VII - Il vaquero

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VI VIII
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VII


Il vaquero


Mentre il treno correva, e l’ingegnere, lo scrivano e miss Annie ingannavano alla meglio il tempo chiacchierando, mastro Simone era sempre rimasto silenzioso, rincantucciato in un angolo del suo scompartimento.

I cinque negri invano si erano provati a farlo uscire dal suo mutismo, poi, accortisi che avrebbero perduto inutilmente il tempo, si erano messi a giuocare ai dadi senza più preoccuparsi del loro padrone.

Qualche progetto doveva però maturarsi nel cervello dell’ercole, a giudicare dalle contrazioni del viso e dai lampi che, di quando in quando, balenavano nei suoi grandi occhi di porcellana.

Ed infatti il treno aveva appena oltrepassata la piccola stazione di Varde, quando con un pugno formidabile, che per poco non mandò in pezzi una sedia a dondolo, egli richiamò a sè l’attenzione dei suoi compagni.

— Ecco il colpo!... — esclamò, aprendo la sua larga bocca irta di denti come quella d’un caimano o d’un gaviale.

— Quale colpo? — chiesero ad una voce Sam e Zim, mettendo precipitosamente in tasca i dadi e le poste.

— Siete una massa d’asini! — gridò Simone. — Giovanotti miei, voi avete la testa un po’ dura.

— È vero, — confessò ingenuamente Zim.

— Però abbiamo il pugno solido, — credette di aggiungere Sam.

— Non me ne avete ancora data la prova.

— Te la daremo presto, padrone, — rispose Sam. — Giacchè parli d’un colpo...

— Taci, asino, ed ascoltami.

I cinque negri si erano seduti di fronte al Re dei Granchi, interrogandolo con gli sguardi.

Mentre voi, infingardi, giocavate, — rispose Simone, dopo [p. 50 modifica]qualche istante di silenzio, — io ho pensato al modo d’impadronirmi della Sovrana del Campo d’Oro, prima che giunga nel Gran Cañon del Colorado.

— Vuoi far saltare il treno? — chiese Zim. — Noi...

Mastro Simone lanciò sul negro uno sguardo terribile, che gli tolse la voglia di completare la frase.

— Tu, Sam, che sei il più intelligente e hai percorso in altri tempi queste regioni...

— Sì, ai servigi d’un ricco ranchman...

— Lascialo andare quel signore, che non m’interessa affatto. Il treno si ferma a Mojave, è vero?

— Sì, padrone, tutta la notte.

— Me lo avevano detto. Credi tu che troveremo dei buoni cavalli in quella borgata?

— Finchè vorrai. È una stazione di vaqueros.

— Di vaqueros hai detto? — chiese mastro Simone con un sorriso di soddisfazione. — Quegli uomini sono poco scrupolosi e non è difficile reclutarli quando qualcuno li paga bene.

— Fra il vaquero ed il brigante della prateria non vi è che la distanza d’un piede.

— E anche meno. Potremo noi reclutarne una diecina?

— Per che cosa farne?

— Per assalire il treno.

Sam ed i suoi compagni si guardarono l’un l’altro, grattandosi le capigliature lanute.

— Orsù, rispondi, — disse il Re dei Granchi.

— Non sarebbe difficile ma... assalire il treno, mentre è fermo nella stazione... col posto di guardia vicino.

— Sam, il tuo cervello si fossilizza, — disse Simone con tono severo. — Mi credi uno sciocco?... È in aperta campagna, in un luogo isolato che noi lo assaliremo, e voi lo svaligerete per conto vostro, se lo crederete opportuno. Io mi accontenterò di prendere miss Annie. Il bottino lo lascio a voi. Dimmi solo dove si trova la stazione telegrafica più prossima.

— A Rogers, padrone.

— È una borgata questo Rogers?

— No, non vi è che un piccolo deposito di carbone e la stazione.

— Niente abitanti?

— Nessuno.

— Nemmeno un posto di guardia, un fortino...

— Assolutamente nulla.

— Allora il colpo è fatto, — disse il Re dei Granchi. — Mio caro signor Harris, vi porterò via la fidanzata e vi manderò, a guisa di saluto, un paio di palle della mia rivoltella. Così imparerete a misu[p. 51 modifica]rarvi con me e guastarmi gli affari. Un po’ di buon piombo calmerà la passione che vi avvampa nel cuore.

— Spiegati meglio, padrone, — dissero Sam e Zim, ad una voce.

— Più tardi, quando il treno si fermerà. Continuate pure la vostra partita e lasciatemi, per ora, tranquillo.

Mente i cinque negri, felici di averne avuto il permesso, riprendevano il giuoco, il Re dei Granchi accese un grosso sigaro e, rovesciandosi sulla poltrona, si immerse nuovamente nei suoi pensieri.

Quattro ore dopo, il treno entrava fragorosamente nella stazione di Mojave, una delle più importanti di quella lunghissima linea, perchè di là si stacca un tronco che da una parte va a Los Angelos per poi allacciarsi con le linee del Messico, e dall’altra raggiunge Santa Barbara, sulla rive dell’oceano.

In quell’epoca non era che un agglomerato di casette e di capanne, costruite per lo più con tavole d’abete; pure aveva qualche albergo fornito di certe comodità e soprattutto un bel numero di taverne, frequentate per lo più da vaqueros, fra i quali non era difficile trovare anche dei salteadores o dei compadres, i briganti delle campagne californiane e messicane.

— Ci siamo, padrone, — disse Sam, preparandosi a prendere le valige.

— Adagio, — rispose Simone. — Uno dei miei negri rimanga qui, a guardia dei nostri bagagli, e tu, Zim, prendi invece quella cassetta di legno. Bada di non urtare in qualche luogo. Potresti saltare in aria, e noi insieme con te.

— Che cosa vi hai messo dentro, padrone? — chiese il negro spaventato.

— Ciò non ti riguarda, per ora. Aspettate un momento.

Alzò con precauzione le tende e guardò fuori.

Alcune persone, americani dell’Ovest e messicani, scendevano dal treno, fra le grida dei facchini che accorrevano da tutte le parti ed i fischi stridenti delle macchine.

— Eccoli là, — mormorò il Re dei Granchi, stringendo le pugna. — Annie, l’ingegnere, e quell’imbecille di Blunt. Domani sera mi saprete dire qualcosa di ciò che sto apparecchiandovi.

Attese che i viaggiatori fossero usciti, poi scese a sua volta, seguìto dai quattro negri, mentre il quinto rimaneva a guardia delle valige.

— Presto, Sam; conducimi in un luogo dove potremo trovare della gente di fegato. Vaqueros, leperos o compadres poco monta, purchè siano uomini risoluti.

— Ne troveremo finchè vorrai, padrone, — rispose il negro. — Chissà che non incontri anche delle vecchie conoscenze. [p. 52 modifica]

— Degne di te, speriamo.

Uscirono frettolosamente dalla stazione e, preceduti da Sam, si cacciarono in una viuzza fangosa, solcata da spaccature profonde, prodotte certo da carri pesantissimi; si fermarono dinanzi ad una tenda amplissima, entro la quale si udivano echeggiare grida discordi, mescolate confusamente al suono di alcune chitarre ed ai rulli sordi di alcune zambamba1.

— Questo luogo fa per noi, — disse Sam. — Entriamo, padrone: si beve, si gioca e si danza.

Alzarono un lembo di stuoia variopinta, che serviva da porta ed entrarono.

Un’onda di fumo li investì, impedendo loro dapprima di scorgere qualsiasi cosa, poi, dissipatasi un po’ la nube attraverso la stuoia che era rimasta sollevata, videro una folla d’uomini seduti dinanzi ad alcune tavole, che si piegavano sotto il peso di numerose bottiglie. Altri avventori giocavano ai dadi, urlando, imprecando e minacciando con voci rauche. In un angolo taluni danzavano forsennatamente un fandango strepitoso, al suono di alcune chitarre.

Quegli uomini, quasi tutti ubriachi, erano per la maggior parte vaqueros e messicani della frontiera: vestivano calzoni di pelle di capra che terminavano a campana, con il pelo al di fuori, panciotti con le maniche, sandali di cuoio con enormi speroni d’argento e cappelli a tese ampie ornati di bordature d’oro annerite dal tempo e dalle intemperie.

Alla cintura tutti avevano rivoltelle o pistole dalle lunghe canne arabescate e machetti, i solidi coltelli messicani dalla lama un po’ ricurva che quei selvaggi custodi di mandrie sanno adoperare con non minor valentia dei gauchos delle immense pianure argentine. Non dovevano mancare fra di loro i salteadores ed i compadres, a giudicare da certi tipi d’aspetto brigantesco e risoluto, amici e sovente alleati dei vaqueros, che non sono nemmeno essi fior di galantuomini.

— Si divertono qui, — disse il Re dei Granchi, sedendosi ad una tavola che era occupata da un solo individuo. — Che bella collezione di furfanti!...

L’uomo che sedeva all’altra estremità, un messicano, a giudicarlo dalla sua tinta terrea e dal sombrero che portava sul capo, nonchè dalla manga di velluto con grossi bottoni d’argento che gli copriva il busto, udendo quelle parole, aveva alzata vivamente la testa, figgendo sul negro i suoi occhi nerissimi e vellutati.

— Di chi parlate, señor negro? — chiese, corrugando la fronte — Di noi o di voi?...

— Di tutti insieme, — rispose il Re dei Granchi, senza esitare. [p. 53 modifica]

— Pare dunque che non sappiate chi io sia.

— Lo ignoro perfettamente, señor.

— Se lo sapeste, non parlereste così.

— Cercate di attaccar lite? — chiese Simone, mostrando i suoi enormi pugni che sembravano mazze.

— Josè Mirim non ha mai avuto paura nè dei bianchi, nè dei negri, — rispose il messicano, estraendo rapidamente il suo machetto e piantandolo profondamente nella tavola.

— Avete del coraggio voi, señor, ed erano appunto degli uomini di fegato che io sono venuto qui a cercare.

— Voi!... — esclamò il messicano, guardandolo con un certo disprezzo.

— E sono pronto a pagarli bene, — proseguì il Re dei Granchi. — Forse che non vi sono negri ricchi quanto i bianchi e anche di più?

Il messicano era rimasto silenzioso, guardando con particolare attenzione il colosso.

— Un uomo robusto, — disse finalmente. — Parola d’onore che vi arruolerei con piacere.

— Ed in quale compagnia? — chiese Simone. — Ma permettete prima, señor, che vi offra qualche cosa. Siamo assetati.

Fermò con la mano un servo che passava, dicendogli:

— Cinque bottiglie di vino di Spagna, di quelle a quattro e anche cinque dollari alla bottiglia. Vogliamo fare baldoria con vini scelti.

— Spendete come un principe, — disse il messicano. — Avete per caso scoperto qualche ricco placer, colmo di pepite d’oro?

— Non siamo minatori, señor, — rispose Simone. — Sono però, almeno io, abbastanza ricco per permettermi di offrire anche agli sconosciuti che mi piacciono...

— Siete un Creso?

— Non lo so, d’altronde poco v’importa.

— Eh!... Chi lo sa? potrei, per esempio, aspettarvi in qualche luogo, farvi assassinare e depredare, — rispose il messicano sorridendo.

— Non trovereste indosso a me che qualche centinaio di dollari, una vera miseria che non vale la pelle d’un uomo, sia pure d’un negro, — disse il Re dei Granchi ridendo. — Le mie ricchezze sono al sicuro.

Il messicano tornò a guardarlo con crescente curiosità, poi prendendo una delle bottiglie che il garzone aveva recato, riempì due bicchieri e toccò quello di Simone, dicendo:

— Io non ho pregiudizio di razza come gli yankee; bianco o nero o rosso, per me fa lo stesso e... spoglio gli uni e gli altri ben volentieri, quando mi si presenta l’occasione.

— Eh!... — fece Simone. — Sareste voi?... [p. 54 modifica]

— Un vaquero, di professione, un salteador all’occasione, — rispose il messicano.

— Siete franco. Se io vi denunciassi?

— Qui nessuno oserebbe prendermi, e poi non vi lascerei il tempo di farlo.

— Voi siete l’uomo che mi occorre, — disse il Re dei Granchi, — ed è una vera fortuna avervi trovato. Volete guadagnare e dividere coi vostri compagni, giacchè suppongo ne abbiate, cinquemila dollari?

Il messicano aveva sussultato, facendo tintinnare gli enormi speroni dei lunghi stivali di cuoio giallo.

Caramba!... — esclamò. — Cinquemila dollari!... Scherzate, señor.

— Parlo seriamente, — disse l’africano.

— Beviamo.

— Sia pure, tanto più che questo vino è eccellente, per quanto un po’ caro.

Il vaquero vuotò in tre colpi un paio di tazze, accese un grosso sigaro, appoggiò i gomiti sul tavolo, e guardando fisso il negro, disse:

— Spiegatevi.

— Quanti uomini avete?

— Dieci se bastano, cinquanta e anche più, se li desiderate.

— Banditi?

Vaqueros al pari di me, mai voi dovreste sapere che noi...

— All’occasione diventate anche salteadores, — disse Simone.

— È così, señor.

— Una diecina di uomini mi possono bastare, purchè siano tutti montati e abbiano in riserva cinque cavalli per me e per i miei uomini.

— Ci saranno. Che cosa dobbiamo fare?

— Arrestare semplicemente il treno che partirà domani mattina da qui per Barston.

— Diavolo!... — esclamò il messicano. — Una faccenda un po’ seria, señor.

— Vi offro cinquemila dollari.

— Dove desiderate fermarlo?

— Alla prima stazione.

— A Rogers, allora. Là non vi sono nè guardie, nè truppe e non sarà difficile. Il treno non ha che quattro carrozzoni e non devono esserci molti viaggiatori. Quello che mi spaventa è il domani.

— Spiegatevi meglio, — disse l’africano.

— Se mi riconoscessero, non potrei più tornare qui.

— Mi hanno detto che il vaquero non ha patria. [p. 55 modifica]

— Oh!... questo è vero, — rispose il messicano. — E perchè volete fermare quel treno?

— Ve lo spiegherò lungo il viaggio.

— Volete partire subito?

— Dobbiamo prima impadronirci della stazione e poi rovinare la linea. Ho delle cartucce di dinamite con me.

— Faremo saltare una roccia del passo della Gila e produrremo una frana considerevole, oppure guasteremo i binari.

— Benissimo. Vuotiamo, poi andrete a chiamare i vostri amici.

— La caparra, señor, — disse il vaquero tendendo la mano.

Mastro Simone levò dal portafoglio uno chèque e lo porse al messicano, dicendogli:

— Ecco duecento dollari: e...

Uno scoppio di risa, seguito da altri altrettanto clamorosi, gli fece alzare la testa.

— Un negro che paga da bere ad un vaquero!... — gridò una voce. — Brutta scimmia, ed a noi nulla? Paga, o ti faremo ballare una sarabanda a colpi di frusta, pelle nera!...

Sette od otto uomini, che portavano in testa degli immensi sombreros scolorati e sdrusciti e vestivano il pittoresco costume dei vaqueros, con alte gambiere di cuoio non conciato, adorne ai lati di strisce di pelle tagliuzzate, si erano appressati alla tavola, sghignazzando.

Erano ubriachi, e potevano diventare pericolosi, perchè tutti avevano alla cintola il machetto.

Mastro Simone era diventato pallido, o meglio la sua pelle aveva assunto una tinta grigiastra, poi si era alzato vivamente, squadrando gli importuni con uno sguardo feroce.

Josè Mirim lo aveva prevenuto, mettendoglisi prontamente dinanzi e gridando con tono minaccioso agli ubriachi:

— Che cosa volete, banda d’urubu?2.

Il messicano non era un colosso da paragonarsi al Re dei Granchi, nondimeno era uomo da tener testa a parecchi avversari. Era un bel giovane, di una trentina d’anni, di statura alta, piuttosto magro e nervoso, dal volto fiero ed energico.

La sua voce, metallica e vibrante, impressionò da principio i vaqueros, ma solo per qualche istante, perchè uno degli ubriachi rispose subito, con tono sardonico:

— Josè che beve coi negri!... Che bella compagnia ti sei trovata!...

— Sono miei amici, — rispose il messicano.

— Allora comanda al negro che paghi delle bottiglie anche a [p. 56 modifica]noi, — disse un altro. — Canarios!... Vino da otto dollari!... Il negro ha scoperto un placer.

— Che noi sfrutteremo, vecchia pelle nera!... — urlò un terzo. — Tu sei un egoista, e se non canti, ti romperemo quel brutto muso da scimmia.

— Basta, canaglie!... — gridò il Re dei Granchi, furiosamente. — A te!... Così imparerai a rispettare i negri!...

Con uno scatto improvviso, si era gettato sull’uomo che lo aveva chiamato vecchia pelle nera e con un pugno formidabile lo aveva atterrato, fracassandogli la mascella destra.

Vedendolo cadere, i suoi compagni avevano estratti risolutamente i loro machetti, mentre da tutte le parti della sala accorrevano vaqueros, leperos e minatori, certo poco disposti ad aiutare i cinque negri, i quali dal canto loro avevano impugnate le rivoltelle, che tenevano nascoste sotto la fascia.

Josè Mirim, con un colpo secco, aveva aperta una smisurata navaja, che pareva una spada, e si era gettato dinanzi agli ubriachi, gridando con voce tonante:

— Chi vuol provare la punta del mio coltello, s’avanzi pure. Poi, volgendosi verso il Re dei Granchi che pareva si preparasse a far fuoco, aggiunse:

— Lasciate fare a me, señor. Non compromettetevi o tutto finirà male.

— Non ho paura, — rispose Simone. — Sono capace di difendermi.

— In questo momento, no.

I bevitori, vedendo Josè Mirim piegare in quattro il suo serapè infioccato, dai colori smaglianti, avvolgerselo intorno al braccio sinistro, e prendere poi la guardia degli schermidori di professione, si erano arrestati.

Certo quel giovane doveva essere conosciuto per un vero e terribile diestro (valente).

— Avanti chi l’osa, — ripetè il messicano, allargando le gambe per rendere più facili le evoluzioni e allungando il pollice sulla parte più larga della navaja, mentre fissava la mano sinistra contro la cintura. — È una vera lama d’Albacete la mia, fatta da un maestro herreria (coltellinaio di credito) famosissimo.

Un profondo silenzio aveva accolto quella sfida. Anche i compagni del caduto non avevano fiatato ed erano rimasti titubanti, quantunque avessero ancora i machetti in mano.

Ad un tratto una voce echeggiò in fondo alla sala.

— E che? Dovremo avere sempre paura di costui? È ora di finirla con quel compadre!

— A chi compadre?... — gridò il vaquero. [p. 57 modifica]

— Sì, tu sei un salteador, — ripetè la voce di prima, — e ti accuso pubblicamente.

— Avanzati dunque e lanciami l’accusa in viso!...

— Eccomi!...

Un uomo si era aperto il passo fra i bevitori. Non era un messicano, bensì uno yankee di forme massicce, oriundo irlandese, a giudicare dalla sua capigliatura rossastra ed ispida. Aveva impugnato uno di quei terribili coltelli lunghi un buon piede, chiamati bowie-knife, usati dagli americani e dai cow-boys delle regioni occidentali della grande repubblica americana.

— Tom Connaugh!... — esclamarono i bevitori, lasciandogli il passo.

— Sì, Tom Connaugh, il minatore, che si propone di dare una dura lezione a quel ladro delle grandi strade che ha la pretesa d’imporsi a tutti, — urlò l’americano. — Poi mi occuperò dei negri che devono essere suoi complici.

— Comincia dunque da me, — disse Simone, facendosi innanzi. — Vuoi che facciamo una partita a pugni? I miei varranno meglio del coltello.

L’americano si era fermato, guardando con sorpresa il negro: gli sembrava impossibile che quella pelle nera potesse avere tanta audacia. Anche gli altri bevitori non avevano frenato un grido di stupore.

Josè Mirim, con la navaja sempre impugnata e la mano sinistra puntata sul fianco, aspettava tranquillamente che l’americano avesse scelto il suo avversario.

Ad un tratto lo yankee aprì la bocca, come se volesse dire qualcosa, e proruppe in una risata clamorosa.

— Ah!... Ah!... Ah!...

I bevitori vi avevano fatto eco.

Il Re dei Granchi era diventato ancor più grigiastro in volto, mentre un lampo feroce gli balenava negli occhi.

— È troppo!... — esclamò. — Finiscila, immondo caimano, o ti stritolo!...

A quella sanguinosa ingiuria, l’americano aveva cessato di ridere. Un negro che si permetteva di dargli dell’immondo caimano! Era il colmo.

— Ah!... Brutta scimmia!... — urlò facendosi rosso. — Ti farò a pezzi!... Del vaquero mi occuperò poi.

— Vi aspetto, — rispose tranquillamente Josè Mirim, levandosi da un taschino un sigaro ed accendendolo.

— Vedremo se allora sarete in grado di affrontare quell’uomo, — disse Simone, mettendosi prontamente di fronte all’avversario.

Note

  1. Vasetto di terra, di forma cilindrica coperto da un lato da un pezzo di pelle.
  2. Uccelli che divorano le carogne e fungono da spazzini nelle città messicane.