La Costa d'Avorio/9. L'assalto notturno dei leoni
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Capitolo IX
L’assalto notturno dei leoni
Alfredo, da uomo prudente e che conosceva la vita dei boschi, dopo d’aver cenato e di aver visitate le ferite dell’amazzone le quali ormai si cicatrizzavano rapidamente, fece legare i cavalli attorno ad un palo infisso profondamente nel suolo per impedire che si sbandassero e che cadessero sotto i denti delle iene, poi in compagnia d’Antao, battè le alte erbe della radura per un vasto tratto, volendo essere certo che non si nascondessero animali pericolosi.
Rassicurato da quelle precauzioni indispensabili per coloro che s’accampano in mezzo alle selvagge foreste dell’Africa che sono pullulanti di fiere, fece radunare una catasta di legna secca per mantenere i fuochi accesi, poi stabilì i quarti di guardia. Asseybo ed un dahomeno furono incaricati della prima veglia che doveva durare fino alla mezzanotte, Alfredo ed Antao s’incaricarono della seconda che doveva prolungarsi fino alle tre del mattino ed il secondo dahomeno dell’ultima, la più breve e la meno pericolosa, usando le fiere rintanarsi ai primi albori.
Asseybo ed il suo compagno, fatto il giro del gigantesco gruppo dei sicomori e ravvivati i fuochi, si sedettero alle due estremità del campo col fucile fra le ginocchia, aprendo per bene gli occhi e tendendo accuratamente gli orecchi.
Un silenzio assoluto regnava sotto la grande e tenebrosa foresta, i cui alberi pareva che formassero una massa impenetrabile. Solamente di quando in quando un soffio d’aria che spirava dalla costa, faceva stormire lievemente le grandi foglie piumate dei palmizi, dei cocchi e dei datteri spinosi, producendo un sussurrìo strano che si perdeva rapidamente in lontananza.
Quel silenzio non doveva però durare molto. Dietro le alte cime della foresta cominciava a diffondersi nel cielo una luce pallida, annunciante l’imminente comparsa dell’astro notturno e le fiere non dovevano tardare a lasciare i loro covi per cominciare le loro sanguinose stragi.
Ad un tratto uno scoppio di risa sgangherate, risuona fra l’oscura massa degli alberi. È un riso stridulo, che ha qualche cosa di beffardo e di atroce e che somiglia a quello d’un negro in delirio. Lo ha lanciato la iena striata, la più codarda, ma la più avida e la più lurida delle fiere.
Quello scroscio non è ancora cessato, che da un’altra parte della foresta s’alza un concerto di urla lugubri, lamentevoli, monotone. Sembra che sotto la cupa ombra di quei giganteschi vegetali, due dozzine di persone vengano spietatamente martirizzate.
Quel gridìo assordante cessa per pochi istanti; poi un urlo più prolungato echeggia solo e tosto vi fanno coro gli altri, più acuti, più strazianti. Sono gli sciacalli che si chiamano e che si radunano per recarsi a cacciare le inoffensive antilopi.
Poi s’odono dei sibili acuti, dei latrati ora sommessi ed ora strepitosi, delle urla, altri scrosci di risa, quindi uno scricchiolìo di rami, uno spostarsi di fronde, un sussurrìo di foglie secche precipitosamente calpestate. La tenebrosa foresta pochi istanti prima così tranquilla, così silenziosa, pare che ora siasi ridestata.
D’improvviso un ruggito potente, assordante come un colpo di tuono, che pare faccia tremare perfino le foglie degli alberi e le erbe della radura, scoppia.
Quella voce formidabile che fa rimbombare la foresta e che annuncia, in colui che l’ha emessa, una forza strapotente, ottiene un effetto immediato. Tutte le altre urla cessano di botto e più nessun rumore turba il silenzio della notte.
Il re delle foreste si è fatto udire e tutte le altre fiere, grandi e piccole, audaci o codarde, si sono affrettate a lasciare il campo al terribile predatore.
Asseybo ed il dahomeno, che fino allora non si erano mossi, non ignorando che nè le iene, nè gli sciacalli, nè i lupi striati, nè i serval avrebbero osato assalirli, udendo quel ruggito che annunciava la presenza d’un leone, s’erano alzati, gettando degli sguardi inquieti verso gli alberi.
— Cattivo vicino, — disse il dahomeno, avvicinandosi ad Asseybo.
— Preferirei una banda di iene macchiate, — rispose il servo. — Fortunatamente i fuochi sono accesi e il predatore non oserà assalirci, per ora. —
Un altro ruggito, più potente e più prolungato del primo, rintronò da un’altra parte della foresta, a cui subito rispose il primo.
— Sono due, — disse il dahomeno, la cui voce tremava. — La cosa è grave.
— È vero, — rispose Asseybo, che del pari non era tranquillo. — Vi è un leone ed una leonessa e sono certo di non ingannarmi.
— Che sia il caso di svegliare il padrone?...
— Aspettiamo ancora. Forse non si sono accorti della nostra presenza.
— Non tarderanno a scoprirci. Hanno un odorato troppo acuto.
— Silenzio ed aspettiamo. —
I due ruggiti erano echeggiati ad un chilometro dall’accampamento, ma un chilometro è un passo per quelle fiere che hanno uno slancio poderoso. In pochi istanti potevano mostrarsi sul margine della foresta.
Passarono pochi minuti, poi i due ruggiti si fecero nuovamente udire più potenti, più formidabili ed anche più vicini.
Ormai non vi era più da dubitare: le due fiere s’avvicinavano rapidamente, forse attratte dai due falò che fiammeggiavano sotto i folti rami dei sicomori.
Asseybo ed il dahomeno avevano armate le due carabine e si erano riparati dietro alle casse, per mettersi al coperto da un repentino assalto, quando udirono la voce del padrone.
Alfredo, svegliato bruscamente da quei ruggiti, era strisciato fuori della tenda, seguìto da Antao.
— Dei leoni? — aveva chiesto.
— Sì, padrone, — rispose Asseybo.
— Che il diavolo se li porti, — disse Antao. — Potevano lasciarmi dormire tranquillo.
— Si vedono? — chiese Alfredo.
— No, padrone, ma non devono essere lontani.
— Che i dahomeni s’incarichino di tener fermi i cavalli e noi penseremo a quei predatori. —
Fece stringere il cerchio formato dalle casse, vi si misero dietro tutti e tre ed attesero, con calma, la comparsa del re delle selve.
I cavalli, già svegliati da quei ruggiti, avevano cominciato a dare segni di viva inquietudine. Scalpitavano, nitrivano e cercavano di spezzare i legami per fuggire dalla parte opposta, non obbedendo più alla voce ed alle carezze dei due dahomeni.
Anche la giovane negra si era accorta della vicinanza delle formidabili fiere ed aveva cercato d’alzarsi, ma vedendo i due bianchi in armi, si era tranquillizzata conoscendo per esperienza il loro coraggio e la loro valentìa.
I ruggiti erano ricominciati destando tutti gli echi della foresta e venivano da due parti opposte. Pareva che il maschio e la femmina si fossero accordati per assalire il campo in due diverse direzioni.
— A me il leone che rugge alla mia destra, — disse Alfredo, con voce tranquilla. — A te la leonessa, ma non far fuoco se non quando sei sicuro dei tuoi colpi.
— Costringerò i miei nervi a stare tranquilli, — rispose Antao. — Che strana impressione mi fanno questi due animali!... Si direbbe che quando ruggono mi fanno tremare il cuore.
— Sii calmo, Antao. Con simili fiere si giuoca la vita.
— Lo sarò, poichè non ho proprio nessuna voglia di finire nel ventre della leonessa.
— Scherzi?... Buon segno, amico mio. L’uomo che ride dinanzi alla morte non ha paura.
— Paura non ne ho, te lo giuro, ma sono i nervi che pare abbiano una voglia folle di battere una marcia indiavolata.
— Taci!...
— Morte di Nettuno!... Che vocione!... M’ha rintronato gli orecchi!...
— Eccoli!... —
Dopo un ruggito più formidabile dei primi, una massa oscura si era slanciata, con un salto immenso, fuori da un macchione di fitti cespugli ed erasi fermata nella radura, esponendosi ai pallidi raggi della luna.
Era un superbo leone dal corpo robusto, dalla testa grossa, dalla lunga criniera oscura e dal pelame fulvo, uno di quegli animali che posseggono una tale forza da balzare sopra una siepe, portandosi in bocca una giovenca.
S’arrestò un istante, cogli sguardi fissi sui fuochi che ardevano sotto la fosca ombra dei sicomori e sferzandosi i fianchi colla lunga coda terminante in un fiocco: poi lanciò il suo formidabile ruggito di combattimento che parve una sfida gittata ai cacciatori.
Quasi subito la leonessa, che non doveva trovarsi lontana, fece a sua volta la comparsa, spiccando una volata di parecchi metri ed arrestandosi a quindici o venti passi dal maschio.
— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamò Antao. — Sono belli da vedersi, ma fanno tremare le gambe.
— Una carabina di ricambio, — disse Alfredo ai dahomeni, senza volgersi. — Aspetta, Antao. —
Alzò lentamente la carabina mirando con grande attenzione ed approfittando dell’immobilità del leone, fece fuoco a sessanta metri di distanza.
La nuvola di fumo non si era ancora dissipata, che si vide il leone spiccare un salto in aria, poi precipitarsi verso l’accampamento con impeto irresistibile.
Asseybo ed Antao si erano prontamente voltati puntando le armi, senza curarsi della leonessa che si preparava ad assalirli, ma il cacciatore, con rapido colpo d’occhio, aveva tutto veduto.
— No, fermi!... — urlò. — Badate alla leonessa!... —
Aveva afferrata rapidamente la carabina di ricambio che gli porgeva uno dei dahomeni e l’aveva puntata.
Il leone, che doveva essere stato ferito, ma non gravemente, forse s’accorse del pericolo che correva, poichè invece di scagliarsi contro le casse, dietro le quali si teneva riparato il cacciatore, col suo ultimo slancio cercò di piombare addosso ai cavalli che si dibattevano furiosamente per fuggire.
Aveva però trovato un nemico degno di lui. Alfredo, senza staccare l’arma dalla spalla, aveva fatto mezzo giro, facendo fuoco a soli sei passi.
La palla, meglio diretta della prima, andò a fracassare la spina dorsale del predatore, il quale, arrestato quasi di volo, andò a cadere in mezzo ad uno dei falò.
Con pochi colpi di zampe disperse i tizzoni spegnendoli, ma la morte lo colse e si distese in mezzo alla brace, arrosolandosi le carni e spandendo all’intorno un nauseante odore di bruciaticcio.
La femmina intanto, resa furiosa per la morte del compagno, si era scagliata contro Antao ed Asseybo.
Sfuggì alla palla del secondo e andò ad urtare le casse con tale furia, da rovesciarle le une addosso alle altre. Già stava per gettarsi contro i due uomini che erano rimasti senza difesa, ma Antao in quel supremo istante aveva saputo imporre un momento di calma ai suoi nervi.
Vedendo la fiera cadere a due soli passi, le aveva scaricata contro la carabina, mentre uno dei dahomeni la percuoteva poderosamente con un grosso tizzone ardente, coprendola di scintille.
Ferita forse gravemente e spaventata da quella pioggia di fuoco, fece un rapido voltafaccia, attraversò la radura a gran balzi e scomparve nella foresta salutata da altri due colpi di fucile, ma i proiettili non parve giungessero a destinazione.
— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — Un momento di esitazione e la mia zucca sarebbe a quest’ora fra le mascelle di quell’indemoniata bestia.
— E faccio i miei elogi al tuo sangue freddo, — disse Alfredo, che aveva tremato per l’amico. — Un cacciatore di professione avrebbe mancato al colpo o si sarebbe dato alla fuga.
— Ci tenevo alla mia pelle, — rispose Antao, sorridendo. — Per Bacco!... Che salti e che attacco!... E dove sarà fuggita la leonessa?... Le ho scaricata la carabina nella bocca, ma credo di averle solamente fracassata una mascella.
— Sarà tornata al suo covo.
— Che non ci assalga più?...
— Non oserà ritornare.
— Se nella sua ritirata incontrasse almeno le spie e si rifacesse coi polpacci di quelle!...
— Si saranno messe in salvo sugli alberi fino dai primi ruggiti.
— Ma il tuo leone si cuoce, Alfredo. Mi rincresce perdere la sua pelle.
— Ormai è rovinata. Lascia che si cucini e prendiamo il sonno.
— Sarà un po’ difficile riaddormentarsi. Ho ancora i nervi scombussolati.
— Si calmeranno, Antao. Orsù, cacciati sotto la tenda. —
I due bianchi, certi ormai di non venire più disturbati, riguadagnarono i loro giacigli di fresche erbe, mentre Asseybo ed il dahomeno rizzavano nuovamente le casse e riaccendevano il falò spento dal leone.
Il rimanente della notte passò tranquillo. Solamente verso le due del mattino alcune iene osarono avvicinarsi furtivamente al campo, attirate dall’odore che aveva sparso il leone nell’arrostirsi l’addome sui tizzoni, ma bastò un colpo di fucile per costringerle a riguadagnare la foresta.
All’indomani, un’ora dopo il sorger del sole, la carovana si rimetteva in cammino, impaziente di lasciare quelle pericolose foreste e di giungere nelle bassure erbose.
Alle 8 del mattino, dopo avere attraversato a guado un grosso corso d’acqua che serve di scarico al lago Tschibe che trovasi nel cuore del Dahomey, giungeva sulle sponde occidentali della grande laguna di Nokue chiamata anche Dennana e proseguiva verso il sud per raggiungere il canale costiero che passa fra Whydah e la borgatella di Avrekete.
Cominciavano di già i terreni paludosi, quei terreni saturi d’acqua marina corrotta dai paletuvieri, da avanzi di vegetali d’ogni specie e che esalano quei miasmi carichi di febbre, così fatali agli europei che soggiornano per qualche tempo in quelle regioni.
Non si scorgevano che radi gruppi di alberi, per lo più di cocchi, piante che non possono crescere lontane dall’aria marina, ma invece giganteggiavano le canne e le erbe palustri, le quali talora raggiungevano altezze incredibili, tali da coprire interamente cavalli e cavalieri.
Il terreno cedeva facilmente sotto i piedi della carovana, ma Alfredo contava di attraversare rapidamente quella regione pericolosa per sottrarre il portoghese, non ancora acclimatizzato, alla perniciosa influenza di quei miasmi. Non voleva, fare che una semplice punta nei paesi del Piccolo e del Grande Popo per meglio ingannare le spie che lo seguivano, e quindi risalire le frontiere orientali degli ascianti e riguadagnare i grandi boschi dell’interno, più pericolosi pei loro abitanti a quattro zampe, ma più salubri.
Alla sera si accampavano sulle sponde del canale, in uno spazio scoperto da ogni erba palustre per non venir sorpresi dalle spie e per non subire l’assalto dei numerosi serpenti che pullulano in quegli umidi terreni.
La notte però fu tormentosa. Malgrado i fuochi accesi attorno al campo con erbe fresche per produrre nuvoloni di fumo, veri battaglioni di moscherini sanguinari e spietati invasero le tende, gettandosi con rabbia inaudita sulle carni dei poveri accampati.
Sono incredibili le torture che fanno soffrire quei piccoli insetti. Le nostre zanzare, in loro paragone, sono nulla. Vi sono moscherini che vi succhiano il sangue fino che scoppiano e che pare vi strappino la pelle pezzetto a pezzetto; delle mosche quasi invisibili che dalle dieci del mattino alle tre pomeridiane non si lasciano vedere, ma che poi vi piombano addosso a sciami, producendovi delle punture dolorosissime; altre, chiamate ibolai, che hanno dei pungiglioni così acuti da passarvi i calzoni e che pare vi forino la pelle con ago infuocato, ma che però non vi fanno soffrire che pochi istanti; ma ve ne sono poi altre ancora che vi succhiano il sangue e che poi lasciano nell’invisibile ferita chissà quale veleno, che vi fa soffrire ventiquattro ore senza tregua.
Antao, non abituato a tutti quei morsi, battagliò inutilmente tutta la notte contro quei nemici quasi invisibili, borbottando come un ossesso, e solamente verso l’alba potè gustare un po’ di sonno, dopo però di essersi unto il viso e le mani con olio d’elais per calmare i dolori.
Il giorno seguente la carovana, che si teneva sulla sponda interna del canale, passava al largo di Godomè e poco dopo di Whydah, una delle più importanti città della Costa d’Oro, tenuta da un cabecero del re di Dahomey e verso il mezzodì, dopo una rapidissima marcia, attraverso l’importante corso d’acqua che chiamasi Mono e che pare abbia le sue sorgenti nelle lontane regioni del Borgu, il quale trovasi a settentrione del paese dei Krepi, varcava le frontiere della repubblica dei Popos.