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E intanto che rifletteva, a capo chino, colle mani abbandonate sui ginocchi, entrò Rodolfo e andò come il solito a gettarsi sul divano bigio. Il bel giovane d’una volta era assai mutato. Divenuto immensamente pingue e acceso nel volto per l’uso del bere, aveva perduto ogni grazia giovanile; sembrava vecchio di dieci anni. L’occhio aveva imbambolato, le labbra cadenti; la fronte, senza ideale, muta e triste sotto l’abbondante capigliatura, nerissima una volta, ora già brizzolata.
— È pronto il desinare? — domandò, sbadigliando.
— Non ancora ma...
Rodolfo cacciò fuori una bestemmia.
— Non c’è mai niente all’ordine in questa casa. Voglio che il pranzo sia in tavola alle quattro, voglio. Sono o non sono il padrone?
Per tutta risposta Daria gli indicò il quadrante del cucù, che segnava le tre e mezzo.
Egli si rabbonì.
— Non dico questo per te sai? Tu sei buona. Anzi voglio dirti una cosa.
Si fermò un poco, grattandosi la testa, cercando le parole.
— Se bai bisogno di me, Rodolfo, parla.