La Merope/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA I
Polifonte e Merope.
scaccia omai dal tuo sen; miglior destino
io giá t’annunzio, anzi ti reco. Altrui
forse tu no ’l credesti; ora a me stesso
credilo pur, ch’io mai non parlo indarno:
in consorte io t’elessi e vo’ ben tosto
che la nostra Messenia un’altra volta
sua reina ti veggia. Il bruno ammanto,
i veli e l’altre vedovili spoglie
deponi adunque e i lieti panni e i fregi
ripiglia, e i tuoi pensier nel ben presente
riconfortando omai, gli antichi affanni,
come saggia che sei, spargi d’oblio.
Merope. O ciel, qual nuova spezie di tormento
apprestar mi vegg’io! Deh, Polifonte,
lasciami in pace, in quella pace amara
che ritrovan nel pianto gl’infelici;
lasciami in preda al mio dolor trilustre.
Polifonte. Mira, s’ei non è ver che suol la donna
farsi una insana ambizion del pianto!
prigioniera restar piú tosto vuoi,
che ricovrar l’antico regno?
Merope. Un regno
non varrebbe il dolor d’esser tua moglie.
Ch’io dovessi abbracciar colui che in seno
il mio consorte amato (ahi rimembranza!)
mi svenò crudelmente? E ch’io dovessi
colui baciar che i figli miei trafisse?
Solo in pensarlo io tremo, e tutte io sento
ricercarmi le vene un freddo orrore.
Polifonte. Deh! come mai ti stanno fisse in mente
cose giá consumate e antiche tanto
ch’io men ricordo appena! Ma i’ ti priego,
dá loco a la ragion: era egli giusto
che sempre sui messeni il tuo Cresfonte
solo regnasse e ch’io, non men di lui
dagli Eraclidi nato, ognor vivessi
fra la turba volgar confuso e misto?
Poi tu ben sai che accetto egli non era.
e che non sol gli esterni aiuti e l’armi,
ma in campo a mio favor vennero i primi
ed i miglior del regno; e finalmente
ciò che a regnar conduce ognor si loda.
Che se per dominar, se per uscire
di servitú, lecito all’uom non fosse
e l’ingegno e ’l valor di porre in opra,
darebbe Giove questi doni indarno.
Merope. Barbari sensi! L’urna e le divine
sorti su la Messenia al sol Cresfonte
dièr diritto e ragion; ma quanto ei fosse
buon re, chiedilo altrui, chiedilo a questo
popolo afflitto che tutt’ora il piange.
Tanto buon re provollo esso, quant’io
buon consorte il provai. Chi piú felice
visse di me quel primo lustro? E tale
ambizion ti spinse, invidia cieca
t’invase; e quale, o Dio, quale inaudita
empietá fu la tua, quando nel primo
scoppiar della congiura, i due innocenti
pargoletti miei figli — ah figli cari! —
che avrian co’ bei sembianti e con l’umile
lor dimandar mercé, le tenerelle
lor mani e gli occhi lagrimosi alzando,
avrian mosso a pietá le fere e i sassi,
trafiggesti tu stesso? E in tutto il tempo
che pugnando per noi si tenne Itome,
quanto scempio talor de’ nostri fidi
in Messene non fèsti? E quando al fine
ci arrendemmo, perché contro la fede
al mio sposo dar morte? O tradimento!
E ch’io da un mostro tale udir mi debba
parlar di nozze e ricercar d’amore?
A questo ancor mi riserbaste, o Dèi?
Polifonte. Merope, omai t’accheta; tu se’ donna,
e qual donna ragioni. I molli affetti
ed i teneri sensi in te non biasmo,
ma con gli altri pensier non si confanno.
Ma dimmi: e perché sol ciò che ti spiace
vai con la mente ricercando, e ometti
quant’io feci per te? Ché non rammenti
che il terzo figlio, in cui del padre il nome
ti piacque rinnovar, tu trafugasti
e ch’io ’l permisi; e che a la falsa voce,
sparsa da te de la sua morte, io finsi
dar fede e in grazia tua mi stetti cheto?
Merope. Il mio piccol Cresfonte, ch’era ancora
presso di me, non giunto anco al terz’anno
ne’ primi giorni del tumulto in queste
braccia morí pur troppo, e de la fuga
al disagio non resse. Ma che parli?
cor sí benigno? Forse Argo e Corinto,
Arcadia, Acaia e Pisa e Sparta, in fine
e terra e mare ricercar non festi
pel tuo vano sospetto? E al giorno d’oggi
forse non fai che su quest’empia cura
da’ tuoi si vegli in varie parti ognora?
Ah! ben si vede che incruenta morte
non appaga i tiranni; ancor ti duole
che la natura, prevenendo il ferro,
rubasse a te l’aspro piacer del colpo.
Polifonte. Ch’ei non morí, in Messene a tutti è noto.
E viva pur; ma tu che tutto nieghi,
negherai d’esser viva? E negherai
che tu nol debba a me? Non fu in mia mano
la tua vita sí ben, come l’altrui?
Merope. Ecco il don dei tiranni; a lor rassembra,
morte non dando altrui, di dar la vita.
Polifonte. Ma lasciam tutto ciò, lasciami le amare
memorie al fine; io t’amo e del mio amore
prova tu vedi che mentir non puote:
ciò ch’io ti tolsi, a un tratto ti rendo
e sposo e regno e figli ancor, se in vano
non spero. Forse nel tuo cor potranno
piú d’ammenda presente antichi errori?
Merope. Deh dimmi, o Polifonte: e come mai
questo tuo amor si tardi nacque? E come
desio di me mai non ti punse allora
che giovinezza mi fioria sul volto,
ed or ti sprona sí che giá, inclinando
l’etá e lasciando i miglior giorni addietro,
oltre al settimo lustro omai sen varca?
Polifonte. Quel ch’ora i’ bramo, ognor bramai; ma il duro
tenor della mia vita assai t’è noto.
Sai che a pena fui re ch’esterne guerre
infestar la Messenia e, l’una estinta,
or qua accorrendo or lá, sudar fu forza
un decennio fra l’armi. In pace poi
gli estranei mi lasciâr, ma allor lo stato
cominciò a perturbar questa mal nata
plebe, e in cure sí gravi ogni altro mio
desir si tacque. Or che a la fine in calma
questo regno vegg’io, destarsi io sento
tutti i dolci pensier; la mia futura
vecchiezza io vo’ munir co’ figli, e voglio
far pago il mio fin qui soppresso amore.
Merope. Amore, eh? Sempre chi in poter prevale
d’avanzar gli altri anche in saper presume,
e d’aggirare a senno suo le menti
altrui si crede. Pensi tu sí stolta
Merope che l’arcano e ’l fin nascosto
a pien non vegga? L’ultimo tumulto
troppo ben ti scoprí che ancor sicuro
nel non tuo trono tu non sei, scorgesti
quanto viva pur anco e quanto cara
del buon Cresfonte è la memoria. I pochi,
ma accorti amici tuoi sperar ti fanno
che, se t’accòppi a me, se regnar teco
mi fai, scemando l’odio, in pace al fine
soffriranno i messeni il giogo. Questo
è l’amor che per me t’infiamma, questo
è quel dolce pensier che in te si desta.
Polifonte. Donna non vidi mai di te piú pronta
a torcer tutto in mala parte. Io fermo
son nel mio soglio sí che nulla curo
d’altrui favor, e di chi freme in vano
mi rido e ognor mi riderò. Ma siasi
tutto ciò che tu sogni; egli è pur certo
che il tuo ben ci è congiunto. Or se far uso
del tuo senno tu vuoi, la sorte afferra,
né darti altro pensier; molto a te giova
l’indagar la cagion.
Merope. Sí, se avess’io
il cor di Polifonte e s’io volessi
ad un idol di regno, a un’aura vana
sagrificar la fé, svenar gli affetti,
e se potessi, anche volendo, il giusto
insuperabil odio estinguer mai.
Polifonte. Or si tronchi il garrir. Al suo signore
ripulsa non si dá; per queste nozze
disponti pure e ad ubbidir t’appresta.
Che a te piaccia o non piaccia, io cosí voglio
Adrasto, e come qui? T’accosta.
Merope. Ismene,
non mi lasciar piú sola.
SCENA II
Adrasto, Ismene e detti.
signore, i’ giungo.
Ismene. (in disparte)Io non ardia appressarmi
vedendo il ragionar. Ma, mia reina,
perché ti veggio si turbata?
Merope. Il tutto
saprai fra poco.
Polifonte. E che ci rechi, Adrasto?
Adrasto. Un omicida entro Messene io trassi,
perché col suo supplicio ogni men fausto
augurio purghi e gir non possa altrove
col vanto dell’aver rotte e schernite
le nostre leggi.
Polifonte. E chi è costui?
Adrasto. Di questa
Polifonte. E l’ucciso?
Adrasto. Nol so, perché il suo corpo
gettato fu dentro il Pamiso ch’ora
gonfio e spumante corre, né presente
al fatto io fui; ma il reo no ’l niega. Al loco
dove tuttora, o re, tu con le squadre
dei cavalier di soggiornar m’imponi,
recato fu che al ponte indi non lunge
rubato s’era pur allora e ucciso
un uom, e che il ladron la via avea presa
ch’è lungo il fiume. Io, ch’era a sorte in sella,
spronai con pochi e lo raggiunsi. Alcune
spoglie, ch’ei non negò d’aver rapite,
fede mi fèr ch’al sangue altro che vile
aviditá noi trasse; al rimanente
non credi ciò, se al suo sembiante credi:
giovane d’alti sensi in basso stato
ed in vesti plebee di nobil volto.
Polifonte. Fa ch’io ’l vegga. (Adrasto parte)
Merope. (in disparte) Costui forse delitto
lo sparger sangue non credea, ove regna
un carnefice.
Ismene. Al certo s’ogni morte,
s’ogni rapina Polifonte avesse
col supplicio pagata, in questa terra
fòran venute meno e pietre e scuri.
SCENA III
Adrasto con Egisto e detti.
Merope. Mira gentile aspetto.
Polifonte. In cosí verde etá si scelerato!
pensavi indirizzar?
Egisto. Di padre servo
povero i’ sono e oscuro figlio, i’ vengo
d’Elide e verso Sparta il piè movea.
Ismene. Che hai, regina? Oimé quali improvvise
lagrime ti vegg’io sgorgar dagli occhi?
Merope. O Ismene, nell’aprir la bocca ai detti
fece costui col labbro un cotal atto,
che ’l mio consorte ritornommi a mente,
e me ’l ritrasse si com’io ’l vedessi.
Polifonte. Or ti pensavi tu forse che in questo
suolo fosse a’ sicari ed a’ ladroni
a posta lor d’infuriar permesso?
E ti pensavi che poter supremo
or qui non fusse e ch’io regnassi in vano?
Egisto. Né ciò pensai, né a far ciò che pur feci
empia sete mi spinse o voglia avara.
Anzi a chi me spogliare e uccider volle
per mia pura difesa a tôr la vita
i’ fui costretto. In testimon ne chiamo
quel Giove che in Olimpia, ha pochi giorni,
venerai nel gran tempio. Il mio cammino
cheto e soletto i’ proseguia, al lor quando
per quella via che in vèr Laconia guida,
un uom vidi venir d’etá conforme,
ma di selvaggio e truce aspetto. In mano
nodosa clava avea. Fissò in me gli occhi
torvi, poi riguardò, se quinci o quindi
gente apparia; poiché appressati fummo
appunto al varco del marmoreo ponte,
ecco un braccio m’afferra e le mie vesti
e quanto ho meco altero chiede e morte
bieco minaccia. Io con sicura fronte
sprigiono il braccio a forza, egli, a due mani
la clava alzando, mi prepara un colpo
cervella fòran or giocondo pasto
ai rapaci avoltoi. Ma ratto allora,
sottentrando, il prevenni ed a traverso
lo strinsi e rincalzai. Cosí abbracciati
ci dibattemmo alquanto, indi in un fascio
n’andammo a terra, ed arte fosse o sorte
io restai sopra ed ei percosse in guisa
sovra una pietra il capo che il suo volto
impallidí ad un tratto e, le giunture
disciolte, immobil giacque. Allor mi corse
tosto al pensier che, su la via restando
quel funesto spettacolo, inseguito
d’ogni parte i’ sarei fra poco. In core
però mi venne di lanciar nel fiume
il morto o semivivo; e con fatica,
ch’inutil era per riuscire e vana,
l’alzai da terra, e in terra rimaneva
una pozza di sangue: a mezzo il ponte
portailo in fretta, di vermiglia striscia
sempre rigando il suol; quinci cadere
col capo in giú il lasciai. Piombò, e gran tonfo
s’udí nel profondarsi, in alto salse
lo spruzzo e l’onda sopra lui si chiuse.
Né ’l vidi piú, ché ’l rapido torrente
l’avrá travolto e ne’ suoi gorghi spinto.
Giacean nel suol la clava e negra pelle,
che nel pugnar gli si sfibbiò dal petto:
queste io tolsi, non giá come rapine,
ma per vano piacer, quasi trofei.
E chi creder potria che spoglie tali,
o di nessuno o di sí poco prezzo,
m’avesser spinto a ricercar periglio
ed a dar morte altrui?
Adrasto. Onesta è sempre
la causa di colui che parla solo.
il tutto a suo favor dipinge e adorna,
ch’io qual custode delle leggi offese
l’avversario sarò.
Merope. Non correr tosto,
Polifonte, al rigor. Che non sospendi
finché si cerchi alcun riscontro? Io veggo
di veritá non pochi indizi e parmi
ch’egli merti pietá.
Polifonte. Nulla si nieghi
in questo giorno a te; ma alle tue stanze
tornar ti piaccia omai, che al tuo decoro
non ben conviensi il far piú qui dimora.
Ismene. Non un’ora giá mai, non un momento
abbandona il sospetto i re malvagi.
Polifonte. Tua cura, Adrasto, fia ch’egli frattanto
non ci s’involi.
Merope. Adrasto, usa pietade
con quel meschin; benché povero e servo,
egli è pur uomo al fine e assai per tempo
ei comincia a provare i guai di questa
misera vita. In tal povero stato
oimé ch’anche il mio figlio occulto vive;
e credi pure, Ismene, che se il guardo
giugner potesse in sì lontana parte,
tale appunto il vedrei, ché le sue vesti
da quelle di costui poco saranno
dissomiglianti. Piaccia almeno al cielo
ch’anch’ei sì ben complesso e di sue membra
sì ben disposto divenuto sia.
SCENA IV
Egisto e Adrasto.
Adrasto. Regina
fu giá di questa terra e sará ancora
fra poco.
Egisto. I sommi dèi l’esaltin sempre
e della sua pietá quella mercede,
che dar non le poss’io, rendanle ognora.
Donna non vidi mai, che tanta in seno
riverenza ed affetto altrui movesse.
Ma tu, che presso al re puoi tanto, segui
cosí nobile esempio e a mio favore
t’adopra. Deh, signor, di me t’incresca
che nel fior dell’etá, senza difesa,
senza diletto alcun, per fato avverso
in tal periglio son condotto. In questa
sí famosa cittá non far che a torto
sparso il mio sangue sia; lungo tormento
agl’innocenti genitori afflitti,
i quai la sola assenza mia son certo
ch’or fa struggere in pianto.
Adrasto. In tuo vantaggio
io giá da prima tutto esposi. E forse
non t’accorgesti ancor quanto cortese
io fui vèr te? Tu vedi pur ch’io tacqui
del ricco anello, che da te rapito
io ti trassi di man. Per qual cagione
pensi ch’io ’l celi? Per vil brama forse
di restar possessor di quella gemma,
né darla al re? Mal credi, se ciò credi,
ch’a me non mancan gemme. Io per tuo scampo
che sì gran preda hai fatto, il tuo delitto
troppo si fa palese, anzi s’aggrava
di molto, perché appar ch’uom d’alto grado
fu l’ucciso da te.
Egisto. Tu pur se’ fisso
in voler ch’involata io m’abbia quella
scolpita pietra; ma t’attesto ancora
che dal mio vecchio padre in dono io l’ebbi.
Credilo e sappi ch’io mentir non soglio.
Adrasto. Veggo piú tosto che mentir non sai;
non mi dicesti tu che il padre tuo
in fortuna servil si giace?
Egisto. Il dissi
e ’l dico.
Adrasto. Or dunque in tuo paese i servi
han di codeste gemme? Un bel paese
fia questo tuo; nel nostro una tal gemma
ad un dito regal non sconverrebbe.
Egisto. A ciò non so che dir, né del suo prezzo
piú oltre i’ so; ma ben giurar poss’io
che, non ha ancor gran tempo, il giorno in cui
compiea suo giro il diciottesim' anno,
chiamommi il padre mio dinanzi a l’ara
de’ domestici dèi; e qui, piangendo
dirottamente, l’aureo cerchio in dito
mi pose e volle ch’io gli dessi fede
di custodirlo ognora. Il sommo Giove
oda i miei detti, e se non son veraci,
vibri sue fiamme ultrici e in questo punto
m’incenerisca.
Adrasto. Un’arme è il giuramento
valida molto e ch’adoprata a tempo
fa bellissimi colpi; ma tu ancora
non sai che meco non ha forza alcuna.
Or lasciam queste fole; il punto è questo:
di ciò; e che tu altresì, s’esser vuoi salvo,
altrui no ’l faccia mai.
Egisto. Tanto prometto.
e credi come vuoi, pur che m’aiti;
anzi pur che a salvezza in tanto rischio
tu mi conduca, io di buon cuor ti faccio
di quella gemma un don.
Adrasto. Leggiadro dono
per certo è questo tuo, quando mi doni
quel ch’è giá in mio potere e ch’è giá mio.