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Capitolo XII.
Prima di dare il nome a questo nuovo spettatore, sostiamo un momento per richiamare netta alla memoria l’impressione sopra descritta del discordante e dell’incommensurabile nell’essenza della tragedia eschilea. Pensiamo allo stupore suscitato in noi dal coro e dall’eroe tragico di tale tragedia, dei quali non sapevamo conciliare né l’uno né l’altro con la tradizione e tanto meno coi nostri criteri abituali, fino a quando non venimmo a scoprire che quella stessa duplicità era da riguardarsi per sé medesima come l’origine e l’essenza della tragedia, come l’espressione di due istinti artistici intrecciati l’uno nell’altro, l’apollineo e il dionisiaco.
Scindere dalla tragedia l’originario e onnipotente elemento dionisiaco e ricostruirla pura e nuova su un’arte, una morale e una concezione del mondo non dionisiache, è questa la tendenza di Euripide, quale ora ci si rivela limpidamente rischiarata.
Euripide stesso, giunto al dechino della vita, propose ai suoi contemporanei nel modo più penetrante, con un mito, la questione del valore