La Costa d'Avorio/8. La carovana
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Capitolo VIII
La carovana
L’indomani allo spuntar dell’alba, Alfredo dava il comando della partenza, dopo d’aver lasciato un ricco regalo a Tofa per compensarlo dell’ospitalità e delle sue premure.
La carovana si componeva dei due bianchi, del loro servo, dei due dahomeni che erano giunti nella notte da Katenau e di sei cavalli carichi di casse e di pacchi, ma tutti di piccola dimensione, onde non imbarazzare gli animali nelle marce attraverso le folte foreste dell’interno.
I due dahomeni, ai quali era stato affidato l’incarico di occuparsi dei cavalli recanti il bagaglio della spedizione, erano due negri di alta statura, dall’aspetto intelligente, d’una robustezza a tutta prova; due uomini insomma che dovevano rendere dei preziosi servigi nelle selvagge regioni del loro paese.
Avevano accettato di buon grado di assumersi la pericolosa missione di condurre i due bianchi nel Dahomey e si erano mostrati soddisfattissimi delle promesse fatte dai loro nuovi padroni; di renderli cioè più tardi liberi, con un buon gruzzolo di denari e delle armi.
Prima che il sole s’alzasse dietro i grandi boschi dell’oriente, la carovana si trovava già lontana da Porto Novo, diretta al piccolo gruppo di capanne dove era stata lasciata l’amazzone, essendo intenzione di Alfredo di condurre con sè anche la giovane negra, sulla cui affezione sapeva ormai di poter contare completamente.
Nessuna spia pareva che li avesse seguìti, non avendo scorto alcun negro nè lontano, nè vicino, sul sentiero che percorrevano. Il capo però non si illudeva e conoscendo la prudenza e l’agilità di quei selvaggi figli dei boschi, era più che certo di essere stato seguìto, quantunque nulla indicasse che in realtà lo si tenesse d’occhio.
— Temi sempre? — chiese ad un tratto Antao, vedendo l’amico volgersi di frequente indietro.
— Sì, — rispose Alfredo.
— Pure non si vede nessuno.
— Sul sentiero è vero, ma nei boschi?... Se noi li frugassimo troveremmo di certo qualcuno di quegli spioni. I negri sono caparbi e poi i dahomeni hanno troppa paura di Geletè, ma noi li stancheremo.
— Andiamo verso la frontiera degli Ascianti?...
— Sì, Antao, ed entreremo nel Dahomey attraversando la regione dei Krepi o dei Togo. La frontiera del sud deve essere guardata dagli uomini di Kalani.
— Saremo costretti a fare un viaggio lungo.
— Quando avremo attraversato le lagune del Piccolo e del Grande Popo viaggeremo rapidamente. Per ora non dobbiamo mostrare d’aver fretta, per non destare sospetti nelle spie che ci seguono, ma quando avremo la certezza di averle stancate o rassicurate sulla nostra direzione, lanceremo i cavalli al galoppo dall’alba al tramonto. Toh!... Hai udito?...
— Un fischio in mezzo al bosco?...
— Sì, Antao. È un richiamo dei negri che ci seguono.
— È vero, padrone, — confermò Asseybo. — Solamente quelli del Dahomey sanno fischiare in tal modo.
— Come manderei volentieri una palla nel cranio di quegli spioni. È noioso viaggiare sapendosi seguìti da persone che possono giuocarci delle brutte sorprese.
— Oh!... Delle sorprese ce ne prepareranno, ma sapremo evitarle. Non oseranno però assalirci direttamente, credi a me. Hanno troppa paura dei fucili degli uomini bianchi. Orsù, al galoppo e cerchiamo di mantenerli lontani finchè andiamo a prendere l’amazzone. —
I piccoli ma vivaci cavalli, eccitati dai cavalieri e dai due schiavi partirono al galoppo, sfilando in mezzo alle folte foreste che si estendevano ai due lati del sentiero.
Tre quarti d’ora dopo la carovana giungeva al piccolo villaggio che ospitava la povera negra. Questa nel vedere ricomparire Alfredo ed il portoghese, manifestò la più sincera contentezza e apprendendo che la conducevano con loro, si dichiarò pronta a mettersi in sella, quantunque le sue dolorose ferite non avessero ancora cominciato a cicatrizzarsi. Alfredo si guardò bene però dall’accettare quell’offerta, che poteva costare la vita alla coraggiosa ragazza.
Fece acquisto di nuovi cavalli, fece improvvisare una comoda barella stendendovi sopra un materassino acquistato a Porto Novo, lo fece legare ai due cavalli posti l’uno dietro l’altro, e dopo d’aver disinfettate e fasciate nuovamente le ferite, vi fece adagiare la negra. Per colmo di precauzione la fece riparare da un’arcata di grandi foglie di banano per preservarla dai colpi di sole, i quali, come già fu detto, sono pericolosissimi in quelle regioni.
A mezzodì, dopo una modesta refezione, la carovana abbandonava l’ospitale villaggio, e attraversato a guado l’Ouzme, scendeva verso le umide e malsane regioni della Costa per girare le sponde settentrionali della grande laguna di Nokue e raggiungere quindi le rive del canale costiero che si prolunga fino al lago di Togo.
Il caldo era intenso, ma le foreste erano fitte e proteggevano la carovana dai raggi solari. Regnava però sotto quei grandi alberi, di cui alcuni avevano delle proporzioni smisurate, un’aria da serra calda che faceva zampillare il sudore da tutti i pori, quantunque i due bianchi si fossero sbarazzati di buona parte delle loro vesti.
Pure che potenza di vegetazione fra quella temperatura ardente!... Dappertutto si slanciavano in alto tronchi d’ogni dimensione e d’ogni tinta, che confondevano poi i loro rami e le loro foglie smisurate a cinquanta, a sessanta e perfino a cento piedi dal suolo.
Miriadi di liane, formanti splendidi festoni e di piante arrampicanti adorne di grappoli di fiori esalanti penetranti profumi, li avvolgevano, salendo fino alle più alte cime, per poi ridiscendere e quindi risalire di nuovo.
Di sotto a quelle piatte colossali, altre ne erano spuntate occupando tutti i più piccoli tratti di terreno, confondendo i loro rami od i loro tronchi. Meno vivificate dall’aria e dal sole, si erano mantenute tuttavia ad altezze più modeste, formando una selva inferiore, la quale intercettava completamente i pochi raggi che potevano penetrare attraverso la prima vôlta di verzura.
Strani rumori echeggiavano in mezzo a quegli oscuri recessi della doppia foresta, dovuti per lo più alle numerose tribù di scimmie che l’abitavano. Di tratto in tratto era uno scoppio di formidabili urla che risuonavano come degli hu-u!... lanciati dalle scimmie mangabe, le quali posseggono tali polmoni da fare udire i loro concerti a parecchi chilometri di distanza; od uno scoppio di ruggiti paurosi che si sarebbero potuti scambiare per quelli emessi da una banda di leoni in furore, e che invece erano lanciati dai cinocefali, bruttissimi e pericolosissimi quadrumani; oppure erano urla lamentevoli, tristi, o grida acute, o latrati, o strida prolungate dovute ai colobo orsini, od ai satanassi, od ai cefi, scimmie molto comuni nelle folte foreste della Costa d’Avorio.
La carovana però non s’inquietava di tutti quei concerti scordati e proseguiva la sua marcia sfilando in mezzo a sentieri strettissimi aperti fra’ boschi e che Asseybo conosceva, essendosi più volte già recato nelle piccole repubbliche del Grande e del Piccolo Popo.
La regione che attraversava era deserta, essendo la Costa d’Avorio poco popolata in proporzione alla sua immensa estensione ed anche perchè i popoli si sono tutti addensati in prossimità del mare, per tenersi lontani dalle irruzioni che i dahomeni fanno annualmente per provvedersi di prigionieri da trucidare nelle feste del sangue.
Qualche piccolo gruppo di capanne talora appariva, ma nascosto nel più folto della grande foresta e lontano dal sentiero. Quelle piccole abitazioni di paglia o di foglie erano per lo più situate in prossimità dei macchioni delle palme d’elais o dei banani o dei cocchi, piante che somministrano il necessario per vivere a quei frugali abitanti.
Verso le 4 la carovana, che aveva marciato costantemente, giungeva in mezzo ad una vera foresta di bellissimi alberi che portavano dei grappoli di frutta della forma di un cetriolo.
— Ecco qui una foresta che sarebbe la fortuna d’una tribù di negri, — disse Alfredo, che cavalcava a fianco di Antao.
— Cosa sono queste piante?... — chiese il portoghese.
— Noci di calla o meglio bassè come qui si chiamano.
— Ho udito parlare delle proprietà sorprendenti di quelle frutta, ma non so cosa siano.
— Sono noci molto pregiate infatti e che sono oggetto d’un grande commercio in queste regioni. Quelle capsule legnose contengono dieci o dodici frutta di color rosso e grosse come le nostre castagne le quali, dopo raccolte, si mettono in ceste ripiene di foglie per conservarle fresche a lungo.
— Ma che proprietà hanno?
— Della coca del Perù, poichè masticandole conservano meravigliosamente le forze agli uomini che intraprendono dei lunghi e faticosi viaggi. Ci sono dei negri che con poche di quelle frutta vivono dieci e perfino quindici giorni, senza indebolirsi per la mancanza d’altri cibi.
— Sono eccellenti?
— Sono d’un sapore amaro, ma non sgradevole. So che anche in Europa si cominciano ad adoperare per fare delle infusioni che chiamano liquori di noce di kalla invece di galla o di calla come chiamansi qui.
— E quei bellissimi arbusti, d’aspetto grazioso che sorgono laggiù, cosa sono?...
— Platanieri, altre piante che sono molto pregiate qui. Somministrano delle frutta buonissime e sostanziose e dalla corteccia abbruciata i negri ricavano una potassa che serve a fare del sapone pregiato.
Anche le foglie sono adoperate per conservare le provvigioni, avendo la proprietà di tenere lontani i topi i quali sono così numerosi nei villaggi dei negri.
— E troveremo anche dei baobab?... Sono impaziente di vedere questi colossi delle foreste.
— Ne vedrai delle centinaia, Antao. Qui sono abbastanza comuni. —
In quell’istante un grido strano, che terminava in un fischio acuto e che si poteva tradurre per un uiff prolungato, echeggiò nel più folto della foresta, due o trecento passi più innanzi.
I cavalli, colpiti da un improvviso terrore, si erano subito arrestati, mandando dei sordi nitriti e serrandosi gli uni addosso agli altri.
— Cosa c’è? — chiese Antao, senza però manifestare alcuna apprensione.
— C’è, — rispose Alfredo che aveva staccata rapidamente la carabina sospesa agli arcioni, — che abbiamo un vicino pericoloso, mio caro.
— Delle scimmie?...
— Peggio, Antao: un rinoceronte.
— Morte di Nettuno!... Si dice che simili animali sono formidabili.
— Preferirei trovarmi dinanzi ad una coppia di leoni che ad uno di quei massicci ed invulnerabili animalacci. Hanno una pelle così grossa, da sfidare le palle delle migliori carabine.
— Pure non possiamo arrestarci qui.
— Andremo innanzi a dispetto di quel disturbatore, Antao. Asseybo!...
— Padrone, cosa desideri? — chiese il servo che era disceso da cavallo e che si era inoltrato nella foresta, per cercare di scoprire il pericoloso animale.
— Lo vedi?...
— No, padrone, e credo che siamo stati corbellati.
— Cosa vuoi dire?
— Che quel grido non era d’un rinoceronte.
— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — Questa è strana!...
— Spiegati, Asseybo, — disse Alfredo.
— Dico che qualcuno ha voluto imitare il grido del rinoceronte.
— Ma a quale scopo?...
— Forse per spaventarci. Se l’animale ci fosse, a quest’ora avrebbe caricata la nostra carovana.
— Credo che tu abbia ragione, — disse il cacciatore, che era diventato pensieroso. — Tu hai cacciato più volte i rinoceronti e sei in grado di conoscere meglio di me il loro grido.
— Sì, e ti dico che quel uiff è stato imitato molto bene.
— Che sia stato qualche segnale? — chiese Antao.
— È possibile, — rispose Alfredo. — La conclusione è questa: noi siamo seguìti.
— Da chi?...
— Dalle spie di Kalani.
— Morte di Urano!... Ancora?... Sono come le mignatte quelle canaglie.
— Bah!... Si stancheranno. Andiamo innanzi e teniamo pronte le armi.—
La carovana riprese le mosse, quantunque il sole scendesse rapidamente e l’oscurità cominciasse ad addensarsi sotto le foreste.
Non era prudente accamparsi in piena selva con delle spie alle calcagna e forse dei feroci animali vicini e Asseybo voleva condurre il padrone in un luogo scoperto, in una radura. I cavalli si erano tranquillizzati, tanto più che quel grido non si era più ripetuto ed avanzavano rapidamente, come se fossero impazienti di lasciare quei folti macchioni che potevano celare delle insidie.
Già i carnivori cominciavano a lasciare i loro covi per cominciare le loro caccie notturne e si facevano udire, facendo tremare i poveri animali. Di tratto in tratto, nelle macchie più fitte, dove la luce morente dell’astro diurno non penetrava, si udivano dei sibili lamentevoli lanciati forse dai grossi serpenti pitoni, od i sordi miagolii dei serval o gatti delle selve, grandi distruttori di selvaggina; o le rauche urla dei sanguinari leopardi o le stridule e beffarde risa delle iene macchiate o brune o le urla lamentevoli, tristi, paurose, dei lupi striati, animali che si avvicinano molto agli sciacalli, ma che hanno anche molto del lupo.
Crescendo l’oscurità, Alfredo raddoppiava le sue precauzioni, avendo da temere gli uomini e le fiere. Asseybo si era messo alla testa della carovana, Antao si era collocato presso la lettiga dell’amazzone per essere pronto a difenderla ed il cacciatore si era messo alla coda coi due dahomeni i quali erano stati armati di ottimi fucili, avendo detto di sapere adoperare le armi da fuoco.
Alle otto, quando nell’aria cominciavano a svolazzare quei brutti cinonitteri delle palme o cani notturni, la carovana lasciava i macchioni e giungeva in mezzo ad una vasta radura dove s’innalzava un gruppo di colossali sicomori.
— Possiamo accamparci con piena sicurezza, — disse Alfredo. — Se qualcuno cercherà d’avvicinarsi, potremo facilmente scorgerlo.
I cavalli furono radunati attorno ai sicomori, le casse scaricate e disposte all’ingiro onde nel caso d’un attacco servissero da barricata e le tende rizzate, mentre i due dahomeni accendevano due falò per tenere lontane le fiere e per allestire la cena.