Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/39


atto secondo 31

come suole, venga da lei. E cosí fará perché non meno lo desidera che costei. Ma far prima bisogna la cosa di Calandro. Ed eccolo che giá torna. Dirogli avere ultimato il fatto suo.

SCENA VI

Fessenio servo, Calandro.

Fessenio. Salve, padron, che ben salvo sei da che la salute ti porto. Dammi la mano.

Calandro. La mano e i piedi.

Fessenio. Parti che i pronti detti gli sdrucciolino di bocca?

Calandro. Che c’è?

Fessenio. Che, ah? El mondo è tuo; felice sei.

Calandro. Che mi porti?

Fessenio. Santilla tua ti porto, che piú te ama che tu non ami lei e di esser teco piú brama che tu non brami; perché gli ho detto quanto tu se’ liberale, bello e savio. Uh! uh! uh! Tal che la vuol, in fine, ciò che tu vuoi. Odi, padrone. Ella non senti prima nominarti che io la viddi tutta accesa de l’amor tuo. Or sarai ben, tu, felice.

Calandro. Tu di’ il vero. E’ mi par mille anni succiar quelle labra vermigliuzze e quelle gote vino e ricotta.

Fessenio. Buono! Volse dir sangue e latte.

Calandro. Ahi, Fessenio! Imperator ti faccio.

Fessenio. Con che grazia l’amico accatta grazia!

Calandro. Or andianne da lei.

Fessenio. Come da lei? E che? pensi tu ch’ella sia di bordello? Andar vi ti bisogna con ordine.

Calandro. E come vi si anderá?

Fessenio. Coi piedi.

Calandro. So bene. Ma dico: in che’ modo?

Fessenio. Hai a sapere che, se tu palesemente vi andasse, saresti visto. E però sono rimasto con lei, perché tu scoperto non sia e perché ella vituperata non resti, che tu in un forziero