La Costa d'Avorio/28. Il ritorno di Gamani

28. Il ritorno di Gamani

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Capitolo XXVIII

Il ritorno di Gamani


Tre giorni erano trascorsi dalla partenza del corriere di Ghating-Gan e del padre di Urada senza che più alcuna notizia fosse giunta ai due europei. Pareva che Geletè fosse troppo occupato nei preparativi della festa dei costumi per pensare all’ambasciata dei capi del Borgu e che il vecchio negro avesse trovato o dei gravi ostacoli, o nessun messaggero da fidarsi per mandare sue nuove.

Alfredo, le cui inquietudini aumentavano, non sapendo a che cosa attribuire quei ritardi e temendo sempre una sorpresa da parte dell’astuto Kalani, aveva proposto al cabecero di mandare degli altri corrieri ad Abomey per indurre Geletè a decidersi a ricevere l’ambasciata, ma senza alcun risultato.

Non era prudente irritare il feroce monarca, il quale avrebbe potuto prendersela col cabecero e far tagliare, senza tante cerimonie, la testa ai messaggeri importuni. Era necessario attendere il suo beneplacito ed armarsi di pazienza.

La sera del quarto giorno però, quando Alfredo ed Antao, dopo d’aver cenato, si preparavano a coricarsi, videro un negro attraversare rapidamente la piazza, come se avesse temuto di esser visto dalle amazzoni che stavano di guardia dinanzi ai palazzi reali, e precipitarsi verso l’apatam.

Temendo che fosse qualche importuno, si erano alzati per farlo allontanare, quando il negro si gettò impetuosamente dinanzi ad Alfredo, dicendo con voce soffocata:

— Oh, mio padrone!... —

Il cacciatore, stupito, lo aveva prontamente afferrato per guardarlo in viso. Un grido, a malapena frenato, gli sfuggì:

— Gamani!... Tu!... Vivo ancora!... [p. 205 modifica]

— Sì, padrone, — rispose il negro, ridendo. — Il tuo fedele Gamani, che tu credevi morto fra le foreste dell’Ouzmè, la notte che fu incendiata la tua fattoria.

— Lave dell’Etna!... Gamani!... Ma chi ti ha mandato qui? Come hai saputo che noi ci troviamo a Kana?... Parla, spicciati!...

— Morte di Urano, Nettuno e di tutti i pianeti conosciuti ed ignoti!... — esclamò Antao. — Gamani!... Sei vivo o sei un’ombra?...

— Sono in carne ed ossa, padron Antao, — rispose il negro.

— Ma parla!... — esclamò Alfredo. — Non vedi che io muoio d’impazienza?... Chi ti ha mandato qui?...

— Un vecchio negro, padre di una amazzone che è con voi.

— Il padre di Urada!... — esclamarono Antao ed il cacciatore.

— Sì, sua figlia si chiama Urada.

— Ma eri ad Abomey?... — chiese Alfredo.

— Sì, padrone.

— Schiavo di Kalani, forse?...

— Sì, ma addetto al tempio dei serpenti e dei feticci.

— E di mio fratello, cos’è accaduto?... Parla, parla, Gamani!

— È vivo e porto i suoi saluti a te ed al padrone Antao.

— Ah!... Bravo piccino!... — esclamò il portoghese che era vivamente commosso. — Si è ancora ricordato di me!...

— Siedi, Gamani, — disse Alfredo, spingendo innanzi una cassa. — Tu mi sembri assai stanco.

— È vero, padrone. Ho percorso le tre leghe che separano Kana dalla capitale, quasi tutte d’un fiato, per tema di venire ripreso e sono sfinito. —

Antao sturò una bottiglia di ginepro, riempì una tazza e gliela porse, dicendogli:

— Bevi questo, poi parlerai. —

Il negro tracannò d’un colpo solo il forte liquore, poi riprese:

— Ho molte cose da raccontare. Sappi innanzi a tutto, padrone, che tuo fratello sta bene e che non corre alcun pericolo, essendo sotto la protezione del re e dei sacerdoti. Egli è diventato una specie di feticcio che lo mette al coperto dalle vendette di Kalani.

— Sa ormai che noi siamo qui?... [p. 206 modifica]

— Sì, padrone e vi aspetta presto ad Abomey. Il padroncino è ben trattato, ma sospira il momento di abbandonare la sua prigione e di poterti abbracciare.

— Povero Bruno, — mormorò Alfredo, con commozione. — Quali terribili momenti avrà passati, nelle mani di quei barbari.

— E Kalani? — chiese Antao.

— È sempre potente e gode la fiducia di Geletè e di Behanzin, il futuro re del Dahomey. Si può dire che tutti tremano dinanzi a lui.

— Si vede che nel Dahomey i bricconi fanno fortuna, — disse Antao. — Se i miei affari andranno male, diverrò un furfante e verrò qui.

— Ma perchè Kalani ti ha risparmiato? — chiese Alfredo.

— Non lo so, padrone, ma forse per dare un compagno a tuo fratello. Non è il padroncino che Kalani odia, ma te e lo ha rapito solamente per poter averti nelle mani.

— Lo avevo sospettato. Quel miserabile era certo che io sarei venuto nel Dahomey.

— Sì ed aveva mandato numerosi drappelli di soldati verso le frontiere meridionali, per farti sorprendere ed imprigionare.

— Ed ora, spera ancora di vedermi giungere?...

— Lo teme sempre. Sente per istinto che un giorno o l’altro tu gli piomberai addosso e vive in continue inquietudini. Sa che tu non sei uomo da lasciargli nelle mani il padroncino.

— I suoi soldati, la notte che ci tesero un agguato sulle rive dell’Ouzmè, ti sorpresero sul sicomoro?...

— Sì, padrone. Avevano circondato l’albero in venti o trenta, minacciando di fucilarmi come fossi un pappagallo. Ne ammazzai due, ma poi dovetti discendere per non farmi fracassare le ossa.

Fui legato e condotto verso la laguna, da dove assistetti, impotente, alla distruzione della tua fattoria ed al rapimento di tuo fratello.

— Ha fatto altri prigionieri, Kalani?...

— Nessuno altro.

— Ma come hai conosciuto il padre di Urada?...

— Avendo saputo che io ero un servo di tuo fratello, dopo d’aver ottenuto il permesso di entrare nella casa dei feticci, ieri venne a trovarmi e mi parlò di voi. Dapprima non lo credetti, anzi sospettai un tranello, ma ben presto mi persuasi della verità delle sue parole e tramammo la mia fuga. [p. 207 modifica]

Non essendo io strettamente sorvegliato come tuo fratello, potei uscire dalla capanna dei feticci e abbandonare la città prima che i sacerdoti se ne fossero accorti.

— E quali notizie rechi da parte del vecchio negro?

— Buone per noi. Domani mattina giungerà il recade del re ed una scorta per condurvi ad Abomey. Sembra che a Geletè prema di farvi assistere alle feste dei costumi e che accetti di buon grado le vostre proposte.

— Cioè quelle dei capi del Borgu, — disse Antao, ridendo.

— Ancora poche domande, poi ti lascerò riposare, — disse Alfredo.

Poi incrociando le braccia e guardandolo fisso, gli chiese con voce sibilante:

— Credi che io lo possa uccidere?...

— Kalani?... — chiese il negro.

— Sì, lui!...

— Bada, padrone. Kalani è potente quasi quanto Geletè.

— Ti dico che non lascerò il Dahomey se non l’avrò ucciso.

— Sarà una cosa difficile, ma non impossibile.

— Potrò adunque vendicarmi di tutto il male che mi ha fatto e liberare la terra da quel mostro sanguinario?

— Sì, ma bisognerebbe approfittare della festa dei costumi, quando tutti sono ubriachi.

— Me lo ha detto anche il padre di Urada.

— So dove potremo sorprenderlo.

— E tu mi condurrai colà?...

— Sì, padrone; anch’io odio Kalani e sarei ben contento di ucciderlo, come il popolo di Abomey sarebbe lieto di vederlo morto. Egli è l’anima dannata di Geletè e di Behanzin.

— Sta bene: lo ucciderò, — disse Alfredo con accento terribile. — Ora puoi riposarti. —

Gamani, che non si reggeva quasi più, sfinito dalla lunga e rapidissima marcia, s’affrettò ad approfittare del permesso sdraiandosi su di una cassa.

Alfredo e Antao fecero il giro dell’apatam per accertarsi che la piazza era deserta, poi s’accomodarono anche essi fra le casse, vicino ad Urada.

L’indomani, ai primi albori, venivano svegliati dalla banda di Ghating-Gan, la quale si dirigeva verso la capanna facendo un fracasso tale da svegliare anche un sordo. [p. 208 modifica]

Questa volta però era preceduta non da quattro sole amazzoni, ma da una mezza compagnia ed era seguìta dal cabecero, da un inviato reale in alta tenuta, vestito di rosso e armato d’una spada coll’impugnatura d’oro e adorna del sigillo reale e da otto vigorosi negri i quali portavano due comode amache, riparate superiormente da una piccola tenda di cotone azzurro ed infioccata.

Ghating-Gan salutò, con maggiore deferenza del solito, i due ambasciatori, poi disse:

— È giunto un gran moce col recade. Siete attesi ad Abomey, dove verrete ricevuti cogli onori che spettano alla vostra posizione di ambasciatori d’una nazione potente e guerresca. —

Il gran moce od inviato del re si fece allora innanzi, s’inginocchiò posando la fronte al suolo, dovendo parlare in nome del suo potente signore, poi disse:

— Do ai due ambasciatori il buon giorno in nome di S. M. Geletè e reco l’ordine di condurli tosto ad Abomey: attendo. —

Alfredo, per mezzo di Urada che serviva d’interprete, fece rispondere che ringraziava il grande monarca della decisione di ricevere l'ambasciata dei capi del Borgu, prima che avesse luogo la festa dei costumi, ma che prima di partire chiedeva qualche ora di tempo per preparare le sue casse, pregando il gran moce di attenderlo al palazzo reale.

— Sono agli ordini degli ambasciatori del Borgu, — rispose il moce.

Ad un suo cenno le amazzoni, la banda musicale ed il seguito abbandonarono l’apatam per attendere l’ambasciata dinanzi al palazzo reale.

— Ma perchè questo ritardo?... — chiese Antao ad Alfredo quando furono soli.

— Dimentichi Gamani?... — rispose il cacciatore. — Se lo conduciamo con noi sarebbe finita per l’ambasciata, poichè Kalani non tarderebbe a riconoscerlo.

— Cosa vuoi farne di lui?...

— Trasformarlo in un magnifico borgano. Gamani ci è necessario, conoscendo ormai le abitudini di Kalani e la capanna dei feticci che serve di prigione al mio piccolo Bruno. Affrettiamoci, poi partiremo. —

Mentre i due dahomeni cominciavano a caricare le casse sui cavalli, Alfredo prese i suoi vasetti di colore ed in pochi minuti [p. Imm modifica] [p. 209 modifica]depose sulla pelle rossastra del suo servo un bello strato di nero intenso, poi appiccicò sul viso del fedele servo una lunga barba nera.

Attese che la tinta fosse bene asciutta, poi ordinò a Gamani di indossare un paio di calzoni rossi fiammanti, di stringersi le reni con una larga fascia di seta gialla e di gettarsi sulle spalle un grande mantello bianco infioccato e adorno di rabeschi rossi. Un ampio turbante, che gli nascondeva mezzo viso, bastò per completare la trasformazione.

— Credo che nessuno più lo riconoscerà, — disse ad Antao, guardando con viva soddisfazione il negro.

— Stava chiedendomi da dove era sbucato quest’uomo, — rispose il portoghese. — È assolutamente irriconoscibile e potrà avvicinare Kalani senza tema di venire riconosciuto. Ma tu sei un vero artista.

— Se non lo fossi non sarei italiano, — rispose Alfredo. — Siete pronti?

— È tutto caricato, — dissero Urada ed i due schiavi.

— Partiamo. —

Alfredo ed Antao salirono a cavallo, la giovane amazzone e Gamani aprirono i due grandi ombrelli a smaglianti colori e la piccola carovana si diresse verso il palazzo reale, destando coi suoi costumi pittoreschi, l’ammirazione della folla che gremiva la piazza.

L’orchestra diede fiato ai suoi istrumenti con un crescendo spaventoso, mentre le amazzoni, schierate su due file, presentavano le armi all’ambasciata, con un insieme ammirabile, facendo poscia due scariche in aria.

Il gran moce pregò gli ambasciatori di scendere dai loro cavalli e di prendere posto nelle due amache inviate loro dal re onde non si affaticassero durante il viaggio, poi diede il segnale della partenza.

Il drappello, scortato da otto amazzoni e seguìto da Urada, Gamani e dai due schiavi che conducevano i cavalli, si pose in marcia fra le grida della popolazione ed il fracasso dell’orchestra.

Attraversata la città fra due fitte ali di popolo plaudente, prese la via reale di settentrione, la quale corre, quasi diritta, fino alla capitale del regno.

Alfredo ed Antao, comodamente sdraiati nelle loro amache [p. 210 modifica]che i portatori sostenevano, avevano accese le loro sigarette e fumavano beatamente scambiando qualche parola con Urada o con Gamani che si erano collocati ai loro fianchi.

La via reale era davvero bellissima, larga tanto da permettere il passaggio a otto cavalli di fronte, ma composta d’una specie di minerale granuloso e rossastro che doveva stancare straordinariamente i portatori al pari dei terreni sabbiosi o ghiaiosi.

Una doppia fila di splendidi palmizi, la ombreggiava mentre al di là si estendevano immense pianure coperte da un’erba alta assai e fitta e da gruppi d’alberi, per lo più palme d’elais. Qualche volta però si vedeva giganteggiare anche la mole imponente d’un baobab.

Il drappello procedeva rapido, malgrado la pessima qualità del terreno. I portatori, uomini robustissimi ed abituati alle lunghe marcie, si avanzavano quasi correndo, scambiandosi di mezz’ora in mezz’ora.

Ben presto la regione, che dopo Kana era diventata deserta, cominciò ad apparire popolata. Sparsi sui pendii di quei grandi scaglioni o sugli altipiani, si vedevano popolosi villaggi e di quando in quando qualche forte costruito con grossi terrapieni e con alte e robuste palizzate. Probabilmente quei recinti fortificati dovevano guardare le vie che dall’est e dall’ovest mettevano capo alla capitale.

I portatori, giunti sull’ultimo altipiano, dopo una faticosa salita durata quasi tre ore, segnalarono Abomey, i cui bastioni di terra rossastra si disegnavano nettamente, a meno di due miglia. Urada, che si trovava presso all’amaca d’Alfredo, mostrò a questi una costruzione che doveva essere gigantesca e che s’alzava in mezzo alle cinte bastionate.

— Cos’è? — chiese il cacciatore, con una certa emozione.

— Il palazzo del re, — rispose Urada.

— Credevo che fosse quello dell’uomo che odio.

— Non si troverà lontano, padrone.

— Credi, Urada, che quell’uomo si troverà presente, quando verremo ricevuti dal re?...

— Sì, purchè si trovi ancora in città.

— Temi che non vi sia?...

— L’alta sua carica lo avrà forse costretto ad occuparsi dei prigionieri destinati alla festa dei costumi, e può aver lasciata momentaneamente la capitale per radunarli. [p. 211 modifica]

— Sarei ben contento, per ora, di non trovarmi dinanzi a lui. L’idea che possa riconoscermi, malgrado io sia pronto a tutto, mi fa gelare il sangue nelle vene.

— Sei irriconoscibile, padrone, e poi sono alcuni anni che non ti ha più veduto.

— È vero, Urada. —

I portatori ed il gran moce acceleravano allora il passo per giungere in città prima del pasto del mezzodì. La via reale era diventata piena, essendo aperta sull’altipiano, in mezzo ad una immensa prateria disseminata di gruppi considerevoli di capanne e di capannucce, le quali formavano i sobborghi della capitale.

Di tratto in tratto s’incontravano bande di soldati armati di fucili e di coltellacci, che traevano in città qualche drappello di schiavi destinati probabilmente alla festa dei costumi. Tutti quei disgraziati tenevano in bocca il tormentoso bavaglio di legno ed avevano gli occhi schizzanti dalle orbite. Certamente non ignoravano a quale terribile sorte eran stati votati.

Di passo in passo che Antao ed Alfredo s’avvicinavano alla capitale del temuto Geletè, le tracce delle sue orrende carneficine divenivano più numerose.

Pareva che i dintorni della città fossero diventati un immenso cimitero, messo sossopra da un esercito di iene.

Sotto i più grandi alberi si vedevano a dozzine teschi di morti, poi stinchi, tibie e costole umane, poi scheletri interi non ancora ben ripuliti dal becco degli uccelli da preda e che esalavano nauseabondi odori. Erano gli avanzi dei poveri prigionieri sacrificati nelle feste e poi colà trasportati a pasto delle belve feroci e degli avvoltoi.

Qualche scheletro si vedeva perfino inchiodato al tronco degli alberi ed Alfredo ed Antao ne videro uno, di alta statura, crocifisso sul tronco d’una palma con tre lunghe zagaglie e che teneva legato ai polsi un ombrello di cotone, simile a quello che adoperavano i missionari della costa, ed un paio di scarpe.

Probabilmente quel martire era stato sorpreso dalle guardie di Geletè mentre cercava di convertire alcuni abitanti e trattato in quel barbaro modo per ordine dello stesso re, facendogli appendere, per amara derisione, le scarpe, distintivo degli uomini bianchi e dei liberi negri della Repubblica di Liberia.

A duecento passi dalla capitale il drappello fu incontrato da un gran moce e da due cabeceri, scortati da due dozzine di [p. 212 modifica]amazzoni in pieno assetto di guerra. Venivano a salutare gli ambasciatori a nome di Geletè e per guidarli nell’abitazione a loro assegnata.

Cinque minuti dopo facevano la loro entrata nella capitale del sanguinario monarca.