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l’epos drammatizzato 109


è tutto nella visione che rende e nella gioia di renderla. Euripide è l’attore dal cuore che picchia, dai capelli ritti sulla testa: abbozza il disegno da pensatore socratico, lo esegue da attore passionato. Egli non è un puro artista né nel disegnare né nell’eseguire. Perciò il dramma euripideo è una cosa insiememente fredda e calda, parimente buona ad agghiacciare e a bruciare: a lui riesce impossibile ottenere l’effetto apollineo dell’epos, mentre, d’altra parte, si è affrancato il più possibile dagli elementi dionisiaci, e in generale, per raggiungere l’effetto, si serve di nuovi mezzi commotivi, che non hanno nulla più di comune coi due istinti, i soli artistici, che sono l’apollineo e il dionisiaco. Tali mezzi commotivi sono freddi pensieri paradossastici al posto delle intuizioni apollinee, e affetti ardenti al posto dei rapimenti dionisiaci; e, per vero dire, sono pensieri e affetti imitati realisticamente al massimo grado, e che non sono stati minimamente immersi nell’etere dell’arte.

Dopo avere così riconosciuto che Euripide in sostanza non riuscì a fondare il dramma esclusivamente sul senso apollineo, e che piuttosto sperse la sua tendenza antidionisiaca in una tendenza naturalistica e non artistica, ci bisogna ora osservare più da vicino il socratismo estetico, la cui legge sovrana suona a un dipresso così: «per essere bello, tutto dev’essere intelligibile»; che è il principio parallelo all’aforismo socratico: «solo chi sa è virtuoso». Con questo canone alla mano, Euripide proporzionò