L'altare del passato/La Marchesa di Cavour
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LA MARCHESA DI CAVOUR.
Giovanna Maria di Trecesson, Marchesa di Cavour.... Nome che lascia perfettamente indifferenti le nostre signore d’oggi e le fa anzi temere una tediosa rievocazione storica.... Nome che faceva invece sussultare di curiosità le signore di tre secoli or sono, nei salotti della Torino secentesca.
Ed io vedo presso una grande finestra prospicente via Dora Grossa, in sull’imbrunire d’un giorno del 1668, alcune Madame raccolte in gaietto stuolo: la Contessa di Bouteron, la Marchesa di Pianezza e le sue figliuole gemelle, la Contessa di Saint-Jean, la Contessa di Verrua, Madame d’Olivier, ambasciatrice straordinaria e ordinaria di Francia, con la nipote e il nipotino, accogliere fra alte grida di gioia lusinghiera il giovane abate Conte di Verolengo:
— Benvenuto, Monsignore!
— Ci si annoiava terribilmente!
— E per consolarci ma fille nous agacez avec les aventures de Télemac.
— Meglio Bertoldo e Bertoldino!...
— Che novità, Monsignore?
— Siete stato dalla Duchessa?
— Sono stato dalla Duchessa; sono giunto mentre Sua Altezza e la Marchesa di Cavour....
Un balenìo d’occhi e di denti, un corrugare di sopraccigli e di labbra, corre nella penombra elegante.
— Scusate, Monsignore — è la padrona di casa che parla — Ortensia, accompagna Cristina e Maria Adelaide e Serafino a vedere la pauvre Gigette: è l’ora del miele orzato.
Gigette è la canina cinese: sofferente d’intestini ribelli e bisognosa di serviziali e di lassativi quotidiani.
Le Madame si sono appena liberate delle Madamigelle che tutte fanno cerchio all’abate sorridente. Il nome della concubina regale ha suscitato in tutte il demone della curiosità.
— Ebbene? la Duchessa si è accorta di qualche cosa?
— Avanti!
— Ci avete promesso....
— Io non ho promesso nulla. Siete voi che non mi lasciate parlare. Oggi sono giunto a Palazzo mentre la Duchessa e la Marchesa di Cavour....
— Ebbene?
— Si salutavano, abbracciandosi sorridendo....
Delusione generale, indignazione generale.
— Ma non è possibile!
— Non è possibile che la Duchessa non sappia!
— La Duchessa sa. E per questo abbraccia la Marchesa teneramente, per dare alla rivale la fiducia più temeraria e spingerla all’ultima imprudenza.
— Più imprudente di così! L’altro giorno al parco del Valentino, mentre il dottor Operti di Bra recitava a Sua Altezza il complimento dell’Accademia degli Incolti, la Marchesa, che s’annoiava terribilmente, sbadigliò dieci volte, poi s’alzò, passò villanamente dinanzi a Sua Altezza e alle Dame lasciando il consesso contro ogni etichetta del bel costume.
— E vero! Io ero presso una delle finestre che dànno sul Po e vidi la Marchesa scendere le scale, accennare la barca reale dov’era il Duca, il Conte Rebaudengo e un barcaiolo e vidi la barca avvicinarsi e la Marchesa balzarvi dentro, e come il Duca le diede aiuto, essa, nel barcollio, s’abbracciò a lui ridendo, lo tenne stretto assai più del necessario e il Duca rideva e ridevano il Conte Rebaudengo e il barcaiolo.
— E la sconvenienza del giugno scorso, al Castello di Rivoli? Questa, peggio ancora, in faccia alla Duchessa, alla Corte intera, quasi a sfidare la tolleranza di tutte noi. Non ebbe, quella svergognata, la sfrontatezza di salire su un albero di ciliege e di chiamare Sua Maestà con nessuna riverenza e pregarlo di tenderle il cappello mentr’essa lo colmava di ciliege e ne mangiava intanto e schizzava i noccioli dall’alto, bersagliando con motti le dame e i cavalieri?
— Ebbe poi l’inaudita impudicizia di presentarsi alla Duchessa, di offrirle le ciliegie nel tricorno di suo marito e la Duchessa sorrideva tranquilla, sembrava non vedere, non sentire.
— Ma vede, sente, medita, state sicure!
— E soffre. La sotto-governante, ieri, passando nei gabinetti di toeletta, la vide riflessa in uno specchio con sulle ginocchia il principino, mentre baciava i capelli del piccolo e piangeva.
— Ma Sua Altezza il Duca! Come ha potuto posporre una bella sposa di vent’anni a quella svergognata che ne ha trentacinque?
— Trentotto!
— Quaranta!
— Quarantaquattro!
— Signore mie, un momento — interrompe l’abate, che tace sconfitto da qualche tempo. — La verità prima di tutto. Io ho sposata la Marchesa, ho visto il suo atto di nascita. Ha ventott’anni, non ancora compiuti.
— Peggio ancora!
— Che disastro! Il belletto non le aderisce alla pelle, le traccia un solco tra ruga e ruga....
— Alla luce del giorno è uno sfacelo....
— E non alla luce del giorno soltanto!
E le belle madame incrudeliscono e ognuna trova un commento più atroce, ognuna scaglia anatemi e invoca il castigo umano e divino sulla svergognata Marchesa, con veemenza tanto più forte in quanto che ognuna di quelle Dame vorrebbe essere in cuor suo nei panni della concubina famosa....
Oh malinconica Torino del 600, più triste ancora della Torino settecentesca, così triste che io non so immaginarla alla luce del sole, ma la vedo in una perpetua mezz’ombra crepuscolare, nella sua meschinità quasi ancora medioevale con le sue mura, le sue torri, le sue porte, con la sua piazza del Castello dagli edifici miseri e grigi che ancora attendono di fiorire al genio architettonico di Filippo Juvara!
Come trascorreva la vita in quel Palazzo reale che Carlo Emanuele aveva fatto erigere pochi anni prima, squallido edificio ancora ben lungi dall’imponente eleganza e dalla ricchezza che gli conferirono poi Amedeo II e Carlo Emanuele III? In pace trascorreva la vita, da quasi un trentennio, dopo la tremenda guerra civile del 1640. Una grande figura di donna, ormai sessantenne, vi profilava la sua ombra grandiosa: Madama Reale, quella Cristina di Francia che, rimasta vedova di Vittorio Amedeo I, per salvare gli Stati al figlio giovinetto Carlo Emanuele II non aveva esitato a muover guerra ai cognati Principe Tommaso e Cardinale Maurizio, non aveva esitato a fare la cosa inaudita nella storia delle guerre civili, uscire per assediare la sua città bene amata, costringere i suoi cari torinesi alla fame, forzarli, dopo cinque mesi d’assedio atroce, alla resa e nel 1640 la città s’arrendeva e la Duchessa vittoriosa (cosa commovente e tragica!) rientrava nella sua Torino vestita a lutto per la vittoria riportata contro i suoi sudditi.
Quasi un trentennio era trascorso. Carlo Emanuele II si era fatto uomo, aveva preso dalle mani della madre lo scettro luttuoso, si era rivelato, a poco a poco degno nipote di Emanuele Filiberto e degno d’esser chiamato l’Adriano del Piemonte. Il Piemonte rifioriva. La Francia esercitava sopra Torino, non per diritto, ma per fatto, un supremo dominio, ma la dipendenza era velata da speciose ragioni di protezione, d’amicizia, di parentela. Si preparavano in silenzio i giorni ribelli e gloriosi di Vittorio Amedeo II.
Ma l’influenza della Francia non era soltanto politica, si faceva sentire nell’arte e nei costumi. La Corte torinese era improntata a quella di Parigi e certo sul bell’esempio dei Re Luigi qualche sovrano di Piemonte si concedeva il lusso di qualche favorita.
Su Carlo Emanuele II non avevano tuttavia influito nè l’esempio dei cugini d’oltr’Alpe, nè l’eleganza della Senna, delle Grazie madre; la sua vita coniugale non lieta, e non per colpa sua, l’avevano costretto a cercarsi altrove altre consolazioni. Le sue prime nozze con quella dolce Francesca d’Orléans, chiamata, per la sua bellezza e per la sua grazia, minuscola Colombina d’Amore, nozze felici quant’altre mai, erano state troncate dopo un anno appena dalla feral Parca maligna, come canta un accademico del tempo. E il giovane sovrano aveva consolata la sua vedovanza con varie dame: Gabriella di Mesme di Marolles, moglie del Conte Lanza (sono pettegolezzi di tre secoli, resi pubblici da cento monografie; non è quindi..... indelicatezza di far nomi, date, episodi) dalla quale ebbe due figli: Carlo Francesco Agostino, Conte delle Lanze e di Vinovo e Carlo detto il Cavalier Carlino. Ma Gabriella di Mesme fu congedata ben tosto per Giovanna Maria di Trecesson, Marchesa di Cavour. Il Duca ebbe da lei un figlio: don Giuseppe di Trecesson che fu abate di Sixt in Savoia e poi di Lucedio in Piemonte e due figlie: Cristina e Luisa Adelaide.
La ragion di Stato, anzi l’amorosa ragion di Stato, come canta un altro accademico cortigiano, costrinse Carlo Emanuele II a passare a seconde nozze con Giovanna Maria di Savoia Nemours. Il Duca con questo maritaggio faceva rientrare nel dominio della sua corona le Provincie del genovese e del Faussigny. Le nozze furono splendide e la sposa, giovinetta, entrò in Torino inghirlandata di tutti i fiori e e di tutte le speranze, accolta non come una straniera che giunge, ma come una sorella che ritorna.
“Vorressimo scrivere — dice il Castiglione — con penna tolta dalle ali di Cupido le dimostrazioni di pubblica allegrezza per questo inclito maritaggio.
“La humana imaginatione non arriva a concepire il giubilo vicendevole dei suoi amatissimi sposi.
“Pervenuta la sposa in Torino Madama Reale voleva andarle incontro in carrozza, ma, non godendo di ferma salute, fu necessitata di aspettarla al castello.
“Ascesa la Regale Sposa, le scale del Palagio fra suoni di trombe, rimbombo di tamburi, spari di moschetterie e di mortaretti fu incontrata alla porta del salone da Madama Reale, sua suocera, accompagnata dalle principesse e grandissimo stuolo di Dame. Qui accolta, abbracciata e per tre volte baciata con lacrime, indubitati segni di grande affetto, fu da essa complimentata con quei termini che le somministrò la sua naturale gentilezza e facondia incomparabile, veramente regia.
“Corrispose in modi ossequiosissimi molto espressivi dell’amor riverente dovuti a sì gran Madre la sposa reale.
“Volle Madama Reale in ogni modo condurla alle sue camere tutto che resistesse quella quanto potè.
“Le loro Altezze Reali passarono interi giorni tra le ricreationi di musice diverse, fra banchetti solenni, pubblici e alcuna volta privati, ma non men deliciosi, e luminarie e fuochi artifitiali e altri passatempi.„
Ohimè, la luna di miele col suo alone roseo d’illusioni, doveva durare ben poco e la bella sposa — pur con tutta la ingenuità dei suoi diciotto anni — non doveva tardar molto ad accorgersi che nello stesso Palazzo, accanto a lei, seduta alla stessa mensa, al corso, a teatro viveva un’altra sposa del Duca, più antica di lei, terribile di tutta la sua bellezza matura ed esperta, forte da anni e anni d’un’influenza incondizionata, armata d’un’alterigia temeraria, armata, cosa più atroce di tutte, di una figliolanza clandestina, ma riconosciuta dal Duca, amata, collocata in vari collegi di Francia e di Lombardia: la Marchesa di Cavour. È certo, la Duchessa baciava tremando il capo d’oro dell’unico figliolo, tremando per sè e tremando per lui. Quale spaventosa tragedia, silenziosa come la fiumana che serpeggia sotterra, doveva tumultuare nel piccolo cuore non ancora ventenne!
— La Duchessa? non s’accorge di nulla, non vede nulla, non sente!
Vedeva, sentiva, aspettava che il calice fosse colmo....
E il calice fu colmo.
La noia dei salotti secenteschi torinesi fu un bel mattino rallegrata da una novella incredibile.
La Duchessa è fuggita dal Palazzo.
Dov’è? Fuggita? Ma no! È a diporto a Moncalieri. A Druent. Ritornerà domani. Non ritornerà mai più.
Non ritornerà mai più! S’è accorta di tutto finalmente! Ha sorpreso il Duca con la Marchesa. Finalmente!
Il Duca aveva lasciato la Corte l’altro giorno per la Veneria dicendo d’aver ritrovo di caccia col cugino, l’abate Visconti, che veniva da Milano. La duchessa era rimasta a Torino accusando vapori al cervello, mettendosi a letto, facendosi anzi praticare due salassi consecutivi dal dottor Vinadi, che le prescrisse riposo per quindici giorni. Invece, nella notte successiva la Duchessa fu vista arrivare alla Veneria alle tre del mattino, in una berlina da viaggio, seguita da due governanti e da quattro staffieri. Balza al portone. Le guardie le proiettano in volto la lanterna rossigna, allibiscono, vietano il passo supplicando, implorano quasi piangendo la Duchessa di non salire: ne va della loro vita! La Duchessa legge la verità negli occhi dei soldati tremanti, spezza la catena delle braccia robuste, balza su per le scalee, irrompe nelle sale.
E poi?
Poi nessuno ha visto. Qualcuno ha sentito. Dalla grande camera d’angolo detta l’Alcova delle tre Grazie — pure attraverso le finestre chiuse — giungevano le strida della Marchesa di Cavour, la voce convulsa del Duca, la voce irriconoscibile della giovane Duchessa. Poi più nulla. Fu vista uscire la Duchessa livida, disfatta, fu vista raggiungere barcollando la berlina e la berlina partire di gran carriera, seguìta dai quattro staffieri a cavallo. La Duchessa è ritornata in Francia.
Torino è annichilita. Passano due, tre, quattro giorni. La notizia è ormai diffusa nella nobiltà, nella borghesia, nel contado; la Duchessa è in Francia! No! Non è vero, impone di credere un ordine di Corte, affisso sulla piazza del Castello. La Duchessa è sofferente e tiene il letto da quindici giorni, si celebrerà anzi un Te Deum per implorare dal cielo la sua certa guarigione. Ma nessuno crede a quella commedia, la verità è risaputa; la Duchessa tradita è ritornata presso la sua famiglia d’oltr’Alpe come una bourgeoise qualunque che ritorna dai suoi.
Ma al quinto giorno un’altra notizia sbigottisce Torino: la Duchessa rientrerà fra poche ore in citta! Non è stata ammalata, è stata a diporto fino a Chambéry, impone di credere un nuovo avviso di Corte. Il popolo esulta, ma anche in questo è risaputa ben presto tutta la verità. Uno squadrone, dopo la fuga notturna della Duchessa, s’è precipitato, per ordine del Duca, sulle tracce della fuggitiva, ha costretto con le armi spianate la berlina reale a far ritorno a Torino. E la Duchessa ritorna pallida, disfatta, rientra in Torino sorridendo debolmente alla folla plaudente.
— Se non fosse di suo figlio — commenta qualche madre tra la folla, — scommetto che si sarebbe piuttosto lasciata ammazzare che far ritorno.... Povera donna!
Verità storiche, registrate dagli archivi polverosi, ma noi non cercheremo la conferma nel tedio delle antiche carte. Tutto l’episodio commovente è chiuso in una canzone popolare fiorita in quei giorni, canzone che non si canta più, ma che è certo tra le più belle e più significative del folklore subalpino, riportata e tradotta dal Nigra nella sua raccolta di canzoni piemontesi.
LA MARCHESA DI CAVOUR.
Sua Altessa l’è muntà an carossa,
An carossa l’è bin muntè
Che a la Venaria a vol andè.
Quand a l’è staita a la Venaria,
L’à butà le guardie tut anturn
Per la Marcheza di Cavour.
Bela madamin munta an carossa,
An carossa l’è bin muntè,
A la Venaria la vol dco andè.
Quand a l’è staita a la Venaria,
Llà trova le guardie tut anturn
Per la Marcheza di Cavour.
Bela Madamin sforza le guardie,
E le guardie l’à bin sforzè;
Per cule stanse la vol andè.
Quand l’è staita ant cule stanse,
La Marcheza l’à trova cugià
E Sua Allessa da l’auter là.
— Me ve ringrassio, sura Marcheza,
Sura Marcheza, v’ ringrassio tan,
Che vi sia fait un sì bel aman.
Sura Marcheza a j’ à ben dì-je:
— So-sè l’ì pa del me piazì;
L’è Sua Allessa ch’à vol cozì.
Sua Allessa a j’ à ben dì-je;
— Bela Madamin, stè chietà vui,
La Marcheza l’è pi bela ch’ vui.
Bela Madamin munta an carossa,
An carossa l’è bin muntè.
Che an Fransa la vol turnè.
Quand l’è staita a metà strada,
Bela Madamin s’svolta andarè,
A l’à vist avnì dui vale-d-piè.
— O ferma, ferma, ti dla carossa.
Ferma, ferma, che t’ farò fermè,
E dentre na tur t’ farò butè.
Bela Madamin ch’a j’à ben dì-je:
— S’a fussa nen del me fiolin,
Già mai, già mai turneria a Turin.
Quand l’è staita pr’ antrè ant le porte
tuti fazio solenità;
Bela Madamin a l’è turnà.
L’à mandà ciamè stira Marcheza:
— Mi vi dag temp sulament tre dì,
An sum me Stat fermè-ve pa pi.
Traduzione: Sua Altezza è montata in carrozza, in carrozza è ben montata, che alla Veneria vuol andare. Quando fu alla Veneria, mise guardia tutt’attorno per la Marchesa di Cavour. La bella Madamina monta in carrozza, in carrozza è ben montata; alla Veneria vuol pur andare. Quando fu alla Veneria, trovò le guardie tutt’attorno per la Marchesa di Cavour. La bella Madamina forzò le guardie, le guardie ben forzò; per quelle stanze la vuol andare. Quando fu in quelle stanze, trovò la Marchesa coricata, e Sua Altezza dall’altro lato. — Vi ringrazio, signora Marchesa, signora Marchesa, vi ringrazio tanto, che vi abbiate fatto un sì bell’amante. — La signora Marchesa ben le disse: — Questo non è di mio piacere; gli è Sua Altezza che vuol così. — Sua Altezza ben le disse: — Bella Madamina, state zitta; voi. La Marchesa è più bella di voi. — La bella Madamina monta in carrozza, in carrozza ben montò, che in Francia la vuol tornare. Quando fu a metà strada, la bella Madamina si volta indietro, vide venire due staffieri. — O ferma, ferma, tu cocchiere; ferma, ferma che ti farò fermare, e dentro una torre ti farò cacciare. — La bella Madamina ben gli disse: — Se non fosse del mio figliolino, mai più, mai più non tornerei a Torino. — Quando fu per entrare nelle porte, tutti facevano solennità. La bella Madamina è tornata. Mandò a chiamare la signora Marchesa: Io vi dò soltanto tre giorni di tempo, sul mio Stato non fermatevi più.
El fiolin doveva essere col tempo quel Vittorio Amedeo II, iniziatore d’un’êra veramente nuova e gloriosa nella storia d’Italia. E il sacrificio della Duchessa umiliata, ricondotta alla casa del tradimento come una prigioniera, non doveva essere un vano olocausto del suo cuore di sposa infelice al suo dovere di madre regale.