La Costa d'Avorio/26. Il padre di Urada

26. Il padre di Urada

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Capitolo XXVI

Il padre di Urada


Kanna o, meglio ancora Kana, come la chiamano gl’indigeni, per numero di abitanti è la terza città del regno avendone meno di Widah, ma viene considerata come la seconda pel titolo che gode, cioè di essere chiamata la Santa.

È situata sullo stesso altipiano ove giace Abomey da cui dista solamente tre leghe ed è composta di case dalle mura bianche, e raggruppate in diverse sezioni formanti altrettanti salam, ossia quartieri.

In questa città i re possedevano due vasti palazzi, distrutti più tardi dai francesi, di dimensioni colossali, ma più rassomiglianti ad immense caserme che a vere abitazioni reali e occupati ordinariamente da un corpo di trecento amazzoni, essendo esse sole destinate a vegliare sulla sicurezza della Città Santa. [p. 190 modifica]

Contava inoltre parecchi templi pieni di feticci, informi statue di legno alle quali gli abitanti offrivano collane di cauris, ossia di conchigliette bianche aventi valore come le nostre monete e bottiglie di liquori, ma il più celebre era il tempio destinato ai serpenti, dove si tenevano parecchie centinaia di ributtanti rettili che venivano nutriti colle carni di poveri schiavi o di prigionieri di guerra.

Il titolo di Città Santa le spettava perchè entro le sue mura si facevano ogni anno delle feste dei costumi, onde placare le collere dei feticci o dei re defunti.

Il re non vi si recava che in quell’occasione per dirigere in persona quei massacri spaventevoli, i quali si compivano innanzi alla capanna sacra, una piccola casetta quadrangolare costruita con fango secco, colle muraglie imbiancate e adorne di grossolane pitture di color rosso, rappresentanti animali fantastici e paurosi.

La carovana, mercè la guida che gridava a piena gola:

«Largo!... Ordine del re!...» fece la sua entrata in città senza subire alcun ritardo da parte delle amazzoni che vegliavano dinanzi ai malandati terrapieni circondanti la città, e si accampò sotto un apatam, specie di tettoia, situata di fronte ad uno dei palazzi reali e destinata ai forestieri d’alta distinzione.

Alfredo, dopo d’aver fatto disporre ogni cosa per passare alla meglio la notte, essendo troppo tardi per recarsi in persona dal gran cabecero che funzionava da governatore, chiamò il soldato che stava respingendo, con vigorose bastonate, alcuni negri che erano accorsi attirati dalla curiosità e postogli in mano uno stipo che doveva contenere dei regali, lo pregò di portarlo al capo della città, come primo presente dell’ambasciata.

— Credi che lo accetterà anche senza il consenso del re? — chiese Antao.

— Non dubitare, — rispose Alfredo. — Quel cofanetto contiene una grossa collana d’argento che mi costa un migliaio di lire ed il gran cabecero sarà ben lieto del regalo. In questi paesi sono tutti avidi.

— Conti di fartelo amico?...

— È necessario o dovremo attendere l’ordine del re per chissà quante settimane. Aggiungi poi che quel soldato ci era di troppo per questa notte. [p. 191 modifica]

— Cosa vuoi dire?...

— Che mi premeva sbarazzarmi di lui fino a domani.

— Per quale motivo?

— Perchè voglio vedere il padre di Urada. Se egli è vissuto alla corte di Geletè, può darmi dei preziosi consigli e narrarmi molte cose sul conto di Kalani.

— E ti fiderai di lui?...

— Urada dirà a lui chi siamo noi e cosa abbiamo fatto per sua figlia e poi, se è caduto in disgrazia, sarà ben contento di aiutarci contro Geletè e Kalani.

— Hai ragione, Alfredo, io però non oserei recarmi da lui. Se si accorgono che noi abbiamo delle relazioni con un uomo caduto in disgrazia, questi negri sospettosi potrebbero allarmarsi.

— Non saremo noi che andremo da lui, Antao. Urada è già partita ed a mezzanotte lo condurrà qui con le dovute cautele.

— Morte di Nettuno!... Sei più astuto d’un diplomatico!...

— Bisogna esserlo, specialmente in questo paese.

— E domani andremo a visitare il gran cabecero?...

— Sì, Antao.

— Speriamo di sbrigarci presto. L’aria del Dahomey è troppo pericolosa per noi.

— Appena fatto il colpo, fuggiremo senza più arrestarci.

— E da qual parte?...

— Attraverseremo il regno per raggiungere le frontiere orientali che sono le meno popolate e quasi sempre sprovviste di truppe. Più saremo lontani dalla capitale, meno avremo da temere e oltrepassato il fiume Sou potremo riderci dei furori di Geletè.

— E di Kalani.

— Oh!... Kalani allora non sarà più vivo, — disse Alfredo, con voce cupa. — Quell’uomo morrà presto.

— Ed io ti aiuterò a torcergli il collo, amico mio.

— Silenzio, Antao, non è prudente parlare qui di Kalani. Corichiamoci fra le nostre casse ed attendiamo il padre di Urada. —

Alfredo ed il portoghese stavano per coricarsi, quando videro tornare il soldato seguìto da quattro amazzoni armate di fucile e da sei negri quasi nudi che portavano dei grandi canestri.

Venivano da parte del grande cabecero, il quale, lietissimo del regalo ricevuto, mandava agli ambasciatori del Borgu una copiosa cena e due schiavi per servirli. [p. 192 modifica]

Alfredo fece deporre le ceste sotto la tettoia, regalò ad ognuna delle quattro amazzoni un fazzoletto di seta rossa, poi rimandò tutti dal cabecero dicendo di non aver bisogno di schiavi avendo i propri, ed incaricandoli di ringraziarlo della sua generosità.

Il soldato che li aveva guidati, desiderando forse di prendere parte alla cena, tentava di rimanere coi due ambasciatori, ma Alfredo, che voleva sbarazzarsi di quel pericoloso testimone, lo incaricò di portare al gran cabecero un altro regalo consistente in una fascia di seta verde ricamata in oro e per consolarlo della perdita del pasto, regalò a lui una cartucciera di pelle azzurra ed una libbra di polvere da sparo, ingiungendogli però di non ritornare che al mattino seguente.

Il capo della Città Santa si era mostrato generoso verso i due ambasciatori, segno evidente che la collana d’argento era stata assai gradita ed apprezzata.

Le ceste infatti contenevano tanti viveri da nutrire quaranta persone. Vi erano due pentole di canalu, dei polli, del bue arrostito, dei legumi, delle noci di calla, delle frutta, due bottiglie di ginepro d’importazione europea, delle zucche ripiene d’una specie di birra ottenuta col miglio fermentato e parecchie candele di sego.

In una cesta scoprirono perfino due scatole di sardine di Nantes, acquistate certamente dai negozianti francesi di Widdah, ma il caldo aveva ridotto il contenuto in tale stato, da riuscire sgradevolissimo ai palati europei.

Alfredo ed Antao fecero onore ai polli, al bue, alle frutta ed alla birra, ma abbandonarono il canalu ai due dahomeni, essendo talmente condito di pimento da non potersi inghiottire.

Vuotato un bicchiere di ginepro e accese le sigarette, si sdraiarono sulle casse in attesa di Urada e di suo padre.

La piazza era diventata deserta. Gli abitanti che dapprima ronzavano attorno alla tettoia attirati dalla curiosità, si erano tutti ritirati nelle loro case, forse dietro ordine del grande cabecero. Solamente dinanzi ai due palazzi del re vegliavano alcune amazzoni armate di fucili e di coltellacci, ma erano così lontane da non poter scorgere una persona che si fosse avvicinata alla dimora degli ambasciatori.

Verso la mezzanotte, Alfredo che si alzava di frequente guardando verso tutti gli sbocchi delle vie, scorse due ombre umane [p. Imm modifica] [p. 193 modifica]che si avanzavano lentamente e con precauzione, tenendosi presso le pareti delle capanne.

— Sono Urada e suo padre, — disse ad Antao.

— Benone! — mormorò il portoghese. — La notte è oscura e potremo riceverli senza che vengano scorti. —

Urada e suo padre si erano arrestati presso l’ultima capanna, come se avessero voluto prima accertarsi di non essere spiati, poi attraversarono velocemente la piazza e si cacciarono sotto la tettoia.

Alfredo mosse loro incontro e strinse ad entrambi la mani, poi li condusse fra le casse che erano state disposte in modo da formare un piccolo recinto, mentre i due schiavi dahomeni, dietro ordine del portoghese, si mettevano alle due estremità dell’apatam, onde impedire a qualsiasi persona d’avvicinarsi.

Il padre dell’amazzone era un bel negro d’alta statura, dai lineamenti quasi regolari, dalla pelle non nera, ma abbronzata con certe sfumature rossastre. Gli anni e forse anche il cruccio della sua disgrazia, gli avevano incanutiti i capelli e la rada barba che coprivagli il mento e coperta la fronte di profonde rughe.

I suoi occhi però, intelligentissimi e assai espressivi, erano ancora vivaci e ripieni di fuoco.

Appena sedutosi diede ad Alfredo e ad Antao il tradizionale saluto nella lingua del paese, Yevo oku, che significa: bianco buon giorno, saluto usato in qualunque ora, sia pure in piena notte, poi strinse nuovamente la mano a entrambi, alla moda europea.

Ciò fatto si sbarazzò dell’ampio mantello di cotonina bianca che lo copriva dalle spalle ai piedi e offrì ai due europei del tabacco ed una bottiglia di ginepro, dicendo con una certa malinconia:

— Tiefo Nieneguè è povero, avendo tutto perduto nella sua disgrazia, ma gli uomini bianchi accettino di buon cuore l’offerta del vecchio padre di Urada, insieme ai ringraziamenti per tutto quello che hanno fatto per la sua unica figlia.

— Grazie, — risposero Alfredo ed Antao, dopo che Urada ebbe tradotte quelle parole, non conoscendo il vecchio negro la lingua uegbè.

La giovane amazzone prese poi la parola. [p. 194 modifica]

— Ho narrato tutto a mio padre ed abbiamo parlato a lungo del vostro progetto. Quantunque sia caduto in disgrazia, conta ancora degli amici ad Abomey e può esservi molto utile coi consigli e coi suoi aiuti.

Egli mi ha giurato che non tradirà il segreto degli uomini bianchi, anzi che mette la sua vita e le sue forze a disposizione dei salvatori di sua figlia. Geletè e Kalani sono ormai suoi nemici e sarà ben lieto di vendicarsi contro di loro della sua immeritata disgrazia.

— Eravamo certi di poter contare su tuo padre, Urada, — rispose Alfredo. — Noi accetteremo i suoi consigli ed i suoi aiuti, ma cercheremo di non comprometterlo. Cosa dice del nostro progetto?...

— Che è assai pericoloso, ma che con dell’audacia e dell’astuzia si può riuscire.

— Conosce Kalani?

— Sì, padrone.

— Sa del fanciullo rapito?...

— Lo ha saputo.

— Dove lo custodiscono?...

— Nella casa dei feticci di Abomey.

— Non correrà alcun pericolo?...

— Nessuno, padrone, poichè ormai è considerato come persona sacra. Se Kalani volesse ucciderlo, Geletè glielo impedirebbe e tu sai che nessuno oserebbe disobbedire al re.

— Crede tuo padre che Geletè ci riceverà?...

— Sì, ma prima di lasciare Kana dovrete attendere il recade del re.

— Cos’è questo recade?...

— L’ordine verbale di Geletè.

— Incaricheremo il gran cabecero di annunziarci al re.

— Vi avverto però che giungeremo ad Abomey in un brutto momento.

— Perchè?...

— Perchè in questo mese hanno luogo le feste dei costumi.

— Così dovremo assistere a quegli atroci macelli di schiavi. Preferirei ritardare la nostra partenza per Abomey.

— E faresti male, padrone.

— Cosa vuoi dire?...

— Mio padre mi ha detto che non potresti trovare una occasione migliore per mettere in esecuzione il tuo audace [p. 195 modifica]progetto. Durante le feste dei costumi, se si sparge molto sangue, si beve molto ginepro ed in quei terribili giorni, re, principi, cabeceri, sacerdoti, soldati e popolo sono tutti ubriachi e la sorveglianza è quasi nulla.

— È vero, Urada, — disse Alfredo, colpito da quelle osservazioni. — Ho udito narrare anch’io che durante quei macelli il ginepro scorre a fiumi e che l’ubriachezza diventa generale. Chiedi a tuo padre se crede possibile, durante quella confusione, entrare inosservati nel tempio sacro dei feticci e rapire il fanciullo.

— Lo crede, — rispose Urada, dopo d’aver interrogato il vecchio, — e aggiunge che potresti vendicarti, con maggiore probabilità, di Kalani.

— Un’ultima domanda. Verrà con noi ad Abomey, tuo padre?

— Sì, ma si fingerà un tuo schiavo e bisognerà che tu lo renda irriconoscibile. Mio padre vuole aiutarti ed esserti vicino per consigliarti su quanto dovrai fare.

— È deciso ad abbandonare il Dahomey?...

— Ti seguirà dove tu vorrai condurlo. Ormai più nulla lo trattiene in questo paese e rinuncia ben volentieri alla sua patria, avendo più da temere per la propria vita, che la speranza di tornare nelle grazie di Geletè.

— Verrà adunque con noi e ti prometto, Urada, che non si pentirà di aver abbandonato il suo tristo paese. Riconducilo nella sua capanna, premendomi che non lo si veda qui. Uno dei due schiavi vi scorterà, poi tu ritornerai, avendo bisogno dei tuoi consigli.

Alfredo regalò al vecchio negro alcune bottiglie di ginepro mandategli dal gran cabecero della Città Santa, una rivoltella con una scatola di cartucce ed ottanta piastre di caures, somma non lieve nel Dahomey, pregandolo di accettare tuttociò per amicizia, poi lo congedò promettendogli di recarsi l’indomani notte a visitarlo.

— Ed ora, — disse, quando padre e figlia si furono allontanati col dahomeno, — possiamo riposare, Antao. Domani andremo a visitare il gran cabecero, per ottenere il permesso del re di recarci ad Abomey.

— Morte di Urano e di tutti gli altri pianeti!... — esclamò il portoghese. — Ecco avvicinarsi il terribile momento!... [p. 196 modifica]

— Ormai non possiamo più tornare indietro e giuocheremo risolutamente le nostre ultime carte.

— Lo credo. Si tratta di salvare il fanciullo e anche la nostra pelle e ci guarderemo bene di non lasciarla a quell’antropofago di Geletè. Sarebbe capace di farne dei tamburi per le sue amazzoni. Diavolo!... Dei tamburi colla pelle di uomini bianchi!... Che onore pei suoi reggimenti in sottane!...

— Speriamo di farli fare colla pelle di Kalani, Antao.

— Sarà più resistente. Buona notte, Alfredo. —

I due bianchi si ricoricarono fra le casse e malgrado le loro apprensioni s’addormentarono tranquillamente, come se si trovassero ancora nel paese dei Krepi o dei Togo.

L’indomani furono svegliati, verso l’alba, da un fracasso indiavolato che s’avvicinava. Era un insieme di suoni strani, di flauti, d’istrumenti a corda, di cembali e di voci umane con accompagnamento di gran cassa.

Antao ed Alfredo, svegliati di soprassalto, s’affrettarono a balzare fuori per vedere di che cosa si trattava. Urada, che era già tornata e che si trovava in piedi, s’affrettò ad informarli che la banda musicale di Geletè veniva a prenderli per condurli dal gran cabecero.

— Morte di Giove! — esclamò Antao, messo di buon umore da quel concerto assordante. – Che onore?... Ci manda a prendere colla banda reale!... Che lusso!... Vediamo almeno questi bravi, ma formidabili musicanti. —

Urada non si era ingannata. Era veramente la banda reale di Kana che si dirigeva verso l’apatam per condurre, coi dovuti onori, l’ambasciata dal gran cabecero.

Quella banda che formava l’orgoglio del sanguinario re, era composta d’una cinquantina di artisti negri, preceduti da quattro amazzoni in assetto di guerra e dal soldato che aveva guidati gli ambasciatori1.

Venivano primi dieci o dodici ahpolos, ossia poeti erranti, che cantavano le lodi di Geletè e che declamavano dei proverbi o le leggende relative alle gesta eroiche degli antichi monarchi, di Guagiah Truda fondatore delle dinastie, di Doherthy e di [p. 197 modifica]Bahadu; poi seguivano una dozzina di ragazzi che agitavano delle frutta secche ripiene di sabbia e di sassolini, quindi dei suonatori di flauti di bambù che cavavano dai loro istrumenti delle note atrocemente strazianti, di dovron, specie di chitarre formate con mezze noci di cocco ricoperte con pelle di serpenti e finalmente veniva un negro gigantesco il quale picchiava furiosamente un ghedon enorme, specie di tamburo formato d’un pezzo di tronco d’albero scavato ed ornato di sculture di genere bizzarro.

Quell’orchestra fragorosa fece due volte il giro dell’apatam, sempre preceduta dagli ahpolos che cantavano e danzavano come se fossero stati colti da un improvviso accesso d’alienazione mentale, poi si arrestò dinanzi ai due ambasciatori, raddoppiando il fracasso.

Il soldato s’avvicinò ad Alfredo, gli diede il tradizionale buon giorno, poi lo invitò, assieme ai compagni, a recarsi dal gran cabecero, il quale desiderava vederlo, prima di mandare dei corrieri a Geletè per informarlo dell’ambasciata.

— Andiamo, Antao, — disse il cacciatore. — Sangue freddo ed audacia e lascia in pace tutti pianeti del cielo.

— Dirai che sono muto, — rispose il portoghese.

Si fecero condurre i loro cavalli, fecero aprire gli ombrelli, ma incaricarono uno dei due dahomeni di vegliare sulle loro casse, non fidandosi troppo dell’onestà molto dubbia della popolazione.

Saliti in sella, si misero in marcia preceduti dai poeti erranti e dalle amazzoni che gridavano a piena gola: ago!... ago!... (largo!... largo!...) e seguìti dai musicisti... che si sfiatavano per dare un saggio della robustezza dei loro polmoni.

Attraversarono la piazza fra due fitte ali di popolo, il quale guardava con viva curiosità i due ambasciatori, ammirando soprattutto la ricchezza delle loro vesti e le bardature infioccate, e giunsero in breve dinanzi ad uno dei palazzi reali, alla cui porta, circondato da una compagnia di amazzoni, li attendeva Ghating-Gan, gran cabecero della Città Santa e confidente di Geletè, riparato sotto un monumentale ombrello verde, decorato d’un mostruoso coccodrillo.



  1. Anche Behanzin ci teneva assai alla sua orchestra e si dice che provasse un gran dolore, quando le armi vittoriose del generale Doods la mandarono a rotoli.