La Sovrana del Campo d'Oro/XXVIII
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CAPITOLO XXVIII
Il coguaro
La giornata trascorse senza allarme. Certo gli Apaches immaginavano che si fossero annegati, e troppo intenti alle loro danze, non avevano lasciato l’accampamento.
Erano le nove di sera quando i due giovani decisero di lasciare il loro rifugio, per tentare di risalire i fianchi dei Gran Cañon e di raggiungere il cliff dove supponevano si trovassero ancora Buffalo Bill ed i cow-boys.
Temendo di fare un cattivo incontro, perchè quell’abisso è frequentato da pericolosi animali, ruppero due grossi rami, poi dopo essersi orientati con le prime stelle, si misero risolutamente in marcia.
Un dubbio però tormentava l’ingegnere, e cioè che quella vallata avesse un solò sbocco, guardato da un drappello di Pelli Rosse. Gli sembrava inverosimile che gli Apaches avessero fondato un atepetl così importante in una bassura aperta, mentre avevano a disposizione terrazze e altipiani quasi inaccessibili, e quindi al sicuro da qualsiasi sorpresa.
Durante la giornata non aveva messo a parte lo scrivano dei suoi timori, per non guastargli il buon umore. Appena sul margine del bosco, che era limitato da quella parte da un Cañon profondissimo con le pareti tagliate a picco, nel cui fondo del Colorado, gli disse ciò che lo tormentava.
— Sarebbe grave, — rispose lo scrivano. — Anche liberi, noi saremmo ancora prigionieri.
— Forse no, poichè ci resta aperto il Colorado.
— E noi dell’acqua non abbiamo paura, — disse Blunt. — Vi sono caimani qui?
— Non credo.
— Perchè ci tengo assai alle mie gambe, signore.
— Ed io non meno di voi, amico mio.
— Tuttavia preferireste risalire il fianco dell’abisso?
— Sì, — rispose Harris. — Scendendo a nuoto il Colorado, chissà dove andremmo a finire, e per noi il tempo è prezioso.
— Vi preme ritrovare il colonnello.
— In lui sta la salvezza nostra e quella d’Annie.
— Che questo Cañon si prolunghi fino alla grande parete dell’abisso?
— E’ quello che temo.
— Il torrente che mugge laggiù, scenderebbe quindi dagli altipiani?
— Sì, Blunt.
— Signore, preferisco tentare la sorte, qualsiasi cosa debba accadere. La notte è oscura, e la luna non si deve alzare che molto tardi, quindi è probabile che noi possiamo passare inosservati.
— Allora avanti, Blunt, — disse Harris.
Si misero a costeggiare il profondo burrone, sui cui margini terminava la foresta.
L’ombra proiettata dalle piante, era così fitta in quel luogo, che del torrente soffocava il lieve rumore, prodotto dalle loro scarpe sul suolo roccioso.
S’avanzavano però cautamente: temevano non solo d’incontrare gl’indiani, ma anche d’essere assaliti dagli animali notturni.
Avevano scorto, presso un cespuglio foltissimo, due occhi giallastri brillare come minuscoli fanaletti, ed avevano udito più volte i rami spezzarsi a non grande distanza.
Avevano percorso mezzo chilometro, quando udirono dietro di loro un urlo rauco, che li fece fermare di botto.
— Abbiamo una bestia alle spalle! — esclamò lo scrivano, impugnando a due mani il randello, e mettendosi sulla difensiva.
L’ingegnere gli fece cenno di tacere e si mise in ascolto.
Il medesimo urlo si fece udire dopo un po’, verso il margine della foresta, più rauco e più prolungato.
— E’ un carcajù — disse Harris.
— Non sarà una tigre, — disse Blunt.
— E’ un ammalacelo dal pelame bruno e fitto, che si tiene in agguato fra i rami degli alberi, e piomba sul dorso dei daini, troncando loro la vena jugulare per berne il sangue. Non è temibile.
— E questo rumore, signor mio? To’! Si direbbe che agitano dei piccoli sonagli.
— E’ un crotalo orrido in cerca di preda. Guardatevi da lui, Blunt; il suo morso è mortale.
— Un serpente a sonagli forse?
— Sì, ed in questo abisso sono numerosi al pari dei serpenti neri o «constrictor».
— Se...
Lo scrivano non potè finire. Una massa pesante, caduta dall’alto, gli era piombata improvvisamente sulle spalle, ed il povero giovane era caduto a terra, battendo il naso sulle rocce del Cañon.
Harris, senza perdersi d’animo, a sua volta era piombato su quel misterioso e audacissimo nemico, menandogli sul groppone tre o quattro randellate così poderose, da obbligarlo a lasciare subito la preda.
— In piedi, Blunt! — gridò nel medesimo tempo. — Aiutatemi!
Il giovanotto, il quale nell’improvvisa caduta non aveva riportato che alcune contusioni alla faccia, si era prontamente alzata stringendo il bastone. A cinque passi, presso l’orlo del burrone, stava il nemico che aveva tentato di ucciderlo a tradimento.
Era un bell’animale, più grosso di un cane di Terranova, di forme eleganti, con la testa quasi rotonda ed il pelame fitto e corto. Pareva sorpreso di non essere riuscito nel suo colpo, e guardava con occhi che brillavano come quelli dei gatti, i due uomini, soffiando e mandando di tratto in tratto un sordo mugolìo.
Poichè era stato costretto a gettarsi verso il burrone per sottrarsi alle randellate dell’ingegnere, si trovava ora senza ritirala: dinanzi a lui stavano i due americani che volgevano le spalle al margine della foresta.
— Che animale è quello, signor Harris? — chiese Blunt, che faceva molinello col suo bastone, per tenere la fiera a distanza.
— Un mitzli, come lo chiamano i messicani o meglio un coguaro.
— Pericolosissimo?
— Talvolta sì.
— Lo accoppiamo?
— Non provate i suoi artigli. Preferisco lasciarlo andare.
— Mi pare che non ne abbia alcun desiderio.
— Perchè gli chiudiamo il passo. Indietreggiamo verso il bosco senza perderlo di vista, quantunque non credo che abbia l’intenzione di ritentare l’assalto. Mi sembra più sorpreso di noi.
Continuando a far molinello coi bastoni, sì ritrassero sotto gli alberi. Il coguaro, che, dopo la dura lezione ricevuta, sembrava avvilito per non essere riuscito nel suo intento, appena si vide dinanzi uno spazio sufficiente per fuggire, con slancio improvviso si gettò nella macchia più prossima, che attraversò in due salti, poi scomparve nella foresta.
— Blunt, vi ha ferito?
— No, signor Harris. Mi ha lacerata solamente la casacca. Che mi avesse scambiato per un daino?
— Lo suppongo anch’io. Ordinariamente quegli animali, quantunque siano ferocissimi e robustissimi nonostante la loro taglia piuttosto piccola, non osano assalire l’uomo. Messi alle strette, invece, si difendono accanitamente e non temono di lanciarsi anche addosso ai cacciatori.
— Dove si teneva nascosto quel furfante?
— Su di un grosso ramo, — rispose Harris, — Andiamo, amico, mi preme sapere dove finisce questo Cañon.
Si rimisero in cammino, sempre costeggiando l’abisso, poichè non osavano più inoltrarsi sotto gli alberi per tema di fare un altro brutto incontro. Dopo altri dieci minuti, giungevano dinanzi all’enorme parete del Gran Cañon, che cadeva a picco da un’altezza di mille e cinquecento metri.
Là finiva il burrone che avevano fino allora seguito. Il torrente riceveva l’acqua, da una cascata, che precipitava di balza in balza, con fragore assordante.
— Ebbene, signor Harris? — chiese Blunt all’ingegnere, che osservava attentamente la parete.
— Da questa parte la scalata è impossibile, — rispose il giovane, con accento scoraggiato.
— Che non esista nessun sentiero, dunque?
— 1 miei timori tornano a riprendermi.
— Ossia?
- Temo che esista un solo passaggio da questa parte, quello che ci fecero percorrere gli Apaches. Se non fosse guardato, sarebbe per noi una fortuna, perchè ci condurrebbe direttamente sotto il cliff.
— Che sia molto lontano?
— Non mi pare, — rispose Harris.
— Seguendo la parete lo troveremo?
— Certo.
— Cerchiamolo, signore.
Bevettero alcuni sorsi di quell’acqua gelata, poi si misero a seguire la muraglia, aprendosi faticosamente il passo fra gli sterpi che crescevano alla sua base.
Sulla loro destra, ad una distanza di due o trecento passi, la foresta continuava.
Di quando in quando, svegliati e spaventati dal rumore che facevano i due californiani, alcuni animali e anche grossi volatili sì alzavano fra i cespugli, e scappavano con velocità fulminea, riparando nella vicina boscaglia.
Per lo più erano antilopi, alte come vitelli, di forme eleganti, sottili e slanciate, dalle corna lunghe e finissime verso la punta, selvaggina assai apprezzata dagli scorridori delle praterie. Oppure daini dalla coda nera, più grossi dei daini comuni, con gli orecchi lunghi come quelli dei muli, e le corna invece brevi; o coppie di vakon, chiamati anche galli dei boschi, un piatto da re, che il buon Blunt vedeva scomparire con grande rincrescimento, e che non poteva certo raggiungere col suo bastone.
Verso la mezzanotte, dopo aver superati alcuni enormi sproni rocciosi, pervenivano ad uno stretto passaggio, rinserrato d’ambo le parti da rupi colossali.
Entrambi si erano fermati.
— Non vi sembra che questo sia il sentiero per cui siamo discesi? — aveva chiesto Blunt.
— Sì, — rispose l’ingegnere. — È questo, mi ricordo bene.
— Lo saliamo?
— Vediamo prima se è guardato dagl’indiani.
— Non vedo nessuno.
— Qui, ma più innanzi?
— Decidiamo, signore.
— Io non tornerò indietro, Blunt. Ora sono convinto che non esiste nessun altro passaggio che metta sull’altipiano e, rimanendo qui nascosti nella foresta, finiremmo per venire presi, senza nulla poter tentare per la liberazione di Annie.
— E’ vero, signore. Con questi randelli per armi, non possiamo affrontare le scuri di guerra degli Apaches e dei Navajoes.
Stettero qualche istante in ascolto, ma non udirono che i fragori delle acque scendenti lungo i fianchi del Gran Cañon, ed in lontananza il muggito sordo del Colorado.
— Su, Blunt, — disse Harris.
Cominciarono a salire, posando i piedi con cautela per non far rotolare i sassi. Il sentiero, aperto dalle acque, tutto buche, crepacci ed ammassi di sabbie e di massi, s‘innalzava serpeggiando.
A destra ed a sinistra enormi rupi lo chiudevano, ed erano così elevate, da non permettere che la debolissima luce delle stelle giungesse fino in fondo.
— È un miracolo se non ci rompiamo le gambe, — disse lo scrivano, — o non ci schiacciamo il naso. Non scorgo più nulla.
— Teniamoci presso la parete, — rispose Harris.
Avevano superato tre o quattro svolte, quando i loro occhi furono dolorosamente feriti da uno sprazzo di luce che brillava su di una specie di terrazza.
— Sangue di bisonte! — aveva mormorato Blunt, incollandosi, contro la parete. — Un fuoco!
— Che servirà a riscaldare qualcuno, — aveva soggiunto Harris, a voce bassa.
Attesero che i loro occhi si fossero abituati alla luce, poi osservarono meglio. Una sorda imprecazione sfuggì a Blunt.
Presso una catasta di legna che fiammeggiava, aveva scorto un essere umano accoccolato, che volgeva loro il dorso.
Dal diadema di piume che gli ornava la testa e dalla lunga capigliatura che scendeva al disotto delle anche, non ci volle molto ai due californiani per riconoscerlo.
— Una sentinella degli Apaches, è vero, signor Harris? — aveva detto lo scrivano.
— Sì, — aveva risposto l’ingegnere con voce irata. — Non mi ero ingannato io.
— Che sia solo?
— Non ne vedo altri.
— Ha una lancia presso di sè.
— E avrà anche il tomahawk alla cintura.
— Mi pare che dorma.
— Anche sonnecchiando, quei selvaggi percepiscono i più lievi rumori.
— Non vi è alcun modo di evitarlo?
— Le rupi cadono, a piombo e, se vorremo raggiungere l’altipiano, dovremo venire alle mani con quell’uomo, — rispose Harris.
— Cerchiamo di sorprenderlo. Siamo in due e le nostre braccia sono solide.
— È quello che volevo proporvi, Blunt. Avanziamoci senza far rumore. Mettetevi dietro di me.
— Lasciate che dia io l’attacco.
— No, — rispose Harris con voce imperiosa. — Seguitemi!
Si misero a camminare carponi, per non smuovere i ciottoli, tenendosi contro la parete di destra, che presentava delle sporgenze dietro le quali potevano nascondersi.
L’indiano pareva realmente che sonnecchiasse al dolce calore mandato dal falò. I due giovani stavano tuttavia in guardia perchè quei selvaggi possiedono un udito finissimo. Adagio, adagio, trattenendo il respiro, con gli sguardi fissi sempre sul fuoco, i due californiani guadagnavano via, entrambi decisi a sbarazzare il passaggio da quel pericoloso avversario.
Già Harris era giunto sull’orlo della piattaforma e si era alzato col randello in mano, pronto a spaccare la testa al Pelle-Rossa, quando questi si alzò di scatto, mandando un grido gutturale.
Scorgendo quella pelle bianca, che rappresentava per lui un nemico, l’indiano raccolse rapidamente la lancia e si precipitò innanzi, mandando un urlo selvaggio.
L’ingegnere, con un salto di fianco, evitò di farsi infilzare, poi si coprì con un rapido molinello, gridando:
— A me, Blunt!
Con suo stupore, nessuno rispose alla chiamata. Quantunque non volesse supporre che lo scrivano, spaventato, fosse fuggito, abbandonandolo solo in quel grave frangente, si sentì tuttavia bagnare la fronte da un freddo sudore.
L’indiano tornava alla carica, tentando di cacciare il ferro nel petto dell’ingegnere. Questi si difendeva disperatamente, con suprema energia, balzando a destra ed a sinistra e menando randellate furiose, che non giungevano a colpire l’avversario.
— A me, Blunt! — ripetè, tentando, con un colpo poderoso, di spezzare l’asta della lancia.
Ad un tratto vide un’ombra sorgere alle spalle del Pelle-Rossa, poi udì un crac sonoro, seguito da un’esclamazione:
— Eccoti servito, birbante!
L’indiano, colpito proprio in mezzo al cranio da una potente legnata, era caduto a terra, come se fosse stato ucciso di botto, lasciandosi sfuggire la lancia.
— Blunt! — aveva esclamato Harris. — Ah! mio bravo amico!
— Ho picchiato sodo, mi pare, — disse lo scrivano, saltando sul caduto. Poi aggiunse, sorridendo:
— Scommetto che, non udendomi rispondere alla vostra chiamata, avete creduto che io vi avessi abbandonato; è vero, ingegnere?
— Oh no, — protestò Harris.
— Mi premeva sorprendere l’indiano, signore. Se avessi gridato, non avrei potuto piombargli addosso a tradimento. Che lo abbia accoppato, signore?
Harris s’era curvato sul Pelle-Rossa che perdeva sangue dal capo.
— No, — disse, — il colpo non è stato mortale. È solamente svenuto.
— Devo finirlo?
— Mi ripugna. Prendiamogli la lancia ed il tomahawk e scappiamo.
Quando questo povero diavolo tornerà in sè, noi saremo già sull’altipiano. Gambe, Blunt! La via è libera.
Raccolsero la lancia e la scure e si misero a correre, risalendo il sentiero che continuava a serpeggiare fra rupi gigantesche.