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atto primo 5


ancor vivrei, se tu non eri. Insana

ambizion ti spinse, invidia cieca
t’invase; e quale, o Dio, quale inaudita
empietá fu la tua, quando nel primo
scoppiar della congiura, i due innocenti
pargoletti miei figli — ah figli cari! —
che avrian co’ bei sembianti e con l’umile
lor dimandar mercé, le tenerelle
lor mani e gli occhi lagrimosi alzando,
avrian mosso a pietá le fere e i sassi,
trafiggesti tu stesso? E in tutto il tempo
che pugnando per noi si tenne Itome,
quanto scempio talor de’ nostri fidi
in Messene non fèsti? E quando al fine
ci arrendemmo, perché contro la fede
al mio sposo dar morte? O tradimento!
E ch’io da un mostro tale udir mi debba
parlar di nozze e ricercar d’amore?
A questo ancor mi riserbaste, o Dèi?
Polifonte.   Merope, omai t’accheta; tu se’ donna,
e qual donna ragioni. I molli affetti
ed i teneri sensi in te non biasmo,
ma con gli altri pensier non si confanno.
Ma dimmi: e perché sol ciò che ti spiace
vai con la mente ricercando, e ometti
quant’io feci per te? Ché non rammenti
che il terzo figlio, in cui del padre il nome
ti piacque rinnovar, tu trafugasti
e ch’io ’l permisi; e che a la falsa voce,
sparsa da te de la sua morte, io finsi
dar fede e in grazia tua mi stetti cheto?
Merope.   Il mio piccol Cresfonte, ch’era ancora
presso di me, non giunto anco al terz’anno
ne’ primi giorni del tumulto in queste
braccia morí pur troppo, e de la fuga
al disagio non resse. Ma che parli?