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176 la cintia

SCENA IX.

Lidia, Erasto, Cintia, Dulone.

Lidia. Che comandate, fratello?

Erasto. Dimmi liberamente come passò la cosa tra voi e costui la passata notte, e non temer di nulla.

Lidia. Io non vi niego, fratel mio caro, che non abbia amato costui di tutto cuore, perché mille volte dalla vostra bocca ho inteso raccontare il valor, la virtú, i costumi e le sue gentili maniere; e io, ponendo effetto a’ suoi trattamenti quando egli con voi trattava, conobbi ch’era assai piú di quello che voi dicevate. Lo desiai per marito e, lo confesso, ne feci motto a mia madre; ella a mio padre e a voi, e ne ragionò con Arreotimo suo padre: ma egli non volse accettarmi mai. Oggi, ragionando egli con Amasia, disse voler ragionar meco alle due ore di notte. L’attesi: venne e mi chiese perdono della sua ostinazione; mi die’ la fede di sposo; calando al buio per stringer la fede, mi baciò per forza e con una villana violenza e grandissima discortesia fe’ oltraggio all’onor mio.

Cintia. Ed è possibile che una signora cosí nobilmente nata, come voi sète, finga contro di me cosí bugiarda bugia? Se ben ho ragionato oggi con Amasia, non mi fece di voi parola mai.

Lidia. Io non arei stimato né col pensiero che in un gentiluomo, come voi sète, vi fusse cosí mala creanza e tanto tradimento che neghiate or quello che non vi vergognaste di farlo con tanta sfacciatezza.

Erasto. Che rispondi, Cintio?

Dulone. Non vedete il tacere e il timore, che sono i perpetui compagni della colpa?

Cintia. S’io l’avessi desiata per isposa, l’arei chiesta a voi o a vostro padre, la qual, come offertami da prima, so che me l’arebbe concessa, e non venir a questi modi cosí indegni.

Erasto. Dunque, ella non dice il vero?

Lidia. Io in nessuna parte ho mentito di quel che ho detto.