L'incendio nell'oliveto/Capitolo XII

Capitolo XII

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XII.


E quando ci fu chiusa dentro, Mikedda andò a sedersi sulla pietra accanto alla porta, dove usava passare le sue ore la prima moglie del contadino: là anche lei avrebbe passato le sue ore a rattoppare le vesti dello sposo, ad allattare e fasciare i bambini se il Signore gliene mandava.

All’ombra della casetta, stretto fra i muri ciechi delle case e dei cortili attigui, il cortiletto, che conservava l’odore dei buoi e dello strame, pareva un fondo di cisterna, con lunghe erbe che pendevano dai muri, dove neppure il vento arrivava; ma a lei sembrava più vasto di una tanca.

Era suo: lei lo aveva scopato quella mattina stessa e ne conosceva già ogni pietra del selciato: e la casetta, che le si appoggiava silenziosa sulle spalle, era per lei più bella della casa de’ suoi padroni. Ci [p. 256 modifica]si stava bene là dentro: eppure le dispiaceva di non essere sfuggita all’attenzione di Annarosa, di non essere riuscita a tenere la parola data alla vecchia padrona.

Si alzò ed entrò in cucina. Pensò che avrebbe potuto farsi il caffè, ma il fuoco era spento e il contadino aveva portato via con sè l’acciarino. E di zolfanelli, dopo la morte della prima moglie, non ce n’erano più. Sebbene tutto fosse in ordine, il silenzio melanconico delle case disabitate regnava intorno. E lei camminava senza far rumore: salì la scaletta di legno, tirandosi in avanti le sottane per non inciampare; mise la testa fuori della botola, vide il letto e, come sempre quando vedeva il letto, si turbò. Era come l’altare della casa; il punto che racchiudeva il mistero dell’avvenire.

Piano piano emerse su, si avanzò cauta, come se ancora la moglie del contadino giacesse lì malata e la spiasse. Apparteneva ancora alla prima moglie quel letto, e così pure la cassa ch’ella sfiorò con la mano curvandosi a esaminarne la serratura senza la minima idea di tentare di aprirla. Le piaceva solo esaminarne i fiori, gli uccelli, i pesci, il cuore e la luna incisi sul legno scuro lucidato dal tempo; [p. 257 modifica]e vi si accovacciò davanti, sfiorando con un dito i contorni di un pomo nero; poi stette immobile, con le mani sul grembo, e pareva piegata a pregare come davanti a un sarcofago che contenesse i resti dei suoi antenati e di quelli del suo sposo. Infine si alzò e sbadigliò. Cominciava ad annoiarsi. S’arrampicò al finestrino e vide i monti tutti nel sole, coi boschi verdi fra il grigio del granito; e giù l’orto de’ suoi padroni battuto dal vento; ma tosto si ritrasse spaurita e si nascose: Gavino, arrampicato su un albero, l’aveva veduta.

E dopo qualche momento il ragazzo batteva alla porta. Non c’era altra via di scampo che aprirgli. Gli aprì, dunque, ed egli, dopo aver visitato ogni angolo della casa, cercando il contadino, propose di aprire la cassa, poichè una volta, vivendo l’antica padrona, là dentro aveva veduto delle mele cotogne.

— Posso andare a prendere delle chiavi in casa.

Mikedda sedette sulla cassa per difenderla, sebbene fosse chiusa e le chiavi le avesse il contadino. Allora Gavino minacciò di andare a riferire alla nonna ch’ella era lì e non al podere.

— Ah, non mi uccidere! È una cosa [p. 258 modifica]grave. Hai piuttosto un fiammifero? Accenderemo il fuoco e faremo il caffè.

Il ragazzo aveva il fiammifero e Mikedda, mentre preparava il caffè, cominciò a far progetti per l’avvenire.

— Io e mio marito non saremo ricchi, ma andremo sempre d’accordo. Io dico che non mi bastonerà, perchè io starò sempre in casa e farò il mio dovere. Ma non staccare e riattaccare così gli oggetti, Gavino; siedi qui e prendi il caffè. Sì, io dico che non mi bastonerà. Le vicine di casa non faranno storie con me. Se tu però vorrai venire, a visitarmi, quando sarai studente e tornerai nelle vacanze, io sarò contenta di darti il caffè. Ma bada che io non ti chiamerò dottor Gavino; ti chiamerò ancora Gavino e ti darò del tu. Anche tu farai all’amore, se non vorrai farti prete! Non guardare però la serva, altrimenti quella si monta la testa e poi quando si accorge che i padroni devono stare coi padroni e i servi coi servi ne prova dispiacere. Mio marito tornerà il sabato sera e troverà sempre la sua roba da cambiarsi; e la domenica mattina andremo assieme alla messa; e poi se ci sarà qualche festa in campagna, ci andremo ancora, sul carro. Porteremo anche i bambini. [p. 259 modifica]

— Quanti figli avrai? Sette?

— Sette od otto, fa lo stesso: basta che siano buoni e laboriosi come il padre.

— Sì; ma dove li metterai a dormire?

— Dove li metterò a dormire? A letto finchè sono piccoli, o se saranno femmine; i maschi, quando diventeranno grandi, dormiranno sulla stuoia perchè saranno contadini e pastori e non dottori come te. Del resto, se le annate saranno buone, venderemo il frumento o lo presteremo e ce lo faremo restituire doppio, e fabbricheremo un’altra camera per i figli.

— Qualcuno, poi, morrà.

— Dio non voglia! Se li faccio li voglio tener vivi, che mi aiutino nella vecchiaia.

Prenderanno buone mogli, benestanti: povere io non le voglio le mie nuore. Nè povere, nè brutte, nè gelose.

— Tu non avresti un biscotto, da mettere nel caffè, adesso?

— Come vuoi che ci siano biscotti in casa di un vedovo?

— Dentro la cassa, forse, c’è qualche cosa. Andiamo a vedere?

— No, ti dico, la cassa non si deve aprire. Sta lì, non muoverti. Ah, che sento? Mi pare il passo di lui. [p. 260 modifica]

— Ah, ecco perchè eri nascosta qui!

Perchè lo aspettavi.

— Ti giuro no, ti giuro no! — ella gridò, rimettendo in fretta il vassoio. — Egli torna d’improvviso. Scappa, tu, scappa.

Corsero al portoncino, e mentre il ragazzo, sebbene non sapesse perchè, scivolava lungo il muro e spariva, ella si fece da parte per lasciar passare il contadino, turbata per l’improvviso ritorno e per l’aria preoccupata di lui. Egli entrò senza badare a lei: fece passare nel cortile prima l’uno, poi l’altro de’ suoi buoi gravi e neri; li legò ai piuoli del muro e dopo averli spinti uno verso l’altro si lasciò cader seduto, un poco affranto, sulla pietra davanti alla porta della cucina. Mikedda chiuse il portoncino e gli si accovacciò ai piedi per terra col suo atteggiamento da schiava.

— Malato siete?

Egli teneva le mani rugose come artigli aperte sulle ginocchia; il suo viso dorato dalla barbetta rossiccia era indurito da un pensiero penoso, gli occhi, perduto il solito sguardo vivace, erano vaghi e spenti come quelli di un uccello malato.

— Malato sono, — affermò, — e d’una malattia che fa morire.

. Allora Mikedda balzò in ginocchio [p. 261 modifica]mettendogli sopra le mani le sue piccole mani brune. E lo guardava di sotto in su così atterrita che egli volse le mani e strinse quelle di lei sorridendo con tutti i suoi denti bianchi: un sorriso che aveva però qualche cosa di ringhioso.

— Ascoltami, ragazza: è venuto da me un tale, oggi, verso mezzogiorno, mentre guardavo il frumento; un tale, fratello di uno col quale ho fatto il soldato. Ebbene, mi disse che questa notte scorsa, a mezzanotte in punto, suo fratello ha ricevuto l’ordine di presentarsi al Comando militare, ed è stato vestito da soldato e mandato lontano per la guerra che deve scoppiare fra giorni. Ebbene, ragazza, sarà la mia volta, forse, questa notte.

— È questa la malattia? — ella gridò ridendo nervosamente, anche perchè le sembrava ch’egli volesse un po’ spaventarla per burla: — io lo sapevo. Zio Saba me lo aveva detto.

L’uomo la guardò, serio, con le pupille scure; ed ella si lasciò ricadere abbattuta sui calcagni.

— Si può morire in guerra.

— Si può morire. Ma questo è niente. Morire si deve, una volta o l’altra. Ma il malanno è che io ho da mietere e raccogliere il frumento. E i miei buoi a chi li [p. 262 modifica]lascio? Tu sei ancora così giovine, ed io non ho nessuno di cui fidarmi. Ti avessi almeno già sposata. Adesso non faccio a tempo neppure a questo. Eppoi, mi disse quel tale, bisogna anche far testamento prima di partire. Tutto a te lascerò, s’intende.

— Io non voglio nulla. Voglio solo che tornate. O perchè vi mandano alla guerra; non ci sono i soldati? Non andateci: ecco tutto. Perchè non vi nascondete?

— Tu sei idiota, — egli gridò respingendola.

E lei rimase curva con gli occhi spauriti, fissi al portoncino chiuso, come se il nemico ignoto col quale il suo uomo doveva combattere fosse già lì, fuori, e tentasse di invadere la piccola casa e portarsi via i buoi, il frumento, e ammazzare il padrone. Ma in fondo le rimaneva la lampada della vita: la speranza.

— Non tutti muoiono in guerra. Vi ricordate zio Saba? E tornato con una gamba di legno, ma è tornato. E svelto ancora! Va ancora a rubare le olive, nel podere della mia padrona, e si riconosce che è lui dalle orme. E voi siete più svelto di zio Saba: vi salverete. Ne avete passate tante!

Anche lui era certo di salvarsi: ne aveva [p. 263 modifica]passate tante nella sua rude vita di contadino, e si era salvato sempre dai nemici, dai ladri, dai banditi, dalle insolazioni, dalla malaria, dal fulmine e dalla tarantola. Perchè non doveva salvarsi in guerra? Aveva anche una medaglia di Sant’ Elena che preserva dalle fucilate: basta tenerla sempre dalla parte del cuore. Eppoi aveva il suo coraggio, la sua agilità.

Digrignò i denti.

— Lo voglio masticare come carne di cane il nemico. Mi vuole e mi avrà!

Si alzò, si accomodò la cintura come dovesse partire nel momento, poi entrò nella cucina e guardò attorno ad ogni oggetto; salì infine la scaletta e fu nella camera di sopra.

E lei lo seguiva, incosciente, silenziosa e flessuosa come un gattino.

Dapprima egli non badò a lei: anche lassù guardava ogni oggetto, come facendone l’inventario; e pensava con rimpianto alla moglie morta. Fosse vissuta ancora lei; egli sarebbe partito più sicuro della sua roba, con più leggerezza e coraggio. Di Mikedda si fidava fino a un certo punto; era così giovine e ingenua. L’avesse almeno già sposata; una moglie dà sempre attenzione alla roba del marito [p. 264 modifica]e della famiglia. Così, invece, lei poteva anche mettersi a far l’amore con un altro, tirarselo in casa, sciupare la roba.

La guardò. Ella s’era seduta sulla cassa e pareva ne volesse già fare la guardia, pronta a tutto pur di difendere la roba di lui: ed egli si sentì un po’ rassicurato.

Sospirò; trasse la chiave della cassa, la guardò, sospirò ancora: aveva giurato di non consegnarla mai a nessuno se non si sposava una seconda volta. E Mikedda lo sapeva; e arrossì di gioia e di pena quando egli d’ improvviso le gettò in grembo la chiave.

In quel momento intese ch’egli doveva partire davvero e forse mai più tornare; si alzò, dunque, e le parve di salutarlo per l’ultima volta.

— Vi giuro che nulla mancherà di casa vostra: come lasciate troverete.

Allora egli l’afferrò e cominciò a baciarla, con gli occhi che gli brillavano un po’ cattivi, un po’ dolci.

— Cosa devi far mancare se tutto è tuo? Che io torni o non torni, tutto è tuo, tortora.

— È nostro, è nostro.... — ripeteva lei a occhi chiusi, ubriacata dai baci di lui.

E gli si abbandonava senza resistenza [p. 265 modifica]perchè pensava che egli, consegnandole la chiave della cassa della prima moglie, l’aveva già sposata.

Così egli la portò sul letto. Dopo ridiscesero nel cortile; sedettero di nuovo, lui sulla pietra, con le mani sulle ginocchia, lei accovacciata per terra.

— Così avrai un figlio, — disse lui con accento malizioso. — Così se io non torno, la popolazione non diminuisce; e tu baderai alla mia roba per lui. Oh, che fai adesso, donna?

Mikedda piangeva, d’un tratto fatta donna davvero; ma egli le strappò il grembiale dagli occhi, poi le diede un forte colpo alle spalle; ed ella trasalì e si raddrizzò.

Allora egli le mise una mano sulla testa e cominciò a darle istruzioni precise sul come far mietere e raccogliere il frumento, e a chi consegnare i buoi e come pagare le imposte.

Ella ascoltava con attenzione religiosa, ma in pari tempo tendeva l’orecchio, se già si sentiva di lontano il passo del carabiniere che doveva portare l’ordine del Comando militare e travolgere nei mistero spaventoso della guerra l’uomo che oramai era sangue del suo sangue.

Ma tutto taceva nel lucido tramonto. [p. 266 modifica]

Anche il vento era cessato e come uno stupore trepido, un silenzio di attesa era nell’aria. La luce azzurra, soffusa del chiarore obliquo del tramonto, pioveva giù dagli alti muri del cortiletto dando ai grandi buoi immobili un riflesso di bronzo.

E anche l’uomo taceva; ma aveva già il viso e gli occhi schianti, e aspettava con calma l’ordine del Comando militare come un ordine stesso del destino.