L'incendio nell'oliveto/Capitolo XIV
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XIV.
Ma il viso della nonna restava implacabile, pallido nel cerchio della cuffia nera, con un filo di luce fra palpebra e palpebra.
— Nonna, nonna, — riprese Annarosa, con una specie di cantilena con la quale cercava di assopirla e in pari tempo di assopire il suo dolore, — è un cattivo sogno quello che fate. Ma domani tutto sarà passato. C’è una bella luna, fuori, e mi par di sentire il passo del cavallo di Agostino. Sale, sale nello stradone bianco, e riconduce a casa il povero zio Juanniccu. Non è cattivo, il povero zio Juanniccu, solo ha il difetto di dire la verità, come nessuno più osa dirla; e anche Cristo fu ucciso per aver detto la verità. Oh, nonna; ma domani tutto sarà al solito. Sì, sento davvero il passo del cavallo di Agostino, e mi pare d’essere ancora bambina, quando nei giorni caldi di estate mi mandavate coi fratellini a passare qualche tempo lassù al Monte. E voi restavate a badare alla casa, ma noi lassù si stava buoni solo a veder di lontano il paese e la nostra casa dalla quale ci pareva che a voi bastasse di sollevare gli occhi per sorvegliarci. E venivate a trovarci, per un giorno solo; ma che giorno era quello! Protesa su una roccia sopra il sentiero sentivo da lontano il passo della vostra cavalla bianca, madre del cavallo di Agostino; e se chiudevo gli occhi vi vedevo salire attraverso il bosco, seduta a cavalcioni sulla sella di velluto, fra due bisacce colme di cose buone. Oh, nonna, come vi ringrazio di quei giorni di gioia che non torneranno mai più. Neppure il giorno delle mie nozze sarà un giorno di simile gioia. Ricordate, nonna? Si veniva incontro a voi fino alla Tomba del gigante, quella roccia obliqua che pare davvero una tomba gigantesca; la vedo ancora: ha la forma di una lunga cassa di pietra, con gli angoli smussati dalla lima del vento. È coperta di un drappo di musco: i tralci d’edera fanno da corone. E posa su altre piccole roccie che sembrano omeri di giganti che la trasportino in cima alla montagna, fermi lì a riposarsi un momento prima di riprendere la strada; un momento che dura da secoli. Mi ascoltate, nonna?
La nonna aveva un po’ aperto gli occhi e la guardava come in sogno. Ed era tutta la notte di maggio, bianca e luminosa di luna, e di dolore e d’amore, che raggiava nel pallido viso proteso su di lei.
— Ricordate, nonna? Gli uccelli saltellavano sul musco della Tomba del gigante, e noi li imitavamo. Ed ecco, dunque, chi si vede arrivare, allo svolto del sentiero, ferma in sella come una torre sul Monte? Che gridi, nonna, io, Agostino e Gavino in braccio del servo Taneddu. E dietro di voi veniva il babbo nostro, smilzo e lungo sul suo cavallo nero come un cavaliere errante. Ma era incontro a voi che correvamo, nonna; e il servo vi porgeva il bambino che voi mettevate sull’arcioni, mentre io da una parte e Agostino dall’altra ci aggrappavamo all’orlo della bisaccia per vedere cosa c’era dentro. E al ritorno vi accompagnavamo fin laggiù, e il vostro sparire era come il tramonto del sole. L’ultima volta è stato nove anni fa; ricordo sempre quel tramonto rosso, nel bosco che pareva di corallo, sotto il cielo glauco, come in fondo al mare. Poi l’ombra. Il babbo è morto quell’inverno.
— Lo ricordate, quell’inverno, nonna?
Anche io lo ricordo, e come! Neve, neve, vento, diluvio universale. Il nostro tetto sgocciolava pioggia da ogni tegola: l’acqua passava i muri, scendeva fin qui; il pozzo traboccava; una sorgente era sgorgata nell’orto e faceva torrente. E che vento, di notte! Mi ricordo, una notte, ci si alzò tutti; la casa traballava come per il terremoto: e tutti ci si mise intorno a voi che stendevate le ali della sottana per coprire Gavino piccolo e Agostino grandetto: e anche io e la mamma e la serva intorno a voi, accovacciate: intorno a voi, tutti, come i pulcini intorno alla chioccia. Fu la notte che tornò il babbo. Tornava da un viaggio di affari. Il temporale l’aveva colto per via. Era malato. Giorni dopo era morto. Lo tenevate voi fra le braccia, come Cristo fra le braccia di Maria. La matrigna piangeva: non sapeva fare altro che piangere. Era tanto giovine ancora, sempre alla vostra obbedienza. La nostra mamma siete stata voi, mamma anche di lei. Come abbiamo pensato a disobbedirvi? Ecco vi rivedo, dopo la morte del babbo, a rimontare a cavallo e scendere al podere, e tornare alla sera, tra il vento, col cappotto del babbo, con le bisacce delle olive. A volte, nella penombra della strada, s’io aprivo il portone per aspettarvi, mi pareva fosse proprio il babbo a tornare. Come si sogna a quindici anni! E come si soffre, di speranza, di umiliazione! Avevamo dei debiti: con la morte del babbo ne vennero su degli altri, che ignoravamo, come mali nascosti. E voi, con lo scialle chiuso sul viso, ad andare a cercare denari: sempre verso sera. E io lo sapevo, e vi aspettavo: che tappe terribili, su quel portone. Ah, nonna, tutto, fuorchè l’umiliazione, avete ragione voi: tutto, fuorchè l’umiliazione. Io sarò ricca e se una sera qualche vecchia o qualche signora decaduta verrà a chiedermi un prestito non lo negherò, certo. A voi, spesso, negavano i denari, nonna! Io odio ancora tutti quelli che vi hanno negato soccorso.
— Ma poi giunsero tempi migliori. I debiti pagati. Agostino diventato grande. Ecco, però, voi siete caduta, un giorno, quando finalmente potevate scendere al podere solo per divago, o uscire alla sera per andare alla novena, non per chiedere denari in prestito. Caduta! Come il ramo dell’albero. Ma no, non siete caduta, nonna: siete ancora il tronco, voi, e noi ancora tutti intorno a voi, nonna, come in quella notte di tempesta, tutti dritti, però, dritti a guardarci in faccia e pronti a sostenere con le braccia il tetto della casa perchè non cada.
— Nonna, parlate, — disse infine, baciandole di nuovo la mano, — ditemi che mi avete perdonato.
Ma la nonna continuava a tacere, sebbene il suo viso si ricomponesse alquanto e gli occhi placati si chiudessero.
— E se Stefano non volesse tornare?
— pensò Annarosa.
— E andata lei, la mamma; — disse sottovoce, come parlando a sè stessa — è andata lei, a chiamarlo. A quest’ora è già arrivata. E davanti al portone di zio Predu. La vedo. Il portone è chiuso; una frangia d’ombra tremola sul muro del cortile, sotto il fico nero spruzzato di luna. La serva apre, adesso, ecco, ma la mamma non vuole entrare.... La soglia le sembra una montagna.... una cima aspra da guadagnare. Ma Stefano ha già sentito battere al portone e ha indovinato. Ecco, lo vedo uscire; la mamma gli dice solo poche parole: gli dice: Annarosa desidera vederti. Ed egli non ascolta neppure che già si è avviato. La sola presenza di lei gli ha detto tutto. Ecco, vengono. Nonna, vengono! Stefano torna!
Le ultime parole le disse con esaltazione, come se davvero sentisse i passi di Stefano nella strada: e la nonna, finalmente, agitò la mano in segno di risposta.
Allora Annarosa si tornò a piegare, stanca, sulla sponda del letto, affondando il viso sulla coltre, con le mani abbandonate una di qua una di là della sedia. Le pareva di esser riuscita a placare la nonna, di averla coperta con un velo d’illusione, e di poter andar fuori di casa per correre anche lei laggiù.
Il sangue che le batteva alla nuca le pareva il galoppare di un cavallo che la trasportava al luogo del disastro. I capelli le volavano sciolti come quelli di Mikedda. Tutto l’orizzonte ardeva di nuvole di fumo rosso, e il chiarore della luna impallidiva come al sorgere dell’aurora. Sulle chine ove ancora bruciavano gli alberi il fuoco pareva sgorgare dalla terra stessa, quasi si fosse aperto un cratere, mentre sul fianco già incendiato della valle sanguinavano i solchi ancora coperti di brage, come ferite su un fianco umano squarciato a morte.
E zio Juanniccu era là nella capanna davanti alla quale, al chiarone dell’incendio, zio Saba vigilava come la figura stessa, deforme e sorda, del dolore.
E le pareva che il vecchio le impedisse di entrare nella capanna, per non lasciarle vedere lo zio; ma era lei stessa che aveva paura di vederlo. Eppure egli era lì, davanti ai suoi occhi chiusi, come la serva lo aveva descritto, col viso bendato, il corpo ricoperto di foglie, appassite come su un ramo bruciato dal sole: e intorno a lui il paesaggio di fuoco, l’orizzonte incoronato di nuvole di fumo, il viso della luna che appariva e spariva fra quei vapori apocalittici come quello di un naufrago in un mare agitato.
E non sapeva perchè, ella ricordava il rombo grave dell’organo in chiesa, nei giorni della passione di Gesù.
Il passo lieve della matrigna la richiamò dalla triste allucinazione. Guardò. La matrigna era al suo posto, fra il letto e la parete, come non si fosse mai mossa. Solo si allargava il fazzoletto sul mento e faceva un lieve cenno con la testa per significare che tutto era andato bene.
Infatti pochi momenti dopo arrivò Stefano. Entrò come al solito, col suo passo calmo, il viso pallido e quieto, come quando arrivava per le sue visite di fidanzato.
Diede un rapido sguardo ad Annarosa che s’era alzata e s’appoggiava al letto con l’aria stordita di chi si sveglia da un sonno pesante, poi si chinò sulla nonna e le posò la mano sulla fronte.
— Ebbene, come va? Che c’è stato?
Ci siamo inquietati per niente; ma adesso bisogna calmarsi.
La nonna scuoteva la testa, per liberarsi dalla mano di lui; ma egli insisteva, facendole dei cenni d’intesa col capo, e la fissava negli occhi con uno sguardo profondo come volesse suggestionarla e imporle di credere nuovamente in lui.
E a poco a poco ella si calmò: volse un po’ il viso sul guanciale, chiuse gli occhi, non si agitò più.
— Il medico verrà a momenti; sono passato io stesso per chiamarlo, — disse Stefano, sedendosi accanto al letto. E prese la mano di Annarosa, che rabbrividì tutta.
In attesa del dottore e di notizie di laggiù stettero intorno al letto della nonna, parlando sottovoce. La matrigna aveva portato il lume in un angolo, dietro un vaso la cui ombra copriva tutta la camera; ma la luna alta batteva sui vetri e il suo chiarore irradiava l’ombra.
Nei momenti di silenzio si sentiva un usignuolo nell’orto: ed era tutta la frescura della notte sulla valle, l’ondulare degli olivi alla luna e il battere del ruscello al tronco del noce; e un pianto e un riso d’amore, un pianto e un riso di dolore, che tremolavano nel suo canto.
Annarosa piangeva in silenzio, ma già aveva l’impressione che le sue lagrime cadessero sulla valle con le note dell’usignuolo, in una rugiada che smorzava l’incendio e rinfrescava il corpo bruciato dello zio.
fine.