era più fitta. Era formata da macchie isolate e da radici, sicchè potevano avanzarsi senza troppa fatica e senza essere obbligati a cercare i passaggi od aprirseli a colpi di coltello.
Per lo più quelle macchie erano formate da cedri, alberi bellissimi, assai alti e che abbondano nell’isola di Cuba, contandosene oltre trenta specie, non mancavano però i pittoreschi palmizi reali, veri giganti che raggiungono delle altezze prodigiose e che hanno dei tronchi enormi; come non erano rari i tamarindi, gli allori di china e le magnolie le quali spandevano all’intorno dei profumi deliziosi.
Gli animali mancavano, essendo l’isola piuttosto scarsa di selvaggina nelle sue parti occidentali, mentre invece nelle parti centrali abbonda di bufali, di cignali e di coccodrilli. Di ciò si crucciava il buon Cordoba il quale avrebbe volontieri assaggiato un pezzo d’arrosto, dopo quel digiuno un po’ troppo lungo.
Per cinque ore i due fuggiaschi camminarono quasi senza interruzione, dirigendosi sempre verso l’est, poi sostarono sul margine d’una piantagione di zucchero già devastata dal fuoco, forse appiccatovi dagl’insorti e fors’anche dai soldati spagnoli per vendicarsi dei loro nemici.
Essendo però qualche canna sfuggita all’incendio, Cordoba ed il suo compagno la raccolsero, serbandola per la colazione.
L’alba cominciava allora a fugare le tenebre. I grossi pipistrelli, specie di vampiri, fuggivano andandosi a nascondere nei cavi degli alberi, mentre i pappagalli cominciavano a svegliarsi schiamazzando a piena gola sulle più alte cime dei tamarindi e dei palmizi, e le splendide colombe s’alzavano a stormi per salutare il sole che stava per apparire.
— Cerchiamo un ricovero, — disse Cordoba. — Non è prudente marciare di giorno, sapendo che forse gl’insorti non sono lontani.
— Mi sembra di vedere laggiù una costruzione, — disse lo spagnuolo. — Sarà forse la batey dell’ingenio.
— Cosa vuoi dire?
— La fabbrica da zucchero della piantagione.
— Purchè non sia già occupata da qualche banda d’insorti? — disse Cordoba.
— Ci avanzeremo con prudenza. —
Si cacciarono in mezzo ai solchi dell’ingenio, nome dato alle piantagioni di canne da zucchero e si diressero verso un fabbricato che sorgeva su di una piccola altura, sormontato da un alto camino, ma già in parte diroccato.
La piantagione era stata orribilmente devastata. Dappertutto si vedevano enormi ammassi di canne da zucchero, mezze distrutte dal fuoco ed alberi, forse delle piante di cacao, anneriti e privi delle loro foglie.
Qua e là si vedevano avanzi di capanne, un tempo abitate dai lavoranti negri o dai coolies chinesi, casupole in rovina, grandi tettoie che dovevano aver servito da magazzini coi tetti sfondati e le pareti calcinate dal fuoco e le travi semi-arse, poi uno sterminato numero di avanzi di botti, e lungo i solchi veri fiumi di zucchero carbonizzato.
La batey, ossia lo stabilimento centrale dove si trovano le caldaie per la fusione del prezioso prodotto, lo strettoio e la raffineria non si trovavano in miglior stato.
Pareva che avessero sostenuto un formidabile assalto poichè le pareti portavano tracce di palle di fucile e di palle di cannone. I tetti erano crollati assieme alle travi, le macchine che dovevano essere costate una fortuna al suo proprietario, giacevano al suolo distrutte, sminuzzate come se fossero state fatte saltare con bombe di dinamite; i forni erano scomparsi assieme ai mostruosi recipienti che dovevano raccogliere la dolce materia.
Dell’immensa fabbrica non erano rimaste intatte che le muraglie e un pezzo dell’alta caminiera; tutto il resto era stato divorato dall’elemento distruttore.
— Qui è avvenuta qualche sanguinosa battaglia, — disse Cordoba. — Compiango sinceramente il proprietario della piantagione che sarà ormai completamente rovinato.
— Probabilmente sarà stato un insorto, — disse lo spagnuolo.
— Che questa distruzione sia stata opera dei vostri?
— È possibile, signore, avendo noi ricevuto l’ordine di incendiare le proprietà degl’insorti.
— Quanti milioni buttati all’aria. Quali disastri cagionerà l’insurrezione a questa disgraziata isola!
— La sua rovina signore, poichè tutte le principali piantagioni di zucchero sono state devastate o da noi o dagli insorti, e voi sapete che esse costituivano la principale ricchezza di questa grande isola.
— Sì lo so e vi posso anche dire che sono cinquecento milioni all’anno perduti e fors’anche di più, pei loro proprietari.
— Aggiungete poi le piantagioni di tabacco, di caffè, di cotone e di cacao del pari distrutte e vedrete che danno enorme ne risentiranno i cubani a guerra finita.
— Si tratta di miliardi poichè le piantagioni distrutte non si rinnoveranno lì per lì. Forse l’insurrezione e la guerra che ora ne segue daranno loro la sospirata libertà, ma l’avranno pagata ben cara. —
Erano allora entrati nella batey centrale, dove avevano scorto ancora un pezzo di tettoia che pareva fosse miracolosamente sfuggito al fuoco.
Un disordine indescrivibile si scorgeva colà. Dappertutto si vedevano botti fracassate, che dai fianchi squarciati avevano lasciato uscire fiumi di zucchero e di melazza che avrebbe dovuto servire alla fabbricazione del rhum, poi sacchi del pari sventrati, anche questi ricolmi di pani; caldaie e forme schiacciate, pezzi di macchine contorte, sbarre di ferro divelte e ripiegate, travi cadute dall’alto, avanzi di mobili ed in mezzo a quel pandemonio alcuni scheletri umani già ripuliti dalla loro carne dall’avido becco dei zopilotes, quei piccoli avvoltoi neri che sono così abbondanti nell’America centrale e nelle isole del Gran golfo messicano, e che sono incaricati della pulizia delle città, o dai denti delle numerose legioni di sorci che scorrazzano ancora le piantagioni non ostante la presenza delle sanguinarie manguste.
— Il luogo è poco allegro, — disse Cordoba.
— Però sicuro, signore, — rispose il soldato. — Qui nessuno verrà a disturbarci e potremo riposare tranquilli fino a questa sera.
— E sotto i denti nulla da porre? Non possiamo già fare colazione con delle canne da zucchero, pranzare con zucchero e cenare con del melazzo.
— Non trovo null’altro, signore. Tutto è stato distrutto dall’incendio.
— Di solito attorno alla batey vi sono sempre dei cocchi, dei banani, degli yams.
— È vero, ma qui tutto è stato abbattuto.
— Lo stomaco però brontola e reclama un po’ di colazione.
— Se voi avete pazienza si potrebbe forse trovare qualche topo selvatico. Nelle piantagioni non sono rari.
— Carramba!... Mi offri dei topi!...
— Sono eccellenti quei rosicanti. Ho assaggiato più volte la loro carne e vi so dire che è tenera quanto quella dei capretti e assai gustosa. I negri ed anche i creoli ne vanno pazzi.
— Sono almeno grossi?
— Più d’un gatto.
— Vada pel topo se è possibile sorprenderne qualcuno. Vedremo poi se sarà così delizioso come voi asserite.
— Finchè vi riposate io vado a visitare le piantagioni.
— Badate di non fare uso del fucile.
— Non lo adopererò, siate certo. —
Mentre Cordoba si sdraiava su alcuni sacchi, fumando una sigaretta, il soldato uscì per mettersi in cerca del promesso arrosto.
Era assente da soli dieci minuti, quando il lupo di mare lo vide rientrare precipitosamente ed affannato come se avesse fatta una lunga corsa.
— Avete già preso il topo? — chiese Cordoba, alzandosi.
— Altro che topo!... — esclamò il soldato. — Sono diventato la selvaggina!...
— Carrai!... Cosa volete dire?
— Che mi si dà la caccia.
— Da chi?...
— Da una banda di negri.
— Insorti?...
— Certo, signor tenente.
— Mille pesci-cani!... Ancora quei bombardieri coi loro dannati tromboni! Ah!... La vedremo brutti orchi dalla pelle nera!... —