La Nascita della Tragedia/Capitolo XII
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo XI | Capitolo XIII | ► |
Capitolo XII.
Prima di dare il nome a questo nuovo spettatore, sostiamo un momento per richiamare netta alla memoria l’impressione sopra descritta del discordante e dell’incommensurabile nell’essenza della tragedia eschilea. Pensiamo allo stupore suscitato in noi dal coro e dall’eroe tragico di tale tragedia, dei quali non sapevamo conciliare né l’uno né l’altro con la tradizione e tanto meno coi nostri criteri abituali, fino a quando non venimmo a scoprire che quella stessa duplicità era da riguardarsi per sé medesima come l’origine e l’essenza della tragedia, come l’espressione di due istinti artistici intrecciati l’uno nell’altro, l’apollineo e il dionisiaco.
Scindere dalla tragedia l’originario e onnipotente elemento dionisiaco e ricostruirla pura e nuova su un’arte, una morale e una concezione del mondo non dionisiache, è questa la tendenza di Euripide, quale ora ci si rivela limpidamente rischiarata.
Euripide stesso, giunto al dechino della vita, propose ai suoi contemporanei nel modo più penetrante, con un mito, la questione del valore e dell’importanza di cotesta tendenza. Il senso dionisiaco in generale deve sussistere? o non bisogna estirparlo violentemente dal suolo greco? Certamente, ci dice il poeta, se però fosse possibile: ma il dio Dioniso è troppo potente: l’avversario più accorto, come Penteo nelle «Baccanti», viene all’imprevista colpito dal suo incantesimo, e così incantato corre al suo destino. Il giudizio dei due vecchi Cadmo e Tiresia sembra essere anche il giudizio del vecchio poeta: la prudenza di quelli che erano i più savi non rigettava le antiche tradizioni popolari, il culto eternamente perpetuato di Dioniso; anzi, davanti a tali forze portentose, conveniva mostrare almeno un’adesione diplomaticamente riservata; sempre che però fosse possibile, che il dio non prendesse in mala parte un contegno così tepido verso di lui, e non concludesse col mutare il diplomatico in serpente, come capitò a Cadmo. Questo ci dice il poeta, il quale con forza eroica ha resistito a Dioniso dui-ante tutta la vita, per poi conchiuderla con la glorificazione dell’avversario e suggellare la sua carriera con un suicidio, conformemente a un malato di vertigini, che unicamente per sfuggire al terribile capogiro divenutogli ormai insopportabile, finisce chesibutta giù dalla torre. Quella tragedia è una protesta contro l’eseguibilità della sua tendenza: ma, purtroppo, era già attuata! Il prodigio era avvenuto: quando il poeta si ritrattò, la sua tendenza aveva già trionfato. Dioniso era stato già esorcizzato via dalla scena tragica, ed esorcizzato per virtù di una potenza demonica che parlava per bocca di Euripide. Lo stesso Euripide, in un certo senso, era una mera maschera; la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso, ma nemmeno era Apollo, sibbene un demone di fresco nato per nome Socrate. Tale era il nuovo contrasto: l’istinto dionisiaco e la mentalità socratica, per cui effetto l’opera d’arte della tragedia greca andò in perdizione. Potè bene Euripide, ricredendosi, cercare di consolarcene; non gli venne fatto. Il più magnifico dei templi giacque nelle sue rovine: che ci giova la lamentazione del distruttore e la sua confessione, che quello era stato il più bello di tutti i templi? E anche se Euripide per la pena inflittagli dai giudici d’arte di tutti i tempi è stato mutato in serpente, ebbene, cotesto pietoso compenso chi mai riesce a contentare?
E ora guardiamo da vicino cotesta tendenza socratica, in virtù della quale Euripide ha combattuta e vinta la tragedia eschilea.
Quale scopo in generale, dobbiamo adesso domandarci, l’intenzione euripidea di fondare il dramma esclusivamente sullo spirito non dionisiaco poteva prefiggersi nella suprema idealità della sua esecuzione? Quale forma del dramma era tuttora ammissibile, se le era precluso di nascere dal seno materno della musica, nel misterioso crepuscolo dell’istinto dionisiaco? Non altra, che l’epos drammatizzato: che è un dominio artistico apollineo, nel quale per altro non è certamente dato raggiungere l’effetto tragico. Qui non si tratta degli avvenimenti rappreseneanzi io sono per affermare, che a Goethe, nella «Nausicaa» da lui divisata, sarebbe riuscito impossibile rendere tragicamente espressivo il suicidio di quella creatura idilliaca, con cui si sarebbe dovuto chiudere il quinto atto: tanto è straordinaria la potenza dello spirito epico-apollineo, il quale col piacere della visione epica è con la liberazione dell’animo per mezzo di tale visione veste d’incanto ai nostri occhi le cose più spaventevoli. Tanto meno è dato al poeta dell’epos drammatizzato assorbirsi completamente nelle sue immagini, come al rapsodo epico; il quale è sempre tranquillamente pacato, immerso nella lontana intuizione che raffigura le immagini davanti a sé. In questo epos drammatizzato l’attore rimane sempre, nel più profondo senso, un rapsodo: in tutte le sue azioni si esplica là consacrazione del suo intimo sognare, talché egli non è mai interamente e solamente l’attore.
In che modo si comporta l’opera euripidea davanti a cotesto ideale del dramma apollineo? Si comporta come davanti ai rapsodi solenni dell’epoca antica il rapsodo moderno, che nel «Jone» platonico così descrive la propria natura: Quando io dico qualcosa di triste, gli occhi mi si empiono di lacrime; ma se ciò che dico è spaventoso e orribile, allora i capelli mi si rizzano sulla testa dal raccapriccio, e il cuore picchia». Qui non troviamo più nulla di quell’assorbimento epico nella visione, della freddezza imperturbata del vero attore, che proprio nel culmine dell’azione è tutto nella visione che rende e nella gioia di renderla. Euripide è l’attore dal cuore che picchia, dai capelli ritti sulla testa: abbozza il disegno da pensatore socratico, lo esegue da attore passionato. Egli non è un puro artista né nel disegnare né nell’eseguire. Perciò il dramma euripideo è una cosa insiememente fredda e calda, parimente buona ad agghiacciare e a bruciare: a lui riesce impossibile ottenere l’effetto apollineo dell’epos, mentre, d’altra parte, si è affrancato il più possibile dagli elementi dionisiaci, e in generale, per raggiungere l’effetto, si serve di nuovi mezzi commotivi, che non hanno nulla più di comune coi due istinti, i soli artistici, che sono l’apollineo e il dionisiaco. Tali mezzi commotivi sono freddi pensieri paradossastici al posto delle intuizioni apollinee, e affetti ardenti al posto dei rapimenti dionisiaci; e, per vero dire, sono pensieri e affetti imitati realisticamente al massimo grado, e che non sono stati minimamente immersi nell’etere dell’arte.
Dopo avere così riconosciuto che Euripide in sostanza non riuscì a fondare il dramma esclusivamente sul senso apollineo, e che piuttosto sperse la sua tendenza antidionisiaca in una tendenza naturalistica e non artistica, ci bisogna ora osservare più da vicino il socratismo estetico, la cui legge sovrana suona a un dipresso così: «per essere bello, tutto dev’essere intelligibile»; che è il principio parallelo all’aforismo socratico: «solo chi sa è virtuoso». Con questo canone alla mano, Euripide proporzionò tutti i particolari uniformandoli al principio fondamentale: il linguaggio, i caratteri, la struttura drammaturgica, la musica corale. Ciò che noi così frequentemente, nel confronto con la tragedia sofoclea, sogliamo appuntare ad Euripide come deficienza e regresso poetici, è in massima parte il prodotto di quello stringente processo critico, di quell’audace intellettualità. Il prologo euripideo ci valga di esempio sulla produttività di quel metodo razionalista. Nulla riesce più ripugnante alla nostra tecnica scenica, quanto il prologo nel dramma di Euripide. Che un singolo personaggio all’inizio della rappresentazione venga a raccontare chi esso è, ciò che abbia preceduto l’azione, ciò che finora è accaduto, ciò che sarà per accadere nello svolgimento dell’opera, tutto ciò equivale a una condotta scenica che un poeta drammatico moderno qualificherebbe come una stravagante e imperdonabile rinunzia all’effetto dell’attesa. Sicuro, si viene già a conoscere per filo e per segno ciò che avverrà; e chi mai vorrà stare ad aspettare che effettivamente avvenga? giacché qui non è menomamente il caso dell’ansiosa apparizione di un sogno rivelatore, che poi vada effettuandosi nella realtà. Euripide riflette in modo afflitto diverso. L’effetto della tragedia non si poggia mai sulla tensione epica, sull’attraente ignoranza di ciò che va accadendo e che accadrà in séguito; ma piuttosto su quelle grandi scene rettorico-liriche, in cui la passione e la dialettica dell’eroe protagonista si gonfiano e prorompono in un fiume ampio e possente. Tutto era predisposto pel pathos, non per l’azione; ciò che non predisponeva gli spettatori al pathos, valeva come rifiutabile. Il fatto che massimamente trattiene lo spettatore dall’abbandonarsi con tutto l’animo al piacere di tali scene, è la mancanza di un elemento integrante, la lacuna nel tessuto dei precedenti avvenimenti: fintanto che lo spettatore deve ancora rendersi conto di ciò che significa questo o quel personaggio, di quali sono i presupposti di questo o quel conflitto d’inclinazioni e d’intenzioni, non è ancora possibile la sua piena partecipazione al soffrire e adoperare dei protagonisti, non è possibile il patire con loro affannosamente, il provare con loro la paura e lo spavento. La tragedia di Eschilo e di Sofocle impiegò i mezzi artistici più ingegnosi per porre fin dalle prime scene nelle mani dello spettatore, ma incidentemente e, per così dire, senza parere, tutti i fili indispensabili all’intelligenza dell’azione: genialità espeditiva, in cui si affermò quel nobile magistero artistico, che maschera la parte formale che s’impone come necessaria, e la fa sembrare accidentale. Tuttavia Euripide credé di notare, che durante quelle prime scene lo spettatore venisse in preda alla speciale impazienza di arguire dai fatti antecedenti i conseguenti, in modo che le bellezze poetiche e il pathos dell’esposizione andavano perdute per lui. Perciò all’esposizione prepose il prologo, e lo mise in bocca a un personaggio a cui bisognava prestar fede; vale a dire in bocca a una divinità, che doveva adeguatamente garantire al pubblico lo svolgimento della tragedia e cancellare ogni dubbio sulla realtà del mito; che è in sostanza lo stesso modo come Descartes s’indusse a dimostrare la realtà del mondo empirico: apollandosi alla veracità di Dio e alla sua incapacità di mentire. Di cotesta veracità divina Euripide si serve un’altra volta sulla fine del dramma, per rassicurare completamente il pubblico sull’avvenire dei suoi eroi: tale è il cómpito del famoso deus ex machina. L’azione drammatico-lirica, il vero e proprio «dramma» decorre tra il prologo e l’epilogo epici.
Talché Euripide come poeta è soprattutto l’eco delle sue conoscenze ben meditate; e questo appunto gli assicura un posto così memorando nella storia dell’arte greca. Quanto alla natura critico-produttiva della sua composizione, dovè spesso venirgli in mente se non gli conveniva render valida anche pel dramma la protasi di quell’opera di Anassagora, le cui prime parole dicono: «in principio tutto era commisto; poi venne l’intelletto e creò l’ordine». E se Anassagora col suo «noo» parve tra i filosofi come il primo uomo in senno in mezzo a ebbri spacciati, anche Euripide dovè intendere nella medesima conformità la sua posizione rispetto agli altri poeti della tragedia. Fintanto che l’unico ordinatore e dispositore del tutto, il noo, era ancora escluso dalla creazione artistica, tutto permaneva intrugliato in un poltricchio caotico primordiale: così Euripide ebbe a giudicare; così, da primo «uomo in senno», ebbe a condannare i poeti ebbri». Ciò che Sofocle disse di Eschilo, che, cioè, quanto faceva era ben fatto, quantunque fatto inconscianiente, certamente non lo disse nel senso di Euripide; il quale invece avrebbe esclusivamente fatto valere, che Eschilo, perché creava inconsciamente, quello che creava, dunque, non era ben fatto. Anche il divino Platone quasi sempre parla con una punta d’ironia della facoltà creatrice del poeta, in quanto non è intelligenza cosciente, e la eguaglia al dono dell’indovino e dell’oniromante: che perciò non è capace di poetare prima che sia divenuto incosciente, e più non alberghi in lui alcun lume d’intelletto. Euripide s’incaricò, come se ne incaricò anche Platone, di presentare al mondo la contrapparte del poeta «inintelligente»: il principio estetico «tutto dev’essere cosciente per essere bello» è, come ho già detto, il riscontro del principio socratico «tutto dev’essere consapevole per essere buono». Conseguentemente Euripide rappresenta per noi il poeta del socratismo estetico. Giacché Socrate, e non altri che lui, è quel secondo spettatore che non comprendeva la tragedia antica e perciò non l’apprezzava: in lega con lui, Euripide osò essere l’araldo di una nuova creazione artistica. Se per sua cagione la tragedia antica andò in rovina, il principio sterminatore fu dunque il socratismo estetico; e siccome la lotta era diretta contro il senso dionisiaco dell’arte precedente, noi riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso, il nuovo Orfeo che si levò contro Dioniso, e, sebbene destinato al dilaceramento delle menadi del tribunale ateniese, pure costrinse alla fuga il prepotente iddio. Il quale, come al tempo che fuggi davanti a Licurgo re degli Edoni, chiese scampo nelle profondità del mare, vale a dire nelle onde mistiche di un culto segreto, che a poco a poco avrebbe invaso il mondo intero.