La Regaldina/XVII
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XVII.
Daria si era ben guardata dal seguire il consiglio della Tatta; non aveva abbandonata la casa, ma continuava a esercitarvi la sua missione d’angelo conciliatore.
Il contegno passivo di Matilde le lasciava una completa libertà d’azione. Apparentemente le due cugine andavano del massimo accordo, in fondo erano scisse da una assoluta diversità di carattere e di condotta, e quantunque nessuna parola venisse mai a far allusione al passato, Matilde sentiva l’inferiorità umiliante che la sua colpa le aveva creata.
Terminato l’inverno, quando ai primi tepori d’aprile la natura si ridestava e sulle sponde della Regaldina gli alberi inverdivano, tappezzando di fronde e di fiori le vecchie mura della casa, Matilde non si moveva ancora dal cantuccio dove aveva passata la brutta stagione, tutta chiusa e quasi nascosta in una sdruscita vestaglia, come se niente più le importasse del mondo.
A chi la osservava da vicino e assisteva a quel profondo mutamento, faceva pietà.
— Non ti vedrò più sorridere — le chiese un giorno suo fratello, dopo aver tentato inutilmente di richiamare la di lei attenzione sui giuochi della Lena.
Ella strinse le labbra con una contrazione dolorosa di tutto il volto. Ippolito soggiunse:
— Sei troppo giovane per chiudere ]n tua vita e porvi fine. Qualunque sia stato il passato, alla tua età c’è ancora un avvenire.
— Noi — disse Matilde con fiera audacia — apparteniamo ad una medesima razza e, quando abbiamo scritto un nome in fondo al cuore non c’è tempo, nè potere, nè ragione che arrivi a cancellarlo.
Ippolito arrossì fino alla radice dei capelli.
— Nemmeno il dovere? — fece egli abbassando la voce.
Matilde diede un gran sospiro, si chiuse la faccia nelle mani e non rispose, restando così immobile, quasi a far capire che ogni discorso era vano.
Tutte le sere la servetta, inviata furtivamente da Matilde, andava alla Posta per vedere se c’erano lettere; ma la risposta attesa con tanta impazienza tardava a venire. Matilde si faceva sempre più triste, rifiutando anche le carezze della sua bambina; non trovava sollievo, che in una occupazione continua e febbrile.
Il primo di maggio ella si sentì molto male; discese a colazione, ma poi tornò subito nella sua camera.
— Come sono stanca — disse a Daria che l’assisteva.
E si capiva, che era una stanchezza d’ogni cosa.
Daria la confortò, la pose a letto, si diede a fare tacitamente i preparativi per la circostanza. Nella notte venne al mondo un’altra bambina bella bella, più bella della Lena.
— Ancora una femmina! — borbottò Rodolfo.
Daria, tra seria e faceta disse:
— Datti pace; i maschi non portano fortuna in casa Regaldi. Sarà meglio così.
Matilde stava benino, passò la giornata tranquilla; sorrise a Daria, che faceva dei complimenti alla neonata chiamandola la bellezza della famiglia. Verso sera Daria preparò il velo ricamato, l’abito di seta rosa, la cuffiettina, il nastro rosa colla medaglia benedetta, il guanciale guarnito di trine e tutto l'occorrente per il battesimo, che si doveva fare alla mattina per tempo.
— Ora non ti occorre nulla? — - domandò all’ammalata.
— Nulla; sto bene.
— Allora vado a mettere in letto la Lena.
Daria uscì, e quasi subito comparve la servetta dandosi l'aria importante di chi reca grandi notizie. Si avvicinò in punta di piedi e consegnò una lettera a Matilde, le cui pallide guancie avvamparono di subitaneo ardore.
Vedendo l'agitazione della sua signora la servetta pensò che aveva forse fatto male a darle quella lettera, ma era troppo tardi. Matilde, ritta a sedere sul letto, coll’occhio in fiamme e il petto ansante divorava lo scritto; gettò un grido altissimo, poi balzò a terra.
La ragazza spaventata cercò di trattenerla.
— I miei vestiti — gridò Matilde — dammi i vestiti; devo uscire, devo andare, presto. Purchè sia ancora in tempo!
— Signora, per carità...
— I miei vestiti! Dammeli. Questo matrimonio non si deve fare. Non voglio! Non voglio!
Matilde armeggiava colle braccia prendendo e mettendosi addosso quello che le capitava, esaltata, furente.
La servetta vedendo l'inutilità delle sue rimostranze e veramente atterrita perchè aveva udito narrare di donne, cui va il parto alla testa e diventano pazze, si allontanò in furia a cercare aiuto.
Ma la camera di Daria era lontana; nella sua confusione ella non aveva preso il lume, urtò parecchie volte negli angoli dei mobili, rovesciò sedie, sbattè usci, finchè giunse tutta ansante e scarmigliata a narrare l’accaduto a Daria e allora via di corsa tutte e due con un batticuore, uno sgomento indicibile.
Entrarono da Matilde: la camera era vuota.
Si precipitarono sulla scala: nessuno.
— Matilde, Matilde!
Daria grida a perdifiato. Scende le scale in un baleno, attraversa il salottino e vede un’ombra bianca, che si dirige verso la corte.
— È lei! Mio Dio aiutatela.
L’ombra bianca corre in direzione della porta; vi si slancia sopra, tenta aprirla, percuote invano.
— Matilde, fermati!
Ella non ode. Torna indietro costeggiando la sponda della Regaldina. Daria spera di raggiungerla; affretta il passo continuando a chiamarla per nome.
Matilde finalmente si accorge di essere inseguita; fa due o tre balzi, si ferma un momento, e ripigliando la corsa impetuosa salta nel mezzo della gora, dove l'acqua era più profonda.
Daria impietrita d’orrore vede galleggiare per pochi istanti il suo corpo, poi sparire nelle onde cupe.
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