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Il cabecero Ghating-Gan | 201 |
Offrì ancora da bere, poi si alzò. Alfredo comprese che la palabra era terminata e si affrettò ad imitarlo. Scambiarono nuovamente il saluto, poi l’ambasciata uscì e fece ritorno all’apatam, sempre preceduta dalla banda musicale e da una folla di curiosi.
Appena entrati, le quattro amazzoni intimarono minacciosamente alla popolazione di allontanarsi, tale essendo l’ordine del gran cabecero, poi ricondussero l’orchestra ed i poeti nel palazzo reale.
— Auff!... — esclamò Antao, appena si trovarono soli. — Ero arcistucco di dover fare la parte del muto e se la durava ancora un po’, mi sfuggivano di bocca tutti i pianeti del firmamento.
— Per farci tradire, — disse Alfredo. — Guardati dal commettere simili imprudenze, in questo regno di barbari.
— Cosa vuoi?... I pianeti sono la mia passione.
— Sì, burlone.
— Ora però spero di poter mettere in opera la mia lingua.
— Parla finchè vuoi.
— Allora permettimi una domanda.
— Venti se vuoi.
— Perchè hai rifiutato l’ospitalità del gran cabecero?... Saremmo stati più comodi nel palazzo reale che sotto questa catapecchia.
— È vero, Antao, ma non avremmo potuto ricevere il padre di Urada. Se l’avessimo fatto, il gran cabecero avrebbe potuto nutrire dei sospetti verso di noi.
— Hai ragione, Alfredo. Io sono sempre stato uno sventato, mentre tu eri nato per diventare un furbo diplomatico. Hai delle attitudini veramente meravigliose.
— Sviluppate col continuo contatto dei negri.
— Possibile che i negri siano diplomatici?
— E di gran lunga più astuti di quelli europei, Antao, te lo dico io. Toh!... Ecco delle provviste che giungono.
— È la colazione che c’invia il cabecero, — disse il portoghese. — Sia la benvenuta. —
Quattro schiavi preceduti da un’amazzone, s’avvicinavano all’apatam portando sul capo delle grandi ceste di vimini che sembravano molto pesanti.
Le deposero dinanzi alla capanna, poi s’allontanarono frettolosamente.