La Città dell'Oro/3. Una fuga misteriosa
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III.
Una fuga misteriosa.
Udendo quel grido e quel rumore, il piantatore, suo cugino e Velasco si erano alzati, mentre l’indiano, con una mossa fulminea, si era precipitato verso il parapetto della terrazza, scrutando coi suoi acuti sguardi il fogliame degli alberi sottostanti.
— Cos’è, Yaruri? — chiese don Raffaele.
L’indiano non rispose: continuava a guardare con profonda attenzione.
— Sarà stato qualche uccello, — disse Alonzo.
— A me parve un grido umano, — disse invece il dottore.
— È vero, — rispose Yaruri. — Un uomo ascoltava i vostri discorsi.
— Sarà stato qualche schiavo curioso, — disse don Raffaele.
— O qualche ghiottone, — aggiunse Alonzo. — Sarà stato attirato dai profumi appetitosi della cena.
— Bah! Non occupiamoci di costui, — disse il piantatore, alzando le spalle.
— Ma quel grido? — insistette il dottore.
— Sarà sfuggito un piede a quel curioso e sarà capitombolato dall’albero. Sediamoci e riprendiamo la conversazione, mio caro Velasco.
Tornarono a sedersi, ma Yaruri non si mosse: continuava a scrutare il folto ed oscuro fogliame degli alberi.
— Dunque, — riprese il piantatore, — vi chiedevo, Velasco, se sareste disposto a seguirmi. Se venite con me, avrete un vasto campo pei vostri studi e potrete fare un’ampia raccolta di animali, di uccelli e di piante rare.
— Vi confesso, don Raffaele, che ciò mi seduce più che la città misteriosa.
— Venite?
— Diavolo! Voi correte troppo, amico mio. Ed i miei ammalati?
— Non avete un altro collega ad Angostura? Cedete a lui i vostri ammalati. Una lettera si scrive presto ed uno dei miei uomini s’incaricherà di portarla a destinazione.
— Orsù, dottore, — disse Alonzo, — si tratta di visitare la famosa Manoa.
— Lo so.
— E di diventare milionari.
— Lo comprendo.
— E di fare un viaggio in regioni ancora vergini, — aggiunse don Raffaele.
— L’attrattiva è potente, ma... vi fidate voi di quell’indiano?... Non ci tradirà?... Sapete che nell’Alto Orenoco abitano tribù bellicose che non hanno mai piegato il collo al giogo spagnolo e che divorano i prigionieri di guerra?
— Yaruri non ci tradirà, Velasco, — disse don Raffaele. — Lo guida la vendetta e per compierla ha bisogno dell’aiuto degli uomini bianchi. Orsù, avete finito le vostre osservazioni?
Il dottore riempì i bicchieri ed alzando il suo disse:
— Beviamo alla buona riuscita del viaggio.
— Finalmente!... — esclamò don Raffaele. — Ecco guadagnato un compagno che vale una miniera. Non perdiamo tempo: è mezzanotte e all’alba partiremo. Andate a riposare alcune ore, mentre io vado a fare i preparativi.
— Dormiremo domani, — disse il dottore. — Vi aiuteremo, don Raffaele.
— Andiamo dunque.
I tre uomini, aiutati da Hara e da una mezza dozzina di robusti negri, si misero alacremente al lavoro. Dovendosi intraprendere un viaggio che poteva durare parecchi mesi, fra regioni sconosciute, abitate da tribù ostili, era necessario provvedersi di molte cose e soprattutto scelte per non caricarsi di pesi soverchi che avrebbero dovuto più tardi abbandonare, se fossero stati costretti a lasciare il fiume.
Don Raffaele condusse i suoi compagni nei magazzini addetti alla piantagione, che contenevano una infinita quantità d’oggetti, di armi, di viveri, di vestiarii e tutti e tre procedettero ad una scelta scrupolosa.
Quando ebbero terminato fecero incassare ogni cosa e Hara fece trasportare tutto sulla sponda della Cauca. Vi erano carabine, due casse di munizioni, vesti, una tenda, viveri per due mesi, bussole, un sestante, un cronometro per ottenere la latitudine e la longitudine per non procedere a casaccio, utensili svariati per la cucina, amache, una piccola farmacia e parecchi altri oggetti ritenuti indispensabili, oltre parecchie casse di cianfrusaglie e di perle da regalare agli indiani. Yaruri per suo conto si limitò a scegliere una cerbottana e parecchie dozzine di frecce, che si proponeva di intingere più tardi nel succo mortale del curaro.
— Andiamo ora a visitare la nostra scialuppa, — disse don Raffaele. — Tra pochi minuti tutte le nostre provviste saranno imbarcate e ci metteremo in viaggio.
— Conduciamo con noi un equipaggio d’indiani? — chiese Alonzo.
— No, cugino. La mia scialuppa è attrezzata e leggera e la condurremo noi. E poi, se gl’indiani dell’Alto Orenoco vedessero una truppa di persone potrebbero mettersi in sospetto e darci tutti addosso.
— È vero, — disse il dottore. — Meglio pochi, ma risoluti.
Si diressero verso il fiume, presso le cui sponde si trovavano parecchie scialuppe e due dozzine di canotti indiani che venivano adoperati pel trasporto dei prodotti della piantagione ad Angostura.
Vi erano appena giunti, quando Hara, che riceveva le casse colà portate dai negri, disse a don Raffaele:
— Padrone, è scomparso un canotto.
— Un canotto! — esclamò il piantatore stupito.
— Sì, padrone, ed uno dei migliori.
— Che ce l’abbiano rubato?
— E chi?... Gl’indiani non osano scendere l’Orenoco fino a questa piantagione, — disse l’intendente.
— Che si sia spezzata una corda? ... la svelta imbarcazione, spinta da una fresca brezza, scese la Cauca.... (pag. 47)
— No, padrone: l’ho visitata or ora e mi sono accorto che è stata tagliata con un colpo di coltello.
— Che qualche schiavo sia fuggito? — chiese don Raffaele, aggrottando la fronte. — Voglio assicurarmene, se me lo permettete.
— Va’, Hara, — disse il dottore. — Non ci vedo chiaro in questa faccenda.
— Cosa temete, Velasco? — chiese don Raffaele.
— Nulla per ora, ma... Quale è la nostra scialuppa?
— Eccola: è quella che adopero io nelle mie escursioni e nei miei viaggi sul fiume. È solida ma leggera, e basta un soffio d’aria per farla camminare con notevole velocità.
Infatti la scialuppa del piantatore era una delle più belle e contemporaneamente delle più svelte imbarcazioni che solcassero il corso dell’Orenoco. Somigliava ad una baleniera, ma era più alta di bordo e più lunga, stazzando sei tonnellate; inoltre portava una attrezzatura completa da cutter con una randa che aveva uno sviluppo straordinario per poter approfittare delle brezze più leggere.
Ad un ordine del piantatore i negri imbarcarono le casse disponendole in modo che non potessero impedire la manovra delle vele, poi collocarono a poppa alcuni piccoli materassi che dovevano servire di letto nel caso che i viaggiatori fossero costretti a passare la notte sul fiume.
— È tutto pronto? — chiese don Raffaele.
— Tutto, — rispose Alonzo, che sorvegliava ogni cosa.
— Ed Hara?
— Eccomi, padrone, — rispose l’intendente che giungeva correndo. — Devo darvi una brutta notizia.
— E quale, Hara?
— Sono fuggiti due indiani.
— Quando?
— Poche ore fa, poiché ieri sera erano ancora nella piantagione.
— E cosa vuol dire ciò?...
— Ve ne sono fuggiti degli altri, don Raffaele? — chiese il dottore.
— Sei o sette in quindici anni, poiché i miei schiavi non possono certo lagnarsi di me, — rispose il piantatore. — Io mi vanto di essere per loro più un padre che un padrone e la frusta non è mai stata adoperata nella mia piantagione.
— Che indiani erano? — chiese il dottore ad Hara.
— Dell’alto Orenoco.
— Erano schiavi da molto tempo?
— Da sette mesi.
— Da chi li avevate comperati?
— Da un viaggiatore che li aveva presi alla foce del Tipapu, — rispose don Raffaele.
— E prima non avevano mai tentato di fuggire?
— Mai.
— E non sapete a quale tribù appartenessero?
— Non mi sono mai occupato di saperlo, Velasco, — rispose don Raffaele.
— Ciò m’inquieta.
— E perchè?
— Quel grido che abbiamo udito, la scomparsa del canotto e la fuga di quei due indiani mi pare siano cose da non lasciarsi passare inosservate.
— Cosa temete, Velasco?
— Non saprei dirvelo, ma tutti questi fatti devono avere relazione fra di loro. Io concludo col dirvi, don Raffaele, che noi siamo stati spiati e che la comparsa di Yaruri è stata notata.
— Ma chi poteva avere interesse a spiarci?
— I due fuggiaschi.
— E per quale scopo?
— Eh!... Voi sapete che gl’indiani hanno cercato di occultare agli uomini bianchi il luogo ove sorgeva quella famosa città dell’oro.
— È vero, ma i due fuggiaschi non possono averci interesse.
— Chi lo sa!... Voi non sapete da dove venivano nè a quale tribù appartenevano.
— Bah! Voi andate a cercare un filo introvabile dottore. Io sono convinto che quei due indiani hanno semplicemente approfittato del momento in cui nessuno sorvegliava le rive del fiume, per mettere in esecuzione una fuga forse lungamente meditata e niente di più. Cosa può importare a questi schiavi di Manoa, degli Orecchioni e degli Eperomerii che forse non hanno mai udito a nominare? Orsù non pensiamoci più; Hara s’incaricherà di farli cercare.
Il dottore non rispose, ma crollò il capo in segno di dubbio.
— Imbarca! — comandò Alonzo, balzando nel battello le cui vele erano state già spiegate.
— Hara, — disse don Raffaele, — ti affido tutta la mia fortuna.
— Non temete, padrone, — rispose l’intendente. — La piantagione nulla perderà della sua prosperità.
— Fra tre mesi tutt’al più contiamo di essere di ritorno. Addio, mio bravo Hara.
— Buona fortuna, padrone.
Don Raffaele ed il dottore entrarono nella scialuppa seguiti dal taciturno indiano. La gomena fu ritirata a bordo e la svelta imbarcazione spinta da una fresca brezza che soffiava dal sud-est, scese la Cauca entrando nel fiume gigante.
Appena Yaruri scorse la corrente dell’Orenoco emise un lungo respiro e volgendosi verso l’ovest disse con voce cupa:
— Yaruri ucciderà Yopi!