La Regaldina/XVI
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XVI.
La Tatta moriva.
Non avevano nemmeno pensato a trasportarla sul suo letto; moriva nel salottino bigio, dove erano trascorsi trentanni della sua vita operosa e modesta, divisa tra il lavoro e la beneficenza.
Daria, accorsa quasi subito, la teneva abbracciata sostenendole la testa; Pierino ritto ai piedi del divano, colle braccia conserte, sembrava una statua; difficile sarebbe stato il poter leggere sulla sua faccia le interne emozioni.
Matilde restava dimenticata nel suo angolo; nessuno pensava a lei, nessuno la cercava, benchè ella fosse la causa principale della disgrazia.
La povera vecchia, cui un travaso di sangue aveva tolta la facoltà di muoversi e di parlare, risensava momentaneamente sotto le cure di Daria. Nella posizione in cui si trovava, non poteva vedere Matilde; Daria accennò a Pierino di nascondersi esso pure per non renderle troppo penosi quegli ultimi momenti. Difatti girando attorno le pupille ella parve contenta di non vedere altri che la giovanetta e le sorrise, come se la orribile scena di poc’anzi fosse stata un sogno.
Daria la baciò appassionatamente; la zitellona rispose a quel bacio, forse per la prima volta, e tale abbandono di tenerezza commosse Daria fino alle lagrime.
— Oh! mia cara zia, cara zia... — esclamò gettandosele al collo, sentendo che quella bell’anima stava per abbandonarla.
La vecchia mosse le labbra, ma la parola era ribelle; finalmente potè articolare a stento:
— Lascia questa casa infame... va, egli ti ama, egli ti seguirà. Sii felice.
— Grazie — mormorò Daria sempre piangendo, eppure paga di vedere alfine riabilitato l’uomo ch’essa amava, di trovarlo, ultimo pensiero, sulle labbra di una morente.
La Tatta fece ancora una sforzo:
— Non credevo, sai... non credevo che fosse quel galantuomo che è; ma ora... lo credo. È come Genesio di Pomponesio che... che anche lui...
Non potè continuare; le forze le venivano meno di minuto in minuto.
Matilde nel suo cantuccio singhiozzava, repressa, essendosi lasciata cadere sui ginocchi colla persona tutta accasciata; Pierino in piedi, appoggiato al muro dietro il capezzale della Tatta, non si moveva. Questo silenzio dei due colpevoli era spietato; era come un abisso che li divideva, li esiliava dal resto della famiglia, senza che essi trovassero la forza di reagire nemmeno con un lamento.
L’agonia fu breve. Nell’istante che la Tatta chiudeva gli occhi per sempre, si udì Rodolfo tornare a casa. Egli attraversava la corte col suo passo pesante e malfermo, cantando un’aria d’opera.
Daria si voltò a mezzo e fece cenno a Pierino, il quale uscì tacitamente, incontro al fratello, trattenendolo fuori per prepararlo in qualche modo. Quando rientrarono tutti e due, un rigido cadavere era steso sul divano.
Nessuno si coricò quella notte; nemmeno Rodolfo, che cogli occhi imbambolati, guardava la Tatta, non potendo capacitarsi che fosse stata colpita così all’improvviso.
Pierino e Matilde sapevano bene che Daria non avrebbe parlato, pure il triste segreto di quella morte aleggiava funereo nel salottino, e pesava grave come il rimorso sopra i due sciagurati, che non osavano scambiare nè un motto, nè uno sguardo.
Così li sorpresero le prime ore del mattino.
La servetta, senza averne avuto incarico dai padroni, fu lesta a correre nella casa bianca a narrare l’accaduto e poco dopo Ippolito comparve, inaspettato, nella lugubre scena. Gli si diede lì per lì una spiegazione improvvisata; ma egli era troppo avvezzo a leggere negli occhi di Daria, e gli occhi di Daria non sapevano mentire.
Fortunatamente le disposizioni che occorrevano per il decesso, copersero il generale imbarazzo. Pierino andò dal medico; Matilde scomparve tacitamente, rotta dalla fatica e da tante scosse avute. Ippolito allora si avvicinò a Daria e le chiese risolutamente la verità.
— Più tardi — balbettò la giovane — più tardi le dirò tutto, a lei solo.
Egli si accorse che stava per cadere e la cinse colle sue braccia. Non aveva mai arrischiato una cosa simile, ma in quel momento sentiva il diritto di stringersela sul cuore, perchè la poveretta non aveva più nessun protettore al mondo: egli le si affermò tutto suo, eternamente suo, posandole le labbra sugli occhi, bevendone le lagrime.
Alle vive preghiere del suo amico, Daria acconsentì di cedergli la custodia della morta, ed ella si ritirò per riposare un poco.
Il giorno seguente, tutto il paese correva ai funerali della Tatta; la maggior parte meravigliavano che una donna, così robusta, avesse cessato di vivere repentinamente, e in questa occasione la signora Ernesta sentenziò, che le persone forti sono appunto quelle che muoiono più in fretta delle altre.
Quando il corteggio funebre passò sotto le finestre della signora Luigina, fu vista la povera inferma rizzandosi contro i vetri dietro gli arabeschi di carta e mandare baci e benedizioni a colei che le era stata più che amica, sorella e benefattrice unica. Tutti furono d’accordo nel dire, che era una scena commovente.
Poi, un po’ alla volta, il paese dimenticò la vecchia Tatta, e la sua memoria si ridusse nelle quattro pareti della casa nera, compagna invisibile e costante alla solitudine di Daria.
C’era un’altra persona però che non dimenticava.
Matilde, dopo quella notte tremenda, si era affatto mutata. Non faceva più bizzarrie, non si chiudeva nella sua camera fantastica e svogliata; stava abbasso lavorando anche lei vicino a Daria; si occupava un po’ della bambina; sempre triste tuttavia, di una tristezza concentrata e muta, che faceva spavento.
I disturbi della gravidanza la tormentavano, dimagrava a vista d’occhio, ma non si lagnava mai. Essa, prima così esigente, accettava ogni cosa con una rassegnazione passiva, con un’indifferenza da maniaca. In tutto l’inverno, non fu mai vista fuori di casa, passava le giornate, china sul lavoro, spiegando un’attività morbosa, trascurando le cose dell’abbigliamento, che erano una volta le sue predilette.
A chi l’interrogava, rispondeva brevemente, con frasi asciutte, con sorrisi, che parevano piaghe spasmodiche.
Pierino non si era più lasciato vedere. Ippolito e Daria avevano motivo per credere che la relazione fosse terminata, e in questa credenza li confermava la taciturna malinconia di Matilde.
Si aspettava il secondo bambino con grandi speranze, fidando su di lui per un’era nuova di pace, di perdono e d’oblio. Daria aiutava Matilde nella preparazione del piccolo corredo e tentava per questa via di introdurre un raggio sereno in famiglia.
Fra le pochissime persone che frequentavano i Regaldi, vi era sempre la moglie del dottore, la quale venne un giorno a raccontare la grande novità del paese, cioè che la signora Ernesta nove mesi giusti dopo aver maritata la figlia — e intanto che si aspettava la gravidanza della sposina — aveva messo al mondo il suo quattordicesimo figliuolo. Il fatto si prestava moltissimo allo scherzo e la moglie del dottore non si peritò a ricantarvi sopra delle variazioni; ma improvvisamente e come ricordandosi di un altro argomento più importante disse:
— Ed è vero poi, che il signor Pierino prende moglie?
Matilde ebbe una scossa così violenta, che Daria si affrettò a rispondere:
— Noi non ne sappiamo nulla; è giovane ancora e forse non vi pensa nemmeno.
— Oh! sì, oh! sì — riprese l’altra — mi hanno detto anche il nome della sposa; è ricchissima, un matrimonio di convenienza pare; eh! il signor Pierino è furbo. Sa ben lui, che di amore non si campa.
Daria si accingeva a troncare bruscamente il discorso, ma Matilde sollevando la faccia pallida e seria domandò:
— Non se lo ricorda questo nome?
La moglie del dottore ci pensò un poco e dopo averne sbagliati due o tre pronunciò finalmente un nome, che disse assolutamente essere quello.
Matilde non chiese altro.
La sera stessa chiamò a parte la servetta e 1e consegnò una lettera da mettere in posta.
Nei giorni seguenti nulla parve mutato; ella continuò a lavorare taciturna e pensierosa; solo a rari intervalli si poteva osservare che un tremito nervoso l'agitava tutta, e il pallore intenso delle sue guancie, i solchi lividi delle occhiaie dicevano che neppure nel sonno ella trovava pace.