La Costa d'Avorio/27. Il cabecero Ghating-Gan
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Capitolo XXVII
Il cabecero Ghating-Gan
Ghating-Gan era un uomo sulla quarantina, di forme robuste, quasi atletiche, dalla fisonomia dura, arcigna, quasi feroce, ma anche astuta, con gli occhi piccoli, neri, penetranti.1
Per la circostanza aveva indossato una specie d’ampio mantello di cotonina rossa, annodato alla spalla sinistra e che gli scendeva fino ai piedi e si era adornati i polsi di braccialetti d’oro e d’argento, mentre al collo si era appesa la grossa collana regalatagli da Alfredo.
Alla cintura di lana rossa portava quattro code di cavallo, distintivo di grande importanza del Dahomey, e che solo il re può concedere ai suoi più fidati e più grandi personaggi del regno.
Vedendo gli ambasciatori mosse loro incontro, li salutò con molta grazia, giungendo dapprima le mani, poi avvicinandole al viso e finalmente allungandole sul petto. Alfredo ed Antao credettero bene d’imitarlo, guardandosi dallo stendergli la mano per non tradirsi.
Scambiato così il saluto, Ghating-Gan li invitò a seguirlo nel palazzo reale e li condusse in una vasta sala, certamente in quella del trono, decorata di grandi parasoli di tutti i colori e di tutte le specie, adorna di idoli strani rappresentanti mostri d’ogni forma e dinanzi ai quali erano state deposte delle offerte consistenti in bottiglie di liquori ed in collane di cauris. In un angolo vi era il trono di Geletè, un seggiolone enorme che un tempo doveva aver servito a qualche teatro europeo, ricco di fregi e di dorature e collocato su di un’alta piattaforma coperta di vecchi tappeti scoloriti.
Ghating-Gan invitò gli ambasciatori a sedersi su alcuni sgabelli che erano allineati dinanzi alla piattaforma, poi fece servire loro una bottiglia di un certo liquore limpido e spumante che portava la marca dello champagne, ma che doveva essere invece abbominevole miscela di gin, di sidro e di vetriolo. Il gran cabecero però doveva trovarlo squisitissimo, poichè ne tracannò lui solo più di mezza bottiglia.
Bagnata la gola, Alfredo ebbe la parola ed espose, in lingua uegbè, lo scopo dell’ambasciata. Si trattava di proporre a Geletè, da parte dei capi del Borgu, una alleanza offensiva e difensiva contro i bellicosi Yoruba che devastavano incessantemente le frontiere dei due Stati con disastrose scorrerie, unitamente ad un trattato di commercio. Alfredo, che parlava come un vecchio diplomatico, asseriva che un simile trattato sarebbe stato d’immenso giovamento ai due Stati confinanti e che i Borgani avrebbero prestato man forte a Geletè anche contro le incessanti invasioni della razza bianca, marea pericolosa che poteva, col tempo, compromettere l’indipendenza del Dahomey.
Aggiungeva poi che era incaricato di portare doni di molto valore al re Geletè da parte dei più cospicui capi del Borgu ed altri doni pei grandi cabeceri, onde cooperassero alla buona riuscita dell’ambasciata.
Quand’ebbe terminato di esporgli lo scopo della sua missione, Ghating-Gan fece portare una bottiglia di ginepro, avendo l’abitudine gli africani di non cominciare le loro palabre, ossia conversazioni d’importanza, se prima non si sono ben bagnata l’ugola, poi disse:
— Ciò che chiedono i capi del Borgu è giusto e lo credo un buon affare anche pel nostro re, il quale conta più nemici che amici. Le genti del Dahomey sono fiere e non temono alcuno, ma sanno pure che sono fiere anche le popolazioni del Borgu e saranno liete di combattere insieme i Yoruba del Benin, tanto più che noi siamo già scarsi di prigionieri di guerra da sacrificare nelle feste dei costumi.
Gli antenati di Geletè diventano sempre più esigenti e chiedono più vittime e siamo ora costretti a sacrificare anche i nostri stessi sudditi per placare le loro ire. Già tre volte quest’anno la terra tremò scuotendo perfino le tombe reali e due volte il fulmine celeste è caduto sulle capanne di Abomey e ciò significa che i monarchi passati nell’altra vita, non sono soddisfatti.
I capi del Borgu possono quindi essere certi di poter concludere il trattato d’alleanza che propongono, ma i loro ambasciatori dovranno attendere la fine della festa dei costumi, non potendo il nostro re occuparsi per ora di un così importante affare. In questi giorni è occupato, coi sacerdoti, nei preparativi e nelle preghiere.
— Sia pure, — rispose prontamente Alfredo, — ma noi vorremmo venire presentati a S. M. Geletè prima che le grandi feste comincino, rimandando ben volentieri la conclusione del trattato a più tardi.
— Ah!... — esclamò Ghating-Gan, sorridendo. — Voi siete curiosi di assistere alle nostre grandi feste!
— È vero, — disse Alfredo.
— Io credo che il nostro re avrà piacere di avervi al suo fianco.
— Lo farete avvertire del nostro arrivo a Kana?...
— Quest’oggi stesso gli manderò uno dei miei corrieri, onde farvi ottenere un recade che vi permetta di proseguire il cammino per la capitale.
— Dovremo attendere molto?...
— Il re non prende mai, lì per lì, alcuna decisione. Trattandosi di ricevere un’ambasciata, farà prima radunare i grandi del regno ed i principi di sangue reale per consigliarsi, quindi io credo che non potrete partire prima di otto giorni. In questo frattempo però sarete miei ospiti nel palazzo reale.
— Grazie, gran cabecero, — disse Alfredo, — ma noi preferiamo alloggiare sotto l’apatam. Io e mio fratello siamo assai amanti della caccia e sapendo che i dintorni di Kana sono ricchi di selvaggina, rimarremo sotto la tettoia onde poter alzarci a qualunque ora della notte, senza importunare le vostre genti.
— Fate come volete, ma non rifiuterete i miei viveri ed alcuni schiavi per servirvi.
— Accettiamo di cuore i viveri, ma per gli schiavi sono inutili avendo i nostri, i quali conoscono meglio le abitudini dei loro padroni. —
Ciò detto prese dalle mani di Urada un cofanetto d’acciaio cesellato e lo porse al gran cabecero, dicendo:
— È per S. M. Geletè e contiene i regali dei capi del Borgu.
— Ghating-Gan impegna la sua parola che saranno consegnati al re a nome dell’ambasciata, — rispose il cabecero.
Offrì ancora da bere, poi si alzò. Alfredo comprese che la palabra era terminata e si affrettò ad imitarlo. Scambiarono nuovamente il saluto, poi l’ambasciata uscì e fece ritorno all’apatam, sempre preceduta dalla banda musicale e da una folla di curiosi.
Appena entrati, le quattro amazzoni intimarono minacciosamente alla popolazione di allontanarsi, tale essendo l’ordine del gran cabecero, poi ricondussero l’orchestra ed i poeti nel palazzo reale.
— Auff!... — esclamò Antao, appena si trovarono soli. — Ero arcistucco di dover fare la parte del muto e se la durava ancora un po’, mi sfuggivano di bocca tutti i pianeti del firmamento.
— Per farci tradire, — disse Alfredo. — Guardati dal commettere simili imprudenze, in questo regno di barbari.
— Cosa vuoi?... I pianeti sono la mia passione.
— Sì, burlone.
— Ora però spero di poter mettere in opera la mia lingua.
— Parla finchè vuoi.
— Allora permettimi una domanda.
— Venti se vuoi.
— Perchè hai rifiutato l’ospitalità del gran cabecero?... Saremmo stati più comodi nel palazzo reale che sotto questa catapecchia.
— È vero, Antao, ma non avremmo potuto ricevere il padre di Urada. Se l’avessimo fatto, il gran cabecero avrebbe potuto nutrire dei sospetti verso di noi.
— Hai ragione, Alfredo. Io sono sempre stato uno sventato, mentre tu eri nato per diventare un furbo diplomatico. Hai delle attitudini veramente meravigliose.
— Sviluppate col continuo contatto dei negri.
— Possibile che i negri siano diplomatici?
— E di gran lunga più astuti di quelli europei, Antao, te lo dico io. Toh!... Ecco delle provviste che giungono.
— È la colazione che c’invia il cabecero, — disse il portoghese. — Sia la benvenuta. —
Quattro schiavi preceduti da un’amazzone, s’avvicinavano all’apatam portando sul capo delle grandi ceste di vimini che sembravano molto pesanti.
Le deposero dinanzi alla capanna, poi s’allontanarono frettolosamente.
— Che lusso!... — esclamò Antao, che aveva fatto aprire i canestri. Oggi abbiamo anche del montone, del capretto e del tabacco. Lasceremo il canalu ai negri, ma attaccheremo questa carne tenera e deliziosa che sembra arrostita a puntino. Cosa ne dici, Alfredo?...
— Dico che tu cominci a diventare un ghiottone, Antao, — rispose il cacciatore.
— Pensa, amico, che durante la nostra lunga marcia non abbiamo mangiato che del pesce secco e del biscotto.
— E la tromba d’elefante, ed i pappagalli, e le scimmie?...
Briccone! Il profumo di questo quarto di montone arrostito ti atrofizza la memoria.
— Può essere, — rispose il portoghese con aria grave, accomodandosi davanti ad una cesta. — Orsù, attacchiamo!... —
Mentre i due dahomeni assalivano ingordamente il canalu, i due bianchi e Urada misero a sacco le ceste, facendo onore al montone, alle atrapas, ed alle frutta che innaffiarono con alcuni sorsi di ginepro.
Durante la giornata i due ambasciatori, o meglio Alfredo poichè Antao doveva fingersi muto dinanzi ai dahomeni in causa dei suoi pianeti diventati eccessivamente pericolosi in quel regno, ricevette la visita di parecchi dignitari, di cabeceri e di moce ossia di funzionari del re, i quali non miravano altro che a spillare cortesemente regali ai supposti principi del Borgu e possibilmente a vuotare le loro casse. Portavano in regalo qualche bottiglia di ginepro o di rhum imbevibile o qualche capretto, ma se ne tornavano con dei bei fazzoletti di seta rossa, o con delle cartucciere, o con dei braccialetti di rame dorato.
Fortunatamente le casse di Alfredo contenevano una grande quantità di quegli oggetti, ma doveva pensare anche ai capi, ai cabeceri, ai moce, ai corrieri reali di Abomey e più d’uno lo rimandava colla sua bottiglia, fingendo di non comprendere o facendo dire dai suoi uomini che dormiva o che stava pranzando.
Alla mezzanotte il padre di Urada, come aveva promesso, fece ritorno all’apatam. Recava la notizia che il corriere del cabecero era partito per la capitale, onde avvertire Geletè dell’arrivo dell’ambasciata.
— Sono contento di questa notizia, ma sono anche inquieto, — disse Alfredo.
— E per quale motivo? — chiese Antao, stupito.
— Sono parecchie ore che un timore mi tormenta.
— Quale?...
— Che Kalani sospetti dell’ambasciata.
— È impossibile, Alfredo.
— Egli mi attende ad Abomey. Sa che io non sono uomo da lasciargli nelle mani mio fratello.
— Diavolo!... — mormorò il portoghese. — Ciò può essere vero, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Penso però che siamo così bene dipinti, che nessuno potrebbe sospettare in noi degli europei. Tu poi, sei assolutamente irriconoscibile.
— Padrone, — disse Urada, — vuoi un consiglio?...
— Parla, ragazza, — disse Alfredo.
— Manda mio padre ad Abomey ad esplorare il terreno e ad informarsi di ciò che si dice su questa ambasciata.
— L’idea è bellissima, Urada, ma può tuo padre lasciare Kana?
— È libero e può andare dove gli piace senza chiedere il permesso a chicchessia.
— Io gli darò uno dei nostri cavalli e dell’oro. Può esserci molto utile nella capitale, può farci avvertire se Kalani ha dei sospetti su di noi e darmi anche notizie di mio fratello.
— E preparare ogni cosa per poterlo rapire, — aggiunse Urada. — Mio padre ha conservato delle amicizie in Abomey, può avvicinare dei dignitari del re e può quindi avere delle informazioni che possono esserti preziose.
— Accetterà il difficile incarico?...
— Mio padre farà tutto quello che desiderano i salvatori di sua figlia.
— Grazie, brava ragazza. Non ci eravamo ingannati sulla tua affezione. —
Urada espose al vecchio negro il desiderio degli uomini bianchi.
— Domani all’alba, parto, — rispose egli. — Gli uomini bianchi possono contare interamente su di me. —
Alfredo, lieto di quella risposta, fece bardare uno dei cavalli, consegnò al negro un gruzzolo d’oro che poteva scambiare in kauri ed una rivoltella con cinquanta cariche, arma che poteva essergli di grande aiuto nella pericolosa missione.
Alle due del mattino il negro dopo d’aver abbracciata Urada e stretta la mano ai due bianchi e d’aver promesso di far giungere ben presto sue notizie, lasciava l’apatam per recarsi nella capitale del Dahomey.
- ↑ Questo Ghating-Gan prese parte attiva anche nella guerra contro i francesi guidati dal generale Doods. Fu questo cabecero che fece arrestare, nel 1890, i negozianti francesi di Widhah, tenendoli prigionieri per novantatrè giorni, minacciando ad ogni istante di decapitarli e facendoli sovente maltrattare dai soldati.