tutti i particolari uniformandoli al principio fondamentale: il linguaggio, i caratteri, la struttura drammaturgica, la musica corale. Ciò che noi così frequentemente, nel confronto con la tragedia sofoclea, sogliamo appuntare ad Euripide come deficienza e regresso poetici, è in massima parte il prodotto di quello stringente processo critico, di quell’audace intellettualità. Il prologo euripideo ci valga di esempio sulla produttività di quel metodo razionalista. Nulla riesce più ripugnante alla nostra tecnica scenica, quanto il prologo nel dramma di Euripide. Che un singolo personaggio all’inizio della rappresentazione venga a raccontare chi esso è, ciò che abbia preceduto l’azione, ciò che finora è accaduto, ciò che sarà per accadere nello svolgimento dell’opera, tutto ciò equivale a una condotta scenica che un poeta drammatico moderno qualificherebbe come una stravagante e imperdonabile rinunzia all’effetto dell’attesa. Sicuro, si viene già a conoscere per filo e per segno ciò che avverrà; e chi mai vorrà stare ad aspettare che effettivamente avvenga? giacché qui non è menomamente il caso dell’ansiosa apparizione di un sogno rivelatore, che poi vada effettuandosi nella realtà. Euripide riflette in modo afflitto diverso. L’effetto della tragedia non si poggia mai sulla tensione epica, sull’attraente ignoranza di ciò che va accadendo e che accadrà in séguito; ma piuttosto su quelle grandi scene rettorico-liriche, in cui la passione e la dialettica dell’eroe protagonista si gonfiano e prorompono in un fiume