La Città dell'Oro/4. L'Orenoco
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | 3. Una fuga misteriosa | 5. Un fuoco sospetto | ► |
IV.
L’Orenoco.
L’Orenoco per la sua immensa lunghezza, per la sua larghezza, per la massa d’acqua che conduce verso il mare e pel suo sterminato numero di affluenti, gareggia con gli altri due fiumi giganti che solcano l’America meridionale, cioè l’Amazzone ed il Rio della Plata.
Dove abbia le sue sorgenti ancora oggidì lo si ignora, poichè è stato uno dei meno visitati e studiati, quantunque ormai non vi sia più alcun dubbio che percorra le regioni più ricche d’oro delle due Americhe e fors’anche del mondo intero. Taluni credono però che nasca sulle Ande centrali, nelle remote montagne dell’Equatore, non molto lungi da Quito: ma i più ritengono che esca dal lago Jarimè che si trova nel Il capofila si era accomodato sull’estremità del muso del caimano (pag. 64). centro di quella vasta regione che dal fiume delle Amazzoni si estende fino al golfo del Messico e che prende il nome di Gujana.
Comunque sia, i geografi non esitano a dare a questo fiume una lunghezza di milleseicento a milleottocento miglia, essendo molto tortuoso in gran parte del suo corso superiore.
Dapprima corre verso settentrione, distendendo i suoi rami nella repubblica Columbiana e credesi anche in quella dell’Equatore; attraversa un immenso tratto di quella regione che chiamasi Gujana, poi giunto nel cuore della Venezuela, piega verso levante e sbocca nell’Oceano Atlantico presso la Gujana inglese per un numero infinito di canali, i quali formano un estuario che ha una larghezza di ben cento e più leghe.
Poche città sorgono su questo fiume gigante: Angostura, fra il Coroni e l’Aro; Muestaco di fronte al Pao; Piedros di fronte al Guarico; Soledad, Banancas, Piacoa, Sacupana e qualche altra, ma tutte queste ultime non sono che piccoli villaggi.
Invece gran numero di affluenti si gettano nell’Orenoco a destra ed a sinistra. Tutti ancora non si conoscono e non accenneremo che i principali: il Venituari che sarebbe il più prossimo alla sorgente, il Guanini, il Guaaviari, il Meta che è il maggiore di tutti, il Suapure, l’Arauca, l’Apure, il Guarico, il Marciapuro, il Cucivero, il Cauca, il Coroni, i quali tutti hanno trecento, quattrocento e perfino settecento miglia di lunghezza.
È pure ricco di cascate, alcune delle quali sono superbe come quelle di Maipuri, di Ature o di Quituma, ma non impediscono sempre agli indiani che sono arditi battellieri, di superarle.
Come tutti i grandi fiumi, anche l’Orenoco ha le sue piene periodiche, ed una straordinaria ogni venticinque anni che è doppia di quella ordinaria. Non cresce però rapidamente come certi altri, ma con una lentezza estrema, avendo poca pendenza.
Il suo innalzamento dura cinque mesi, non crescendo che d’un dito ogni ventiquattro ore; per altri cinque decresce e due mesi rimane stazionario, uno nella sua massima piena ed uno nella sua massima decrescenza. Nelle piene allarga le sue sponde formando in certi luoghi dei veri golfi come presso Uruana dove raggiunge un ampiezza di venticinque leghe, mentre ordinariamente non ha che quattro o cinque miglia.
Un numero immenso di tribù per lo più ostili agli uomini bianchi e sempre in guerra fra di loro, abitano le sponde e gli affluenti dell’Orenoco. Accennarle tutte non basterebbero venti pagine, tanto sono numerose. Le più potenti sono quelle dei Maipuri, dei Caveri, dei Caipunavi, dei Caribbi, degli Ottomachi, dei Guaimi, dei Quaquari, dei Guaneri, degli Arori, dei Saimì, degli Eperomerii, degli Yanapiri, ecc.
La scoperta di questo grande fiume rimonta ai primi tempi della conquista dell’America, avendo Colombo approdato pel primo alla sua foce, dando al golfo che forma l’estuario il nome di Tristo; pure per due secoli rimase dipoi quasi ignorato. Anche dopo le esplorazioni di Herrera, di Barreo, del cavalier Raleigh, di Vera e di Keymis, cosa strana, nessuno si occupò di visitarlo e anche oggidì può dirsi che nel suo corso superiore è quasi sconosciuto. Solamente in questi ultimi tempi, pochi audaci esploratori osarono avventurarsi in quelle misteriose regioni, ma con poco frutto, in causa dell’ostilità degli indiani. Però hanno potuto confermare una vecchia tradizione, cioè che l’Orenoco è realmente in comunicazione coll’Amazzone per mezzo di due grossi fiumi, il Rio Bianco ed il Cassichiari, i quali entrambi si uniscono col Rio Negro ch’è uno degli affluenti del secondo fiume gigante.
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
Cominciava ad albeggiare. Una luce rossastra, con certi riflessi giallastri, s’alzava rapidamente verso levante, fugando le tenebre addensate sotto le immense foreste, che si stendevano a perdita d’occhio a destra ed a sinistra dell’Orenoco.
Le acque, poco prima brune si tingevano di riflessi madreperlacei, mentre verso levante assumevano delle tinte rosee mescolate a pagliuzze dorate.
Gli abitanti delle rive si svegliavano rompendo dovunque il silenzio. Le scimmie rosse gonfiavano il loro gozzo emettendo le loro potenti grida ed i loro muggiti formidabili che si odono, senza difficoltà, a cinque miglia di distanza; i macachi, scimmie voraci ed agilissime, lanciavano le loro chiamate acute e s’agitavano sulle più alte cime degli alberi, cercando avidamente i nidi delle mosche-cartone per divorare i terribili insetti.
Sulla cima delle palme, i tucani dal becco grosso quasi quanto l’intero loro corpo, emettevano le loro grida bizzarre, dure e sgradevoli come lo stridere d’una ruota male unta; i pappagalli cicalavano svolazzando, mostrando le loro penne cremisine o gialle od azzurre; i bentivì, appollaiati all’estremità delle grandi foglie delle bananeire, salutavano la comparsa del sole emettendo il loro ben ti vi e l’Onorato nascosto in mezzo ai rami più fitti, gettava sul fiume le sue note musicali do... mi... sol... do.
La scialuppa di don Raffaele, spinta da una fresca brezza, s’avanzava sulla grande fiumana frangendo, coll’acuto sperone, la corrente che calava lentamente fra due sponde coperte di boscaglie antiche quanto la creazione del mondo.
Yaruri, sempre silenzioso, sedeva a poppa, alla barra del timone, scrutando le foreste coi suoi acuti sguardi, quasi temesse qualche improvviso pericolo; Alonzo stava a prua, sdraiato sulla banchina, guardando con ammirazione le scimmie che volteggiavano sui rami degli alberi con un’agilità meravigliosa; il piantatore e Velasco, seduti ai piedi dell’albero, parlavano fra di loro fumando delle sigarette di tabacco profumato e delizioso.
La piantagione era già scomparsa da qualche ora e la scialuppa navigava in una curva della grande fiumana per raggiungere la foce del Capanaparo, presso la quale i viaggiatori contavano di passare la prima notte.
Ad un tratto un grido bizzarro, che pareva una nota metallica, venne ad interrompere la conversazione impegnata fra il dottore e don Raffaele ed a strappare Alonzo dalla sua contemplazione.
— Cos’è? — chiese il piantatore, alzando il capo e guardando verso la sponda deserta, che era allora lontana un trecento passi.
— Non saprei, — rispose il dottore, che scrutava gli alberi. — Non ho mai udito questa nota.
— Che l’abbia lanciata qualche scimmia di nuova specie?
— O qualche uccello? — chiese Alonzo.
— Vi dico che non ho mai udito questo grido, — rispose il dottore, — eppure sono dieci anni che percorro le sponde dell’Orenoco.
— Che sia un segnale?
— Emesso da chi, don Raffaele? Che io sappia non vi sono indiani in questi dintorni.
— Zitto!...
Il grido si ripetè ma con una intensità tale da potersi udire a tre miglia di distanza. Rassomigliava a quello stridente del tucano, ma infinitamente più potente.
— Yaruri, — disse don Raffaele, volgendosi verso l’indiano sempre impassibile. — Hai udito altre volte questo grido?
— Mai, — rispose questi.
— Non sai spiegarlo?
— No.
— Sai dirmi da dove viene?
— Dalla sponda.
— Lontano da noi?
— Un miglio almeno. Yaruri si alzava di frequente per abbracciare maggior spazio (pag. 75).
— Credi tu che un indiano possa emettere un tale grido?
— Forse.
— Non sei inquieto?
— No, perchè sono cogli uomini bianchi.
— Conosci questo braccio di fiume?
— No.
Don Raffaele ed i suoi compagni tacquero e tesero gli orecchi sperando di riudire quel grido inesplicabile, ma non si ripetè più. Solamente l’uccello Onorato ripeteva invariabilmente le sue note do... mi... sol... do, tenendosi nascosto in mezzo alle grandi palme.
— È una cosa strana, — disse don Raffaele, dopo alcuni istanti di silenzio. — Io non so il perchè, ma comincio ad essere inquieto. Che sia questo paese inesplorato e misterioso che produce tale sensazione o la febbre dell’oro?
— Abbiamo delle buone armi, cugino, — disse Alonzo; — non dobbiamo avere quindi alcun timore.
— Ha del coraggio il nostro giovanotto, — disse il dottore, sorridendo. — Il buon sangue non mente.
— È vero, — disse don Raffaele con compiacenza. — I Camargua hanno nelle vene il sangue di uno dei primi conquistatori e un nostro avolo...
Un baccano assordante, bizzarro, impossibile a descriversi, venne a rompergli la frase. Era un concerto di urla lamentevoli, ma così acute da guastare i timpani meglio costruiti e così strazianti che parevano emesse da un centinaio di persone martirizzate; poi erano voci strane che somigliavano alle salmodie d’una compagnia di frati. Vi erano bassi, baritoni, tenori, soprani e contralti e pareva che tutti quei cantori cercassero di sopraffarsi gli uni cogli altri con note così potenti da udirsi a parecchi chilometri di distanza.
— Cosa succede, cugino? — chiese Alonzo stupito. — Vi è qualche tribù che canta?
— Sì, ma di scimmie, — rispose don Raffaele, ridendo.
— Di scimmie?... Son voci umane, cugino.
— Eccoli i cantori, Alonzo. Guardali!...
La scialuppa, avendo girato una punta che si stendeva per buon tratto sul fiume, era giunta dinanzi ad un gruppo di jatolà (hynenaea courbaril), alberi enormi che raggiungono un’altezza di trenta o quaranta metri, ma con certi tronchi che misuravano nove e perfino dieci metri di circonferenza.
Su quei rami grossissimi, avevano preso stanza un centinaio e più di scimmie col pelame bruno, colla testa, le mani e la coda nere e di statura media. Sedute in circolo attorno ad un vecchio maschio che aveva il pelame brizzolato, cantavano a piena gola facendo un baccano assordante ed imitando i frati o gli ebrei quando pregano.
— Che scimmie sono? — chiese Alonzo, scoppiando in una risata, tanto erano ridicole le pose gravi di quei quadrumani.
— Si chiamano barbado ed anche gaariba bujo, — disse il dottore. — Hanno una voce potente come le scimmie rosse, ed imitano talora il salmodiare dei frati, ora i lamenti delle donne e talvolta il rumore degli spaccalegna. Quando i brasiliani e gl’indiani le odono, dicono che le scimmie stanno pregando.
— Sono inoffensive?
— Sì e anche deliziose, affermano gl’indiani, i quali amano metterle allo spiedo. È vero, Yaruri?
— Sì, — rispose l’indiano, — e Yaruri ne mangerà!
— Te ne ucciderò una, — disse Alonzo.
— Lascia fare a Yaruri, — disse don Raffaele.
— Nè all’uno nè all’altro, — disse il dottore. — Guardate!... Sta per giungere l’jacarè. Ora assisteremo ad una scena curiosa.