La Regaldina/XV
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XV.
La pace era affatto scomparsa da casa Regaldi.
Matilde stava chiusa tutto il giorno nella sua camera; non scendeva nemmeno all’ora dei pasti. Qualche volta usciva, sola, girava per le campagne e nel rientrare passava davanti all’ufficio della posta per vedere se c’erano lettere.
Quando la lettera c’era, Matilde sembrava più allegra, ma anche quell’allegria la teneva per sè, la nascondeva gelosamente come un ladro nasconde l’oro che ha rubato.
Non voleva vedere nessuno, nemmeno suo fratello. La Lena, inviata da Daria, saliva una volta al giorno a trovarla e se Matilde era di buon umore l’abbracciava e la baciava. Una volta le chiese, se sarebbe partita volentieri con lei, per un paese lontano lontano...
La piccina pianse e corse subito a raccontare la cosa a Daria.
Le persone benevoli dicevano che Matilde era presa da accessi isterici; si vociferava anche qualcos’altro però; e quando se ne parlava nell’aula magna dei Tre Mori, la signora Ernesta stringendosi nelle spalle esprimeva l’opinione, che quando si maritano le ragazze col solo scopo di sbarazzarsene bisogna essere preparati a tutto. Del resto Rodolfo era un avventore assiduo e la signora Ernesta, per sistema, rispettava gli avventori.
C’era poi un’altra ragione psicologica che spingeva la signora Ernesta a difendere Matilde. Era la stessa ragione che la faceva nemica acerrima di Daria: una segreta attrazione per il male, una voluttà abbietta nel vederlo, nel sentirlo intorno a sè, creandolo quando non esisteva, dandogli aiuto se esitante, coprendolo, perchè potesse svilupparsi in tutta la sua pienezza.
L’osteria era diventata la vera abitazione di Rodolfo; egli vi passava le giornate intere sdraiato sulle panche, in uno stato di dormiveglia perenne; non parlava quasi mai; tratto tratto bestemmiava, come se rispondesse a ragionamenti interni fatti con un interlocutore invisibile.
Nella vecchia casa nera le due povere donne lavoravano e piangevano; Daria aveva chiesto dei ricami in città per poter sopperire alle spese della famiglia; Ippolito era il suo intermediario; lavorava anch’egli segretamente per un avvocato e univa il prezzo del suo lavoro a quello dell’amica, lasciandole credere che la sorgente fosse la stessa.
Fino allora i due giovani avevano nutrito qualche speranza vaga, repressa, dolce tuttavia. Ora non isperavano più. Nelle lotte continue, nelle continue sofferenze il loro amore si era spossato; tutto ciò, che era materia, l’urto della vita lo aveva infranto; ma da quelle ceneri palpitanti, l’anima, l’eterna fenice, si innalzava a regioni divine. Quando il sentimento sopravvive all’istinto brutale, esso acquista una delicatezza somma, come un’anfora, in cui sieno state chiuse delle essenze, ma dove non resta che il profumo.
Soffrire insieme, pensare, lavorare insieme, questa indivisibilità d’ogni loro azione era la sola gioia concessa a Ippolito e a Daria; gioia serena, profonda che li corazzava contro ogni attacco della sorte. E così in mezzo alle prove le più crudeli bastava loro uno sguardo, una stretta di mano per sentirsi quasi felici; il loro amore li compensava di tutto, e lo avevano messo tanto alto, che non temevano per esso nessun pericolo; era così doloroso che nessuno, oramai, glie lo invidiava più.
La burbera Tatta non diceva nulla a Daria su questo soggetto; la sua attenzione era tutta concentrata in Matilde con una rabbia sorda, con un violento impeto d’odio verso quella donna che aveva portata la sventura sotto il tetto dei Regaldi.
La zitellona austera e forte, che non aveva mai saputo che cosa fosse debolezza, piangeva come un bambino. Mai il salotto bigio era stato così triste, così muto e deserto, colle sue tende di percallo bianco, che il tempo aveva ingiallite, colle sue specchiere scrostate nelle cornici smunte. Presso al cucù il posto della signora Luigina restava vuoto; Ippolito sedeva qualche volta a quel posto prendendosi sui ginocchi la Lena per mostrarle il pendolo, che faceva tic tac; e se la bambina rideva nella sua inconscia gaiezza infantile, nessuno faceva eco — la vocina si perdeva in un silenzio sepolcrale.
Da molto tempo Pierino non si lasciava vedere. Egli si era lanciato in ispeculazioni grandiose, faceva carriera, rapidamente, appoggiato alla sua audacia e alle sue fortune di giovinotto alla moda.
Era vero che Matilde andava a trovarlo a Milano; la disgraziata sentiva per lui un amore pazzo. Sulle prime sembrava che Pierino corrispondesse, poi era sopraggiunta la sazietà, infine gli mancava il tempo per occuparsi di una relazione che non gli rendeva nulla.
Ma Matilde lo tempestava di lettere, di preghiere, di minaccie, di promesse. Ella aveva trovato in quel giovine elegantemente cinico, la realizzazione di un ideale covato lungamente nelle veglie malsane, nei fantastici trasporti di una immaginazione corrotta; ella si era data a lui coll’ardore di una belva che ha trovato finalmente una belva della stessa razza.
Sulla fine di settembre, in seguito ad una lettera disperata di Matilde, Pierino venne. Fu accolto freddamente da tutta la famiglia, in modo che Matilde rimase sconcertata.
— Sarai contenta — le susurrò all’orecchio mentre si chinavano insieme per raccogliere un oggetto, che non era mai caduto.
— Voglio parlarti — rispose lei, decisa a tutto.
Pierino si strinse nelle spalle.
Matilde fece il giro della stanza, aperse un tiretto, frugò in un paniere, smosse alcuni libri; il tutto per aver agio di scrivere su un pezzettino di carta: A mezzanotte qui: e glielo fece scivolare in mano. Ma non era capace di frenarsi; la sua agitazione avrebbe colpito un cieco.
Pierino prese il cappello e uscì, dicendo che andava al caffè.
A mezzanotte rientrò un po’ seccato della scena che Matilde gli avrebbe fatta, promettendo a sè stesso che sarebbe l'ultima. Non era appena sulla soglia, che Matilde gli si buttò nelle braccia.
— Andiamo, non facciamo ragazzate.
Due anni prima, sul viale del Santuario, in una fredda giornata d’inverno era stata lei a dire: Non facciamo ragazzate.
Matilde questa volta era ferita sul serio; aveva portato in questo amore colpevole il meglio di sè, tutto ciò che le restava di memorie buone, di istinti gentili:
— Ti amo! — disse stringendosi a lui con un movimento umile, pieno di tenerezza e di deferenza.
Pierino aveva in bocca il sigaro; lo levò a malincuore e tenendolo fra le dita:
— Eppure mia cara è una vita impossibile questa. Sii ragionevole. Tu hai marito, io devo farmi una posizione....
— Non dirmi di queste cose, Piero, o mi farai perdere la testa. Io ti amo, ti amo, e non voglio saper altro.
Ella sedette sul divano bigio; era pallida, affranta dalle continue emozioni.
— Come va la salute?
Nel farle questa domanda con accento affettuoso Pierino le si sedette accanto e le circondò la vita col braccio.
Matilde era incinta di due mesi.
— Quando ti vedo sto bene.
Si guardarono per un istante imbarazzati; egli cercava un argomento serio e capiva la difficoltà di farglielo accettare.
In questo silenzio altissimo, rotto appena dal respiro affannoso di Matilde, si udì un rumore sulla scala.
Pierino balzò in piedi; Matilde lo trattenne dicendo con indifferenza:
— Oh, è Rodolfo; siediti, egli non entra qui.
Diffatti il rumore cessò.
Matilde riprese le sue carezze raccontando lo squallore della sua vita e l’avversione che provava per quella famiglia. Improvvisamente si spalancò l’uscio che metteva in cucina e la vecchia Tatta, terribile, apparve. Aveva l’occhio fiammeggiante, la fronte minacciosa sotto i bianchi capelli scomposti. Con una vigoria singolare e che era il risultato di un eccitamento straordinario si slanciò sui due colpevoli in atto di percuoterli; ma nel momento che levava la mano, le vene della fronte e del collo le si fecero turgide, il braccio si irrigidì; volle parlare, una imprecazione violenta uscì a mezzo dalle sue labbra contratte, il pensiero di una atroce maledizione le si svelava sul volto reso quasi pavonazzo; brancicò ancora, ruggì, cadde.
Pierino fu appena in tempo a sostenerla e a stenderla sul divano al posto lasciato vuoto da Matilde, che, sbigottita, s’era rifugiata in un angolo della stanza, coprendosi gli occhi colle mani.