La Merope/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA I

Euriso e Ismene.

Ismene.   No, Euriso, di veder Merope il tempo

questo non è; benché tu sia quel solo
che d’ogni arcano suo fu sempre a parte,
lasciala sola ancor, finché piangendo
si sfoghi alquanto. Tu non sai qual nuova
sciagura il cor le opprima.
Euriso.   Io giá pur ora
da serpeggiante ambigua voce ho inteso
Polifonte affrettar le minacciate
nozze, e per accertarmi a lei correa.
Ismene.   Questo a lei sembra atroce mal; ma questo
quasi ch’or si disperde e in sen le tace,
ch’altro maggior l’alma le ingombra e preme.
Euriso.   Che avvenne mai? Forse del figlio, ch’ella
bambino diede a Polidoro, il vecchio
servo, perché qual suo lungi il nodrisse,
novella infausta è giunta?
Ismene.   Ah! tu ’l pensasti,
Euriso: tu ben sai ch’altro conforto
non avea l’infelice in tanti mali

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che ’l mandare in Laconia il fido Arbante

ogni sei lune occulto. Al suo ritorno,
di cui l’ore contava ed i momenti,
quasi uscia di sé stessa e cento cose
volea a un fiato saper; dalla sua bocca
quinci pendea per lungo tempo, il volto
cangiando spesso e palpitando tutta:
poi tornava e volea cento minute
notizie ancora e no ’l lasciava in pace
finché gli atti, il parlar, le membra, i panni
dipinti non aveva a parte a parte
il buon messo, e talor la cosa stessa
dieci volte chiedea.
Euriso.   Non ti dar pena
di ciò ridire a me, ch’io la conosco
troppo bene; e talvolta a me da poi
tutto narrava e, s’un bel detto avea
da raccontarmi del suo figlio, o Dio!
le scintillavan d’allegrezza gli occhi
nel riferirlo. Or dimmi pur qual nuova
abbiasi di Cresfonte.
Ismene.   È giunto Arbante,
che tardò questa volta oltra ’l costume,
e porta che Cresfonte appresso il mesto
vecchio piú non si trova e ch’ei tuttora
ne cerca invan, né sa di lui novella.
Euriso.   O speme tronca, o regno afflitto, o estinto
sangue de’ nostri re!
Ismene.   Ma tu mi sembri
altra Merope appunto, che di lancio
negli estremi ti getti; io non ti dico
che la sua morte ei cerchi.
Euriso.   Si, ma credi
tu che a caso o da sé sará svanito?
L’avrá scoperto Polifonte al fine,
gli avrá teso l’aguato e l’avrá colto.

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Ismene.   Nulla di questo: afferma Polidoro

ch’era preso il garzon da viva brama
d’andar vagando per la Grecia e alcune
cittá veder che del lor nome han stanca
la fama. Egli or co’ prieghi ed or con l’uso
di paterno poter per alcun tempo
il raffrenò, ma al fin l’ardente spirto
vinto dal suo desio partì di furto,
e ’l vecchio, dopo averlo atteso invano,
era giá in punto per seguirlo e girne
ei stesso in traccia, investigando l’orme.
Euriso.   Oh! questo è un male assai minore, e forse
né pure è mal : ché a qual periglio esponsi
col suo peregrinar, se non che altrui
ma né pure a sé stesso ei non è noto?
A ciò pensando, avrá conforto in breve
la madre afflitta.
Ismene.   Oh si, ti so dir io
ch’or ben t’apponi: tutti i rischi, tutti
i disagi che mai ponno dar noia
a chi va errando, s’odi lei, giá tutti
stanno intorno al suo figlio. Il sole ardente,
le fredde piogge, le montagne alpestri
va rammentando, né funesto caso
avvenne in viaggio mai che alla sua mente
non si presenti: or nel passar d’un fiume
dal corso vinto ed or le par vederlo
in mezzo a’ malandrin ferito e oppresso.
Ma ricorda anche i sogni e d’ogni cosa
fa materia di pianto; in somma, Euriso,
s’io debbo dirti il vero, alcuna volta
parmi che il senno suo vacilli.
Euriso.   O figlia,
tutto vuol condonarsi a un cor di madre;
quello è l’affetto in cui del suo infinito
divin poter pompa suol far natura.

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Quando tu ’l proverai, vedrai s’io mento.

Ismene.   Per me non proverollo al certo, ch’io
imparo tutto di quanta follia
è ’l girsi a procacciar sì gran dolore.
Euriso.   Questo è un dolor che con piacer s’acquista.
Ismene.   Credimi pur che in tal pensier son fissa.
Euriso.   Ma bramata e richiesta il pensi in vano,
che ’l tuo sembiante al tuo pensier fa guerra.
Ismene.   Ecco Merope.

SCENA II

Merope e detti.

Merope.   O Euriso, nel vederti

ripiglia il lagrimar l’usata via.
Euriso.   Pur or l’avviso udii.
Merope.   Questo è ben altro
che gir pensando, or che al vigor degli anni
era giunto Cresfonte, al miglior modo
di palesarlo omai; questo è ben altro
che figurarsi di vederlo or ora
de la plebe al favor portar feroce
sul tiranno crudel la sua vendetta.
Euriso.   Ma perdona, o reina: e chi distrusse
queste dolci speranze? E che rileva,
se lodevol desio guida alcun tempo
per le greche provincie il giovinetto
di sapere e di senno a far tesoro?
Tu omai nel pianto la ragion sommergi.
Merope.   Ah! tu non sai da qual timor sia vinta.
Euriso.   Dillo, reina.
Merope.   Giá due giorni, al ponte
che le due strade unisce, un uom fu ucciso.
Euriso.   Il so che Adrasto l’omicida ha colto.

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Merope.   Or quell’ucciso io temo — e piaccia al cielo

che ’l mio timor sia vano — io temo, Euriso,
non sia stato Cresfonte.
Euriso.   O eterni numi!
Dove mai non vai tu cercando ognora
i motivi d’affanno!
Merope.   Troppo forti
son questa volta i miei motivi. Ascolta.
Qui de’ messeni alcun non manca, ond’era
quell’infelice un passagger; confessa
il reo ch’era d’etá a la sua conforme,
ch’era povero e solo e che veniva
di Laconia. Non vedi come tutto
confronta? Appresso egli stringea una clava.
Forse il vecchio scoperta al fin gli avea
l’erculea schiatta, ond’ei de l’arme avita
giovanilmente facea pompa e certo
qua sen veniva per tentar sua sorte.
Euriso.   Piccioli indizi per sì gran sospetto.
Merope.   Io penso ancor ch'Adrasto, del tiranno
l’intimo amico, il reo condusse. Or dimmi:
perché venne egli stesso? Egli senz’altro
potea mandarlo. E perché mai nel fiume
far che il corpo si occulti e si disperda,
né alcuno il vegga?
Euriso.   Deh! quanto ingegnosa
tu sei per tormentarti.
Merope.   Ah! ch’io ne’ miei
divisamenti errar non soglio mai.
E notasti tu, Ismene, qual cura ebbe
Polifonte in partir ch’io, rimanendo,
col reo non ragionassi? E ti sovviene
quanto pronto e giulivo ei mi concesse
ciò che richiesi in suo favore?
Ismene.   In fatti
molto cortese fu, molto clemente

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egli allor si mostrò; non può negarsi

che diverso è pur troppo il suo costume.
Euriso.   Ma gioverebbe in questo caso a lui
piú ’l divulgar che l’occultare il fatto
per troncare a chi l’odia ogni speranza.
Merope.   Non giá, ché troppo il popol questa nuova
atrocitá commoverebbe a sdegno.
Euriso.   Ma come vuoi ch’egli abbia or di repente
scoperto il figlio tuo?
Merope.   Chi de’ tiranni
può penetrar le occulte vie? Fors’anco
sol per spogliarlo il rio ladron l’uccise,
e dipoi s’è scoperto.
Euriso.   Or io di questo
labirinto, che tu a te stessa ordisci,
spero di trarti in breve. Avrá fra poco
Adrasto assai mestier dell’opra mia;
non fia però che a compiacermi io ’l trovi
restio: lascia che seco i’ parli e trarne,
mia reina, ben tosto io ti prometto
quanto basti a chiarirci.
Merope.   Ottimo in vero
è tal consiglio; fallo dunque, Euriso;
ma fallo tosto, non frappor dimora.
Euriso.   Non dubitar, ma in tanto ne’ tuoi danni
non congiurar tu ancor con la tua sorte
e non crearti con la mente i mali.
Merope.   O caro Euriso, i’ veggio ben che questo
nulla è piú che un sospetto; ma se ancora
fosse falso sospetto, or ti par egli
che il sol peregrinar del mio Cresfonte
mi dia cagion di dover esser lieta?
Rozzo garzon, solo, inesperto, ignaro
de le vie, de’ costumi e dei perigli,
ch’appoggio alcun non ha, povero e privo
d’ospiti, qual di vitto e qual d’albergo

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non patirá disagio? Quante volte

a l’altrui mense accosterassi, un pane
chiedendo umile? E ne sará fors’anche
scacciato, egli, il cui padre a ricca mensa
tanta gente accogliea. Ma poi se infermo
cade, com’è pur troppo agevol cosa,
chi n’avrá cura? Ei giacerassi in terra
languente, afflitto, abbandonato, e un sorso
d’acqua non vi sará chi pur gli porga.
O Dèi! che s’io potessi almeno ir seco,
parmi che tutto soffrirei con pace.
Ismene. Regina, odi romor; qua Polifonte
sen viene.
Merore.   Io mi sottraggo; Euriso, a core
ti sia cercar d’Adrasto.
Euriso.   Egli senz’altro
sará col re: tosto che il lasci, io pronto
l’afferro e il tutto esploro e a te ritorno.

SCENA III

Polifonte e Adrasto.

Polifonte.   Or dimmi: pârti che deponga omai

gli empi pensier la fluttuante ognora
cittá superba e ’l procelloso volgo?
Adrasto.   La turba vil, che peggiorar non puote,
odia sempre il presente e cangiar brama,
e ’l re che piú non ha, stima il miglior.
Polifonte.   Troppo è vero, e qualor le vie trascorro
io veggo i volti di livor dipinti
e leggo il tradimento in ogni fronte.
Adrasto.   Affretta, o re, queste tue nozze; affretta
di soddisfar con quest’immagin vana
di giustizia e di pace il popol pazzo.

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Polifonte.   Meglio saria far di costoro scempio.

Adrasto.   Tu stesso a te torresti allora il regno.
Polifonte.   In vuoto regno almen sarei sicuro.
Adrasto.   Ma ciò bramar non giá sperar ti lice.
Polifonte.   E credi tu che sia per poter tanto
nel sentimento popolare il solo
veder del regio onor Merope cinta?
Adrasto.   Sol l’incerto romor che di ciò corre
molti giá ti concilia, e ci ha chi spera
che di Cresfonte la consorte debba
risvegliar di Cresfonte in te i costumi.
Polifonte.   Sciocco pensier. Ma se costei ricusa?
Adrasto.   La donna, come sai, ricusa e brama.
Polifonte.   Mal da l’uso comun questa misuri.
Adrasto.   Di raddolcir la disdegnosa mente
con alcun atto a lei gradito è forza
por cura; arduo non fia che il primo passo.
Fatto questo e ridotta anche ritrosa
e ripugnante a sofferire il nome
di tua sposa, espugnar tutto il suo core
fia lieve impresa; ché a placar la donna
e a far ben tosto del tuo affetto acquisto,
somma han virtude i maritali amplessi.
Fors’anco allora con lusinghe e vezzi
(per alma femminil forte tortura)
giugner potresti il gran segreto a trarle
di bocca: dove quel suo figlio occulti,
qual fin che ha vita, aver tu non puoi pace.
Polifonte.   Questa è la spina che nel cor sta fissa.
Adrasto.   Ciò potrebbe avvenir; ma se persiste
contumace e superba anche in suo danno
e piegar non si vuol, conviensi allora
forza e minacce usar; ché a tutto prezzo
vuolsi ottener di coronar nel tempio
agli occhi dei messeni, in fra la pompa
di festoso imeneo costei, vêr cui

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è tanta la pietá, tanto è l’affetto,

pace dando ed onore a questo avanzo
de la famiglia a lor cotanto cara.
Polifonte.   Adrasto, voglia il ver, tu ben ragioni.
Fa che si chiami Ismene. Al mio pensiero
il tuo è conforme; or piú non stiasi a bada,
ciò ch’è ben fare, differire è male.
Vanne tu al sacerdote, e di’ che appresti
pel nuovo giorno pubblico e giulivo
sacrificio solenne. Il vulgo sciocco
vuol sempre a parte d’ogni cosa i dèi
Pe’ trivi poi t’aggira e la novella
spargi con arte e in mio favor l’adorna.
Adrasto.   Saggiamente risolvi, ad ubbidirti
m’affretto.

SCENA IV

Ismene e Polifonte.

Ismene.   Che m’imponi, o re?

Polifonte.   Dirai
a Merope che amor non soffre indugio
e ch’io non vo’ moltiplicare il danno
di tanta etá perduta. Al nuovo sole
però n’andremo al tempio, ove del mio
sincero cor, di mia perpetua fede
tutti farò mallevadori i dèi.
Quinci di cento trombe al suon festivo
fra ’l giubilo cornuti, fra i lieti gridi
sposa uscirá e regina. Un tanto dono
dee far grata, qual sia, la man che il porge
Ismene.   Come, signor? Il fermo tuo volere
oggi, dopo ’l meriggio, esponi e vuoi
che a così strano cangiamento...

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Polifonte.   E voglio

che tutto ciò diman, pria del meriggio,
sia eseguito: lode è protrar le pene,
ma non giá i benefici. Or perché veggia
Merope quanto sul mio cor giá regni,
dille che, avendo scorto il suo disio
intorno all’omicida, io le do fede
che in danno suo non sorgerá funesto
decreto alcuno; e in avvenir si accerti
che sempre grideran le leggi in vano
contra chi fia dal suo favore assolto.
Or vanne e fa che in cosí lieto giorno
piacciale illuminar di gioia il mesto
volto e le membra circondar di pompa.
Ismene.   Sappi, o re, ch’ella da alcun tempo, in quelle
ore tranquille ch’al riposo e al sonno
per noi si dán, dissimulato in vano
soffre di febre assalto: alquanti giorni
donare è forza a rinfrancar suoi spirti.
Polifonte.   Il comando intendesti; or tuo dovere
è l’ubbidir, non il gracchiare al vento.

SCENA V

Ismene, poi Merope.

Ismene.   Sventurata reina! A tanti affanni

questo mancava ancor, e questo appunto
per l’infelice il tempo era opportuno
da vedersi condurre a nozze, e nozze
con Polifonte. O misero destino!
Merope.   Da te che volle Polifonte, Ismene?
Ismene.   Oimé, sposa ti vuole al sol novello.
Merope.   Di Cresfonte il pensier tanto mi strinse
che quest’altro dolore io quasi avea

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posto in oblio. Ma che? Morte da questo

a mio piacer trar mi saprá, sol ch’io
potessi pria del figlio e di sua vita
contezza aver.
Ismene.   Aggiunse che quel reo,
sol perché in suo favor piegar ti vide,
ei da morte assicura.
Merope.   Or vedi, Ismene,
s’occulto arcano è qui? Qual nuova cura
di secondar con animo sí pronto
un lampo di desir che in me tralusse?
Ismene.   Ecco Euriso che torna e con sereno
sembiante; ei ti previen di giá col riso
qual uom che porta in sen liete novelle.

SCENA VI

Euriso e detti.

Euriso.   Lodato il ciel, regina; io questa volta

ti trarrò pur d’affanno. Oh se d’ogn’altro
trar ti potessi in questo modo un giorno!
Merope.   Tu mi rallegri, Euriso: e che mi rechi
di cosí certo?
Euriso.   Io con Adrasto appena
a parlar cominciai che venni in chiaro
come l’ucciso dal ladrone al ponte
il tuo figlio non fu.
Merope.   Grazie agli dèi,
da morte a vita tu mi torni; e pure
cresceva in me il sospetto. Or quai di questo
aver potesti tu si chiare prove?
Euriso.   Io ten dirò una sola: il tuo Cresfonte.
nodrito in umil tetto e qual di servo
figlio tenuto, in basso arnese è forza

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che vada errando.

Merope.   È ver purtroppo.
Euriso.   Or sappi
che quel misero avea superbe spoglie
e ricchi arredi.
Merope.   Se quest’è, Cresfonte
ei per certo non fu; tu ben ragioni.
Ma quali furon queste spoglie e dove
sono?
Euriso.   Io di esse questa sola gemma
vo’ che tu vegga: con fatica Adrasto
a le mie mani l’affidò; rimira
se un tesoro non vale.
Merope.   O quanto, Euriso,
io tenuta ti sono! Oimé, traveggio?
Aita, o Dèi, si ch’io non mora in questo;
punto.
Ismene.   Che sará mai?
Euriso.   Pensar nol posso.
Merope.   Ah ch’io non erro! È dessa. Questa gemma
avea dunque colui che fu trafitto?
Euriso.   Aveala; or che ti turba?
Merope.   Avete vinto,
perverse stelle; or sarai sazia, o sorte:
vibrato hai pur l’ultimo colpo; o Dèi!
Euriso.   Io son confuso.
Ismene.   Il cor palpita e trema.
Merope.   Questo è l’anel che col bambino io diedi
a Polidoro e ch’io di dar gl’imposi
al figlio mio, se mai giungesse a ferma
etade; egli vi giunse, oimé, ma in vano.
Euriso.   Deh che mai sento!
Ismene.   O maraviglia!
Merope.   Io madre
giá piú non sono; ogni speranza è a terra.
Ismene.   Deh che forse tu sbagli! E come vuoi

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dopo sí lungo tempo aver sí fissa

d’un anello l’idea? Ma inoltre forse
non si pòn dar due somiglianti gemme?
Merope.   Che somigliar, che sbagli? Un lustro intero
portata ho in dito questa gemma; questo
fu il primo dono del mio sposo, e vuoi
che riconoscere or nol sappia? Pensi
tu ch’io sia fuor di senno? Ecco la volpe
ch’egregio mastro vi scolpí; con essa
spesso improntare il re solea.
Euriso.   Ma forse
smarrilla il vecchio in sí lungh’anni, e forse
involata gli fu.
Merope.   Non giá, che Arbante
custodita appo lui sempre la vide.
Euriso.   È forza di destino!
Ismene.   Il cor gliel disse.
Euriso.   Presentimento hanno le madri ignoto.
Merope.   Or che piú bado? E in questa vita amara
che piú trattienmi? Per tant’anni tutto
il nodrimento mio fu una speranza;
or questa è al vento, altro non resta: il figlio
mio non vedrò mai piú. Or Polifonte
regnerá sempre e regnerá tranquillo.
O ingiusti numi! Il perfido, l’iniquo,
il traditor, l’usurpator, colui
che in crudeltá che in empietá che in frode
qual si fu mai piú scelerato avanza,
questo voi proteggete, in questo il vostro
favor tutto versate e contra il sangue
del buon Cresfonte, contra gl’infelici
germi innocenti di scoccar v’è a grado
gli strali e duolvi forse ora che, omai
estinti tutti, ove scoccar non resta.
Euriso.   Il funesto, impensato, orribil caso
m’ha trafitto cosí, cosí m’ha oppresso

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che assai piú d’uopo io stesso ho di conforto

ch’atto or mi sia per dar conforto altrui.
Non pertanto, o reina, il buon desio
e ’l sommo duol che del tuo duolo io sento
fan ch’io pur ti dirò che il tempo è questo
in cui tu devi richiamare al cuore
tutto il valor di tua virtú; e siccome
sovra il corso mortale ed oltre all’uso
del tuo sesso in tutt’altro ogn’altro hai vinto,
cosí in durar contra quest’aspro colpo
ugual ti mostra e fa arrossir gli dèi.
Oscure, imperscrutabili, profonde
son quelle vie per cui, reggendo i fati,
guidar ci suol l’alto consiglio eterno.
Tu ben sai che il gran re per cui fu tratta
la Grecia in armi a Troia, in Auli ei stesso
la cara figlia a cruda morte offerse;
e sai che ’l comandâr gli stessi dèi.
Merope.   O Euriso, non avrian giá mai gli dèi
ciò comandato ad una madre. Un uomo
intendere non può, non può sentire
qual divario ci corra; e poi colei
per la salute universale a morte
n’andò come in trionfo, e al figlio mio
sotto il braccio plebeo spirar fu forza
d’un malandrino. Empio ladron crudele,
con che astuto parlar, con quai menzogne
il tatto dipingea! Chi non gli avrebbe
prestata fede? Or odi, Euriso, io in vita
non vo piú rimaner; da questi affanni
ben so la via d’uscir, ma convien prima
sbramar l’avido cor con la vendetta:
quel scelerato in mio poter vorrei
per trarne prima s’ebbe parte in questo
assassinio il tiranno; io voglio poi
con una scure spalancargli il petto,

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voglio strappargli il cor, voglio co’ denti

lacerarlo e sbranarlo. In ciò m’aita,
o fido amico, in ciò m’assisti e dopo
ciò ti conforma al tempo. La tua fede
non avrá piú per cui servarsi omai,
segui i felici e quel partito abbraccia
per cui son tutti dichiarati i dèi.
Euriso.   Sí stretto ho ’l cor che in vece di parole
non mi tramanda che singulti e pianto.