VI - Attraverso la California

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V VII
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CAPITOLO VI


Attraverso la California


Miss Annie, Harris e lo scrivano, giunti alia stazione pochi minuti prima che il treno partisse, avevano preso posto in uno degli ultimi carrozzoni, perchè i primi erano quasi tutti occupati da californiani, che si recavano a lavorare nelle miniere, mestiere ancora abbastanza redditizio a quell’epoca.

La giovane indossava un elegante vestito da viaggio, di panno grigio, semplicissimo, che faceva risaltare meravigliosamente le sue forme sottili e squisitamente modellate.

Da vera americana, portava nella borsetta una piccola rivoltella a sei colpi, perchè le linee ferroviarie della regione meridionale sono molto meno sicure della Transcontinentale Pacifico, ossia della grande linea che unisce New-York, la Regina dell’Atlantico, a S. Francisco la Regina del Pacifico.

Harris e lo scrivano, che desideravano passare inosservati, avevano invece indossato il pittoresco costume dei vaqueros messicani: sombrero a larghe tese, con gallone dorato, ampi calzoni di velluto dai bottoni dorati, lunghi stivali con gli speroni d’argento, la cui rotella era grossa quanto una moneta da cinque lire, e la manga di grossa flanella, coperta dallo smagliante serapé infioccato.

Entrambi avevano alla cintola rivoltelle Colt, armi di grosso calibro e di una precisione straordinaria, che a cinquanta passi mettono un uomo fuori combattimento, con poche probabilità di rimettersi in piedi.

Harris, che non amava gl’intrusi, aveva preso tutto il carrozzone [p. 43 modifica]per loro, una di quelle splendide vetture lunghe nove metri, con tappeti, specchi, divani da tramutarsi in letti, galleria esterna e paraventi.

Comodamente seduti dinanzi agli ampi sportelli, dai quali la fresca brezza mattutina entrava liberamente, guardavano il paesaggio circostante, ognuno assorto nei suoi pensieri.

Il treno, composto solamente di sette carrozzoni, costeggiava velocemente la baia meridionale di S. Francisco, per raggiungere la stazione di S. Josè, da cui poi risale verso Lathrop, prima di prendere definitivamente la via del sud.

— Signor Harris, — disse Blunt, quando vide il treno allontanarsi a poco a poco dalla baia. — Credete che quel brutto negro mi verrà a scovare nel Gran Cañon?

— Deve cercarvi sulle navi in partenza per l’Australia, — rispose l’ingegnere, ridendo. — Avete avuta una gran bella idea dandogli da bere quella frottola.

— Ci andava di mezzo la pelle, signore. Quel furfante deve essere ancora selvaggio, come i suoi compatriotti dell’Africa equatoriale. Non credo che l’aria della California abbia calmati i suoi istinti di bestia feroce. E pensare che senza quello stratagemma sarebbe diventato vostro sposo, miss Annie.

— Quel mostro! — esclamò la giovane, facendo un gesto d’orrore. — Avrei preferito uccidermi dopo i sei mesi di libertà che mi spettavano.

— Avete fatto bene a venire con noi, Blunt, — disse Harris. — Non sareste stato sicuro rimanendo in S. Francisco, e forse nemmeno in California.

— Sarei partito egualmente, ingegnere. Restare laggiù con centomila lire in tasca, mentre vi sono ancora dei bisonti da uccidere e degl’indiani da vedere!...

— Adagio, con gl’indiani, amico. Non sono ancora tutti sottomessi, e quelli che noi andiamo a trovare godono la fama di essere i più feroci di tutto il continente americano settentrionale.

Apaches e Navajoes!... Sono vere bestie feroci che hanno ancora la brutta abitudine di scotennare i visi pallidi, quando dissotterrano l’ascia di guerra.

— Non sono tranquilli, ora?

— Uhm!... Non si sa mai quando lo siano. Basta un nonnulla per scatenarli, e pretesti ne trovano sempre per sconfinare dalle loro riserve e dare addosso agli uomini bianchi.

C’è anzi laggiù un capo Apache che si chiama Victoria, il quale ogni due mesi, per un motivo o per l’altro si mette sul sentiero di guerra e porta la rovina in ogni luogo. E’ un gran diavolo rosso che gode fama di essere invincibile, ed è particolarmente temuto dai minatori del Gran Cañon del Colorado. [p. 44 modifica]

Figuratevi che con capigliature strappate di sua mano, si è fabbricato un tappeto, che si dice abbia virtù miracolose.

— E quali? — chiese Annie.

— Di guarire tutti gli ammalati1.

— Speriamo di non trovarci fra i piedi quell’arrabbiato collezionista di capigliature, — disse lo scrivano. — Già la mia stonerebbe sul suo tappeto, slavata e pallida come è.

— Anzi farebbe ottima figura fra le capigliature nere dei messicani, — rispose Harris.

— Non fa distinzione dunque fra nord-americani e messico— spagnuoli?

— Niente affatto, purchè siano capigliature. Mio caro amico, volete ordinare la colazione? Il carrozzone vicino è occupato dal cuoco del treno, quindi non avrete da andare molto lontano. Quest’aria mattutina mette indosso una fame da lupo, è vero, Annie?

— Avete ragione, Harris, — rispose la fanciulla.

Mentre si accingevano a consumare una lauta colazione, il treno proseguiva la sua rapidissima corsa lungo quella specie di penisola, che dalla baia di Monterey si spinge verso S. Francisco, formando un magnifico golfo che non ha forse l’eguale in tutta l’America settentrionale.

Alle otto entrava già, con gran fragore, nella stazione di S. Josè, situata quasi all’estremità del golfo, poi ripartiva verso il nord-est per raggiungere Lathrop, la rivale di Sacramento, che pare destinata a diventare una delle città più fiorenti e cospicue della California.

Il treno correva allora sugli antichi placers, che alcuni lustri prima avevano richiamato da tutte le parti del mondo migliaia e migliaia di avventurieri assetati d’oro. Invece di claims, di ammassi di terra, di minatori febbricitanti e sbrindellati, dal treno si scorgevano superbi vigneti, tenuti con cura meticolosa, opera degli emigrati italiani, i veri creatori della fortuna vinicola della California.

— L’oro è scomparso, — disse Harris, — ma la terra non ha cessato di rendere. Il vino ha sostituito il metallo.

— Hanno estratto molto oro in questa regione, signor Harris? — chiese Blunt.

— Si calcola che la California abbia dato per cinque miliardi di lire.

— Mille milioni di dollari!... — esclamò lo scrivano. — E quando è cominciata quella prodigiosa raccolta?

— Dal 1841, ossia dall’epoca in cui il capitano Suther, uno svizzero che era stato ufficiale delle guardie di Carlo X re di Francia, si [p. 45 modifica]accorse per la prima volta che le terre californiane nascondevano immense quantità d’oro.

— In quale modo? Coltivando il terreno?

— No, per puro caso, — disse l’ingegnere. — Suther aveva chiesto al nostro governo una grande concessione agricola, e siccome la California in quel tempo era quasi spopolata, l’aveva ottenuta senza alcuna difficoltà.

— Sapeva che il terreno concessogli conteneva dell’oro? — chiese Annie.

— Niente affatto, rispose Harris. — Come dissi, fu il caso che fece conoscere le immense ricchezze nascoste nel sottosuolo.

Suther aveva costruito un mulino sul fiume della Forca, quando un giorno esaminando il fondo della cascata d’acqua, vi trovò alcune pepite d’oro. Fece scavare il terreno in quei pressi e scoprì dei filoni auriferi d’un valore inaudito. La voce si propagò con rapidità fulminea e la scoperta, dopo pochi mesi, era conosciuta nel mondo intero.

Gli avventurieri dei due emisferi si precipitarono sulla California. Nessuna epoca fu testimone di tanta ressa e di tanto fanatismo. Fin da principio, si crearono fortune enormi, e quella febbre durò dal 1841 al 1852, chiamando qui milioni di persone. Figuratevi che si estraeva in media tanto oro all’anno per 300 milioni.

— Un vero fiume.

— Che fu però superato, alcuni anni più tardi, da quello che rovesciarono i placers dell’Australia.

— Che se ne possa trovare ancora sotto questi terreni? — chiese Blunt.

— È probabile, — rispose Harris. — Ma non in grande quantità e, come vedete, nessuno va più a cercarlo. La vite ha vinto ormai l’oro, dopo che sono giunti gl’italiani, quegli ammirabili agricoltori che hanno coperta la valle del Sacramento di vigneti, che tutti gli Stati dell’Unione c’invidiano.

— E rendono? — chiese Annie.

— Non dirò quanto i placers, ma certo molti milioni all’anno, anzi centinaia. Vi sono annate in cui i nostri vigneti producono tanto vino da mettere in serio imbarazzo gli agricoltori, che non sanno dove metterlo. Ora però vantiamo la più colossale botte del mondo, e per quanto vino si produca, là dentro ci starà tutto.

— Che botte sarà? — chiese Blunt.

— Quella di Asti. Non l’avete mai veduta?

— No, signor Harris. Credevo che la botte più colossale fosse sempre quella di Heidelberg, che gode una fama mondiale.

— No, perchè quella germanica non contiene che 220.000 litri, e poi è stata detronizzata da quella di Londra che ne contiene 490.000.

— E la nostra? — chiese Annie. [p. 46 modifica]


— È così immensa che, per riempirla, due pompe a vapore impiegano sette giorni e quattro per vuotarla.

— È un lago!... — esclamò Blunt.

— Poco meno.

— Quanto legname impiegarono nella costruzione? Una foresta intera?

— Nemmeno un arbusto, mio caro, — rispose Harris. — Occorsero invece mille barili di cemento Portland, seimila di rena e di pietrisco e quarantacinque giorni e notti di lavoro per costruirla, e tutto fu fatto dai viticultori italiani.

— Che bacino!

— Immaginatevi che vi fu data dentro una festa da ballo, alla quale intervennero funzionari, giudici, banchieri, mercanti, scienziati e professionisti con le loro famiglie, una intera banda musicale e...

Un fischio acuto gli tagliò la parola.

— Siamo già a Niles, — disse. — Fra poco fileremo fra la sierra del Diavolo e quella della Nevada. Vedremo paesaggi superbi, Blunt.

Il treno non si fermò che qualche minuto a Niles e riprese subito la corsa verso l’est, giungendo due ore dopo a Lathrop, da cui si stacca la linea principale della California-Arizona.

A mezzanotte s’arrestava a Berenda, una delle più importanti stazioni del Pacific Atlantic, per rifare le provviste d’acqua e di carbone, e alle due si slanciava attraverso l’immensa pianura, racchiusa all’est dalla imponente catena della Nevada e all’ovest dalla Sierra della Costa.

Quando l’alba sorse, i viaggiatori avevano lasciato indietro anche Tulare, altra stazione importante, dove risiede una fiorente colonia di viticultori italiani, che hanno coperti di vigneti tutti i dintorni del lago omonimo.

— Andiamo molto in fretta, — disse lo scrivano, che guardava con vivo interesse le alte cime della Sierra Nevada, coperte ancora di neve e coi fianchi irti di pini giganteschi.

— E viaggeremo ancor più rapidamente quando avremo varcate le frontiere della California, — rispose Harris. — Laggiù le stazioni sono rare e le fermate più rare ancora.

— E dove finisce questa linea?

— Sulle rive dell’Atlantico, amico mio. È la rivale della Transcontinentale Pacifico.

— Che difficoltà devono aver superate i nostri ingegneri per costruire queste immense linee!

— Non molte per questa, ma per la prima sì. Anzi si può dire che hanno fatto stupire il mondo intero. Nessuno credeva che i nostri ingegneri riuscissero a mettere in comunicazione l’Atlantico col Pacifico, sia per gli sterminati territori che dovevano attraversare, sia per [p. 47 modifica]l’ostilità degl’indiani, sia per la colossale catena delle Montagne Rocciose, che minacciava di essere una barriera assolutamente insuperabile pei mostri di ferro.

— Fu certo un grande avvenimento, quando fu dato al mondo l’annuncio che la grande impresa era riuscita e compiuta — disse Annie.

— Che fece quasi impazzire tutti gli americani, — rispose Harris.

— Raccontate, ingegnere, — disse Blunt. — A chi nacque quella grandiosa idea?

— All’ingegnere Thomas Judah, che, dopo una lunga serie di studi compiuti sulla Sierra Nevada, comunicò i suoi progetti ad una riunione di capitalisti del Sacramento, i quali li fecero approvare al Congresso di Washington il 1° luglio del 1862.

Due compagnie, l’Unione del Pacifico, e la Centrale Pacifico, si assunsero la difficile impresa, con un capitale di quattrocento e settantacinque milioni. I lavori furono incominciati d’ambo le parti, ossia da S. Francisco e da New-York e proseguiti assiduamente, malgrado tutti gli ostacoli, la mancanza di viveri e d’acqua, gli assalti incessanti delle tribù indiane, che non erano in quell’epoca ancora sottomesse e colpivano senza misericordia quanti lavoratori potevano sorprendere.

Per buona fortuna, il Mormone ed il Cinese, soprattutto quest’ultimo che pure è disprezzato ingiustamente da noi, prestavano il loro paziente aiuto, pronti a sostituire i lavoratori che di quando in quando si rivoltavano o abbandonavano le linee.

La ferrovia doveva, sotto pena di confisca, essere finita per il 1° luglio del 1876; invece il 1° maggio del 1869 era già in pieno esercizio. La festa che salutò l’inaugurazione della grande linea, è rimasta memorabile.

— Lo credo, — disse Blunt.

— I preparativi per congiungere i due tronchi furono rapidi. Fra i due capi delle rotaie si era lasciato uno spazio di duecento piedi. Presenti tutte le supreme autorità della Confederazione, ad un segnale convenuto, fra il più rigoroso silenzio, due squadre s’avanzarono in rigorosa tenuta da lavoratori, per completare la linea ferroviaria.

La prima era formata di lavoratori americani, l’altra di cinesi californiani. Alle 11 le due squadre si trovavano l'una di fronte all’altra: gli uomini dell’Est dinanzi a quelli dell’Ovest. Li seguivano due locomotive che fischiavano rumorosamente in segno di saluto.

Nel medesimo tempo il comitato spediva a Chicago ed a San Francisco un dispaccio telegrafico concepito in questi termini:

«State pronti a ricevere i segnali corrispondenti agli ultimi colpi di martello».

Affinchè tutte le città dell’Unione potessero nello stesso tempo essere avvertite del grande avvenimento, i fili telegrafici della linea [p. 48 modifica]erano stati collegati e messi in comunicazione elettrica col luogo stesso dove l’ultimo chiodo doveva essere conficcato.

Grazie a questi preparativi, i colpi di martello dati a Promontory-Point potevano avere un’eco immediata in tutti gli Stati della Federazione.

Quando si trattò di collocare l’ultima traversa, il dottore Harkness, dello Stato di California, fece portare la rotaia di legno di lauro, le chiavarde d’oro ed il martello d’argento, dicendo ai direttori delle due società:

«Quest’oro estratto dalle miniere ed il prezioso legno che viene dalle nostre foreste, i cittadini dello Stato ve li presentano affinchè divengano parti integranti della strada che unirà la California agli Stati fratelli dell’Est, il Pacifico all’oceano Atlantico».

S’avanzò poscia il generale Safford, deputato del territorio dell’Arizona, e presentò tre chiavarde: una d’oro, una d’argento ed una di ferro, dicendo:

«Ricco di ferro, d’oro e d’argento, il territorio d’Arizona reca questa sua offerta all’impresa che è il grande vincolo degli Stati Americani, e apre al commercio una nuova comunicazione».

Quando le ultime rotaie furono messe a posto, il generale Dodge, deputato dell’Unione, a sua volta disse:

«Voi avete recata a compimento l’opera di Colombo. Questa è la strada che conduce alle Indie».

Finalmente il deputato della Nevada offrì un’altra chiavarda, dicendo:

«Al ferro dell’Est ed all’oro dell’Ovest, la Nevada aggiunge il suo legame d’argento».

Nel medesimo tempo i presidenti delle due ferrovie facevano telegrafare a S. Francisco ed a Chicago:

«Tutti i preparativi sono terminati: toglietevi il cappello e fate una preghiera».

A cui il sindaco di Chicago, rispondeva telegraficamente:

«Abbiamo inteso e vi seguiamo. Tutti gli Stati dell’Est vi ascoltano».

E pochi minuti dopo i segnali elettrici, che trasmettevano in tutti gli Stati dell’Unione i colpi di martello, informavano gli americani che la grande opera era stata finalmente condotta a termine.

Quella comunicazione simultanea produsse una tale impressione in tutti gli americani, che sarebbe impossibile descriverla. Vi furono lagrime di gioia, esplosioni di vero delirio, spari di cannoni in tutte le città, dimostrazioni clamorose.

— Vorrei esservi stato anch’io, — disse Blunt. — Che bei momenti!...

— Indimenticabili di certo, mio caro amico, — rispose l’inge[p. 49 modifica]gnere. — Ah!... Il treno rallenta!... Dobbiamo essere vicini a Mojave, dove ci fermeremo.

— A lungo? — chiese miss Annie.

— Non ripartiremo che domani alle quattro. La macchina deve rifornirsi ed i macchinisti hanno un riposo di sedici ore. Andremo in un albergo; si dice che anche a Mojave le comodità non manchino.

— Che ore sono, signor Harris? — chiese Annie.

— Sono appena le tre pomeridiane. Signor Blunt, prendete anche voi qualche valigia.

Note

  1. Storico.