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108 capitolo dodicesimo


non si tratta degli avvenimenti rappreseneanzi io sono per affermare, che a Goethe, nella «Nausicaa» da lui divisata, sarebbe riuscito impossibile rendere tragicamente espressivo il suicidio di quella creatura idilliaca, con cui si sarebbe dovuto chiudere il quinto atto: tanto è straordinaria la potenza dello spirito epico-apollineo, il quale col piacere della visione epica è con la liberazione dell’animo per mezzo di tale visione veste d’incanto ai nostri occhi le cose più spaventevoli. Tanto meno è dato al poeta dell’epos drammatizzato assorbirsi completamente nelle sue immagini, come al rapsodo epico; il quale è sempre tranquillamente pacato, immerso nella lontana intuizione che raffigura le immagini davanti a sé. In questo epos drammatizzato l’attore rimane sempre, nel più profondo senso, un rapsodo: in tutte le sue azioni si esplica là consacrazione del suo intimo sognare, talché egli non è mai interamente e solamente l’attore.

In che modo si comporta l’opera euripidea davanti a cotesto ideale del dramma apollineo? Si comporta come davanti ai rapsodi solenni dell’epoca antica il rapsodo moderno, che nel «Jone» platonico così descrive la propria natura: Quando io dico qualcosa di triste, gli occhi mi si empiono di lacrime; ma se ciò che dico è spaventoso e orribile, allora i capelli mi si rizzano sulla testa dal raccapriccio, e il cuore picchia». Qui non troviamo più nulla di quell’assorbimento epico nella visione, della freddezza imperturbata del vero attore, che proprio nel culmine dell’azione