L'Utopia (1863)/Libro primo
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LIBRO PRIMO
Giovanni Clemente, Itlodeo, Tommaso Moro, Pietro Egidio.
Avendo Enrico VIII, invittissimo re d’Inghilterra, ed ornatissimo d’ogni virtù che si ricerchi in principe egregio, certa controversia con Carlo, serenissimo principe di Castella1, mi mandò ambasciatore in Fiandra in compagnia di Cutherto Tunstallo, creato da esso re poco avanti tesoriero con comune allegrezza di tutti, delle cui lodi non ragionerò; non già che io tema che l’amicizia, la quale tengo con esso renda meno fedele il mio testimonio di lui, ma perchè la sua virtù e dottrina supera ogni mio sforzo di poterla magnificare, ed è tanto nota e illustre, che il mio volerla far più chiara, sarebbe con piccola luce far lume al sole. Ci vennero contro a Brugi (così era ordinato) quei che trattavano li bisogni del principe, uomini egregi; ed era di quest’ambasceria capo il prefetto di Brugi, uomo magnifico, avendo seco quel veridico Giorgio Temsicio preposto Casseletano, non solo per arte, ma eziandio per natura eloquente; oltre che è nelle leggi peritissimo, e per lungo uso artefice esperto a trattare quest’imprese. Avendo una e due fiate parlato insieme, nè essendo d’accordo in alcune cose, essi andarono a Brusselles per intendere la mente del loro principe. Io, come portavano i casi miei, andai in Anversa, ove fui visitato da molti, e spesso da Pietro Egidio, anversano, e tra suoi nobilissimo, giovane non meno dotto che costumato, e verso gli amici tanto pronto con amore, fede e sincero affetto, che a fatica troverei uno che lo ragguagliasse nell’essere in ogni atto d’amicizia singolare. Egli è di rara modestia senza finzione alcuna, e di singolare semplicità. Il suo parlare è tanto piacevole e senz’altrui offendere giocondo, che il desiderio mio di rivedere la patria, la moglie ed i figliuoli miei, i quali già più di quattro mesi non avea veduto, meno mi affliggeva, godendo la sua dolce conversazione e gratissimo parlamento. Essendo io un giorno a messa nella magnifica chiesa di santa Maria, molto dal popolo frequentata, e già stando per ritornarmi all’albergo, io veggo a caso Pietro ragionare con un forestiero che già cominciava ad invecchiare, con faccia adusta, lunga barba ed il mantello che gli pendeva dalla spalla, come colui che di ciò poca cura si pigliava: e nel volto e nell’abito lo giudicai un nocchiero. Pietro, vedutomi, venne a salutarmi, e, trattomi da parte, mi disse: vedi tu costui? (e mostrommi quello col quale l’aveva veduto parlare) già mi affrettava di condurlo a te. Egli, diss’io, mi sarebbe stato per tua causa gratissimo. Anzi, rispose Pietro, l’avresti avuto caro per sè stesso, perchè non vive ora uomo alcuno, che tanta storia di uomini e paesi non conosciuti ti possa narrare, del che so che sei sommamente bramoso. Risposi io: non mi ha ingannato il giudizio, perchè nel primo aspetto mi parve un nocchiero. Tu pigli errore, disse Pietro; perciocchè egli ha navigato non già come Palinuro, ma come Ulisse o Platone. Costui si chiama Raffaello e per cognome Itlodeo2, non ignorante della lingua latina, ma della greca peritissimo, in cui egli s’è più esercitato, perchè datosi tutto alla filosofia, nella quale però non ha letta in latino cosa di momento, se non alcuna di Seneca e di Cicerone. Costui è di Portogallo, e lasciato a’ suoi fratelli il patrimonio, per desio di veder del mondo, si accostò ad Americo Vespucio, e nelle tre ultime di quelle quattro sue navigazioni tanto famose gli fu di continuo compagno; se non che nell’ultima non ritornò con lui. Anzi quasi con violenza da esso ottenne di essere tra quei ventiquattro, che nel fine del navigare si lasciavano nel Castello. Così fu lasciato per piacere, essendo egli più curioso di peregrinare, che di fabbricarsi un sepolcro; ed è solito di dire: «Viene coperto dal cielo chi non ha sepoltura3, e da ogni luogo è tanta via al cielo come dall’altro.» Il qual discorso gli sarebbe costato caro, se Dio per sua benignità non lo avesse aiutato. Partito Vespucio, egli andò con cinque castellani a veder molti paesi, e con buona sorte afferrò a Taprobana ed indi pervenne a Calicuta4, ove trovate le navi de’ Portogallesi, tornò contra ogni suo sperare nella patria. Udito questo, gli rendei grazie della sua umanità, che si avesse pigliato cura di farmi ragionare con uomo, il cui parlamento sapeva essermi gratissimo: e salutato Raffaello, dopo quelle comuni parole d’amendue, che con forastieri si sogliono usare nel primo incontrarsi, andammo alla casa mia. E sedendo nell’orto sopra uno scranno di cespugli, egli ci narrò come partito Vespucio, esso e i compagni lasciati nel Castello cominciarono con benignità a praticare con le genti del paese e indi a poco tempo trovarsi tra loro famigliarmente; per esser giunti ad un principe di quella regione, il nome del quale non si ricordava, il quale benignamente provvide a lui ed ai cinque compagni la spesa per lo viaggio, con una fedelissima guida, con zattere per acqua e in carro per terra, da cui erano condotti ad altri principi con la diligente raccomandazione di questo. Mi narrava egli di aver veduto molte terre, città e repubbliche bene ordinate. E che sotto la linea equinoziale, d’amendue le parti, quanto è largo il cerchio del sole, erano gran solitudini dal continuo caldo arsicciate e squallide, abitate da fiere e da serpi, ovvero da uomini poco men che le bestie feroci e nocivi. Ma che passando assai più avanti, ogni cosa vi si trova domestica. L’aria meno aspra, il terreno con più grata verdura, e gli animali più benigni. Finalmente si scoprirono popoli, città e terre che fanno mercato tra loro, e con paesi lontani e vicini. Indi egli potè di qua e di là andare a vedere molti paesi, perchè niuna nave si apparecchiava a viaggio, nella quale esso ed i compagni non fossero benignamente accettati. Le navi da lui vedute nelle prime regioni aveano la sentina piana, le vele di papiro o di vimine, ed altrove di cuoio. Trovarono poi navi con la sentina acuta e le vele di canape: nel rimanente del tutto alle nostre simili, ed i nocchieri esperti del mare e dell’aria. E dice che fece cosa gratissima a quelli mostrando loro l’uso della calamita, il quale non sapevano ancora. Laonde poco navigavano nel verno. Ed ora, fidandosi di quella pietra, navigano ancor nel verno tenendosi sicuri; quantunque potrebbe tal sicurezza per l’imprudenza causare loro molti mali. Sarebbe lungo narrare particolarmente ogni cosa da lui veduta in qualunque luogo; ma forse ne ragionerò altrove: specialmente di quelle cose, la cui cognizione può giovare, come gli ordini di ben vivere da lui considerati nelle repubbliche: perchè noi di queste cose a preferenza l’interrogavamo, delle quali esso volentieri ragionava, tacendo de’ vari mostri tanto frequenti che non sono tenuti per cose nuove. Trovavansi quasi in ogni luogo scille, arpie rapaci e lestrigoni, che mangiano carne umana. Molti nuovi popoli malamente in alcune cose ordinali, ed ancora altri esempj de’ buoni istituti, con i quali si potrebbono correggere; questi furono da lui notati, dei quali altrove parleremo. Ora ho determinato di narrare solamente quanto egli disse dei costumi ed ordini degli Utopiensi; premettendo un parlare, mediante il quale perveniamo a ragionare di questa repubblica. Avendo Raffaello prudentissimamente narrato molti errori qua e là veduti, e molti buoni istituti così appo noi come appo loro ordinati, ed avendo in memoria la forma del vivere di quei popoli, non meno che se avesse passato tutta la sua vita in ogni terra, ove si era trovato; Pietro, maravigliandosi di lui, disse: io stupiscono, o Raffaello, che non ti accosti a qualche re, al quale veramente saresti carissimo; quando che con tale dottrina e perizia dei luoghi e degli uomini non solo potresti dargli diletto, ma eziandio ammaestrarlo con esempj, e con consigli aiutarlo; e parimente provvedere a’ casi tuoi ed al comodo de’ tuoi parenti ed amici. Risposegli: non mi piglio molta cura coi miei, verso i quali parmi di aver già fatto il debito mio, avendo nella mia gioventù, e trovandomi sano, distribuito tra amici e parenti quei beni, che gli altri nella vecchiaia e vicini a morte mal volentieri lasciano; e penso che debbano starsi contenti di questa mia benignità, senza aspettare che per loro causa io mi faccia servo dei re. Io, disse Pietro, non chiamo questa servitù, ma giudico esser via acconcia non solamente di giovare agli altri in pubblico e privatamente, ma eziandio a fare lo stato tuo più felice. Come lo farei, disse Raffaello, più felice con quella via dalla quale tanto l’animo mio abborrisce? Ora io vivo a mia voglia, il che per mio avviso avviene a pochi cortigiani. Assai sono quelli che bramano l’amicizia di uomini potenti; laonde fia poco danno se questi mancheranno di me, o d’un altro a me simile. Allora, diss’io, è noto, o Raffaello, che tu non brami ricchezze nè potenza, ed onori più un uomo del tuo parere, che ogni re o principe. Ma farai impresa degna di te e di quest’animo generoso e veramente filosofo, se con qualche tuo particolare disconcio accomoderai questo tuo ingegno ed industria a giovare al pubblico: il che non puoi fare con maggior frutto, che essendo consigliere di qualche principe, persuadendolo ad opere giuste ed oneste, come certo mi credo che farai. Perciocchè un fiume di tutti i beni e mali deriva dal principe, come da una fonte, nel popolo. E in te è tanta dottrina, che senza l’esperienza di cose grandi, e tanta perizia di molte cose, che senza dottrina potresti essere ad ogni re egregio consigliere. Ti pigli errore in due modi, o Moro mio, rispose Raffaello, prima in me, e poi nella cosa istessa: perchè non è in me la facoltà che mi assegni, e posto che vi fosse, io turbando la mia quiete, non gioverei punto alla repubblica. Primieramente i principi si occupano piuttosto negli studj della guerra, della quale io sono inesperto, che in arti di pace; e più studiano ad acquistare nuovi regni, che a ben governare gli acquistati. Oltre di questo niuno de’ consiglieri dei re è tanto savio che non abbia bisogno, o tanto si tiene savio, che non condescenda a confermare l’altrui consiglio, come che sia sconvenevole; e non vada a verso a coloro, che veggono essere più grati al principe. Siamo tali per natura che ognuno si compiace de’ suoi trovamenti. Così piacciono al corvo i suoi polli ed alla scimia i propri figliuoli. Se alcuno in quella compagnia d’invidiosi, e che prepongono le proprie cose alle altrui, narrerà qualche cosa letta da lui, che sia stata fatta per altri tempi o veduta in altri luoghi; quei che odono si pensano che ogni loro reputazione di sapienza sia giudicata vana, ed essi per pazzi tenuti, non sapendo che riprendere negli altrui trovamenti. E mancando loro ogni via, ricorrono al dire: tali cose piacquero ai nostri maggiori, la cui prudenza piacesse a Dio che potessimo ragguagliare: e, come avessero al tutto vinto, si acchetano. Quasi fosse uno strano pericolo il ritrovare alcuno più prudente dei nostri maggiori, i cui buoni consigli lasciamo però da parte, e trovato qualche miglior consiglio di subito lo teniamo strettamente. Ed io sovente mi sono abbattuto altrove, ed una fiata in Inghilterra, in questi superbi, sciocchi e difficili giudizj. Sei stato, diss’io, appo noi? Vi fui, rispose Raffaello, non molto dopo quella misera sconfitta, quando la guerra civile degli Inglesi occidentali contro il re fu con loro miserabil strage finita. In quel tempo molto ebbi da rendere grazie a Giovanni Mortono, arcivescovo cantuariense e cardinale, e dell’Inghilterra in quel tempo cancelliere; uomo, o Pietro mio (non dico a Moro che lo conobbe), non meno per sua prudenza venerabile, che per virtù. Era egli di statura mediocre, e robusto nella molta età; la faccia piuttosto da esser riverita che temuta; nel parlare affabile ma con gravità. Dilettavasi di parlare con qualche asprezza ai supplicanti, senza però offender quelli. Cercava di spiare che ingegno, che ardire avesse ciascuno, e trovandovi la virtù alla sua somigliante, se ne serviva nelle imprese. Era nel parlare elegante ed efficace: perito nelle leggi civili, di mirabile ingegno e prodigiosa memoria. A tanta altezza lo condusse l’egregia natura col suo esercitarsi nel parlare e nel bene operare. Parevami che il re molto credesse a’ suoi consigli, e si fermasse in lui la repubblica, come in quello che dalla sua gioventù fu dalla scuola spinto nella corte; od a sua età aveva praticato in alte imprese, e con vari travagli di fortuna era stato continuamente conquassato; ed avea imparato la prudenza delle cose tra grandi pericoli, la quale così appresa non facilmente si perde. Trovandomi alla sua tavola, un laico perito delle vostre leggi, presa non so quale occasione, cominciò a commendare quella rigida giustizia contra i ladri, la quale ivi allora esercitavasi, e ehe tal fiata ne erano stati appesi venti ad una forca: laonde si maravigliava donde avveniva che si trovassero tanti ladri, quando che così pochi scampavano dal supplicio. Allora io, avendo ardire, alla presenza del cardinale gli risposi: non ti maravigliare di questo; perciocchè tal supplicio è fuori di giustizia, nè giova al pubblico, essendo troppo atroce a punire i furti, nè bastante a raffrenarli. Certamente il semplice furto non è tanto peccato che si debba con morte punire. Nè alcuna pena, per grande ch’ella sia, può raffrenare dai latrocini quei che non hanno imparato arte alcuna di acquistarsi il vivere. In questo non voi soli, ma buona parte del mondo imita i cattivi precettori, i quali battono più volentieri gli scolari che insegnare a quelli. Si determinano contra i ladri gravi supplicj, quando piuttosto era da provvedere che avessero onde guadagnarsi il vivere, perchè non venissero a così strana necessità di rubare, e poi perdervi la vita. È loro provvisto copiosamente, rispose colui: sonovi le arti meccaniche e l’agricoltura: con queste si potrebbono provvedere, quando non volessero spontaneamente esser cattivi. Non vale questa ragione, diss’io. Tacciamo primieramente di coloro che dalle guerre esterne o civili tornano a casa troncati dei membri, come poco fa avvenne appo voi dalla guerra cornubiensi, e non già gran tempo dalla francese, i quali per la repubblica o per difendere il re hanno perduto i membri: questi non possono per la debolezza esercitare le solite arti, nè per l’età impararne d’altre: tacciamo dico di questi, quando le guerre succedono l’una all’altra. Consideriamo quelle cose che ogni di avvengono. Tanto è il numero dei nobili, i quali come api inutili, stanno in ozio, e radono fin sul vivo i loro lavoratori per accrescere le proprie entrate. Perchè non sanno questi dissipatori altra via di acquistare, e si menano dietro un gregge di servitori che non hanno imparato arte alcuna. Questi, morto il padrone, ovvero infermandosi, vengono cacciati di casa: perchè li nodriscono più volentieri oziosi che infermi: e spesse volte l’erede del morto non può nodrire tanta famiglia così di subito: laonde essi sono dalla fame assaliti fieramente, se non sono a rubare valorosi. E che altro possono fare? Quando che se vanno alquanto tempo errando, consumano le vesti e infermano: laonde essendo poi squallidi per l’infermità e vestiti di grossi panni, non si depilano i nobili di riceverli, e i contadini temono di accettarli, sapendo che l’uomo nodrito nell’ozio in delizie, ed avvezzo di andare con la spada e fiero viso sprezzando la vicinanza, non è atto con la zappa e la marra di guadagnarsi il parco vivere e servire ad un povero fedelmente. Rispose colui: dobbiamo noi mantenere simili uomini, che sono di più generoso spirito che gli artefici e i contadini. Questi sono i nervi dell’esercito. Con la stessa ragione, diss’io, manterremo i ladri, de’ quali non mancherete, sin che avrete tali uomini. Sono gli assassini buoni soldati, e i soldati gagliardi assassini: tanto queste arti si rassomigliano insieme. Questo vizio però è quasi comune a tutte le nazioni. In Francia è una peggiore pestilenza: tutta la patria è piena di soldati stipendiarj quando è pace, se però quella si può chiamar pace, con quest’istessa persuasione, che sia bene avere uomini esercitati alla guerra, la quale si debba quasi cercare, acciocchè, come dice Sallustio, la mano e l’animo non comincin per ozio ad intiepidirsi. Ma quanto sia pernicioso nodrire queste bestie, la Francia con suo danno se ne è avveduta, e gli esempi dei Romani, Cartaginesi e Soriani lo manifestarono: quando che tali uomini non solo rovinarono l’imperio di quelli, ma le città ancora ed i campi. Mostrasi ancora che questo non vi sia necessario, chè i soldati francesi dalla puerizia nelle armi esercitali sono stati vinti dal vostro esercito raccolto allora: non dirò più, per non esser tenuto assentatore. Quei vostri artefici e contadini non sogliono temere di questi spadaccini, i quali tenuti deliziosamente diventano di animo vile ed effemminato. Finalmente non mi pare che giovi questo per stare apparecchiati alla guerra, la quale non avete se non quando vi piace. Avvi poi un’altra necessità di rubare, a voi particolare. Quale è questa? disse il cardinale; ed io risposi: le vostre pecore, le quali per addietro furono tanto mansuete e parche nel mangiare, ed ora sono tanto feroci e divoratrici, che consumano gli uomini, i campi, le case e le città. Perchè ove nel regno nasce lana più sottile e di maggior prezzo, ivi i nobili ed alquanti abati santi uomini, non contenti delle entrate annuali che sogliono pigliare dei loro larghi poderi, nè bastando loro di vivere delicatamente, senza giovare alla repubblica, anzi noiandola, rovinano le case, abbattono le terre per lasciare alle pecore più larghi paschi. Come se occupassero poco terreno le selve e i vivai, quei buoni uomini fanno dei luoghi abitati e coltivati un deserto. Così, perchè un insaziabile divoratore rinchiuda infiniti campi, sono cacciati i lavoratori, e con inganni privati dei loro beni, o con ingiurie continue astretti a venderli. Così pur sono i miseri forzati a partirsi, maschi e femmine, moglie e mariti, orfani e vedove, padri con i piccioli figliuoli, e famiglia piuttosto numerosa che ricca. Si partono, dico, dai soliti luoghi senz’aver dove ridursi; le povere masserizie sono vendute a vil prezzo: il quale poichè hanno in breve tempo consumato errando qua e là, che altro possono fare che rubare ed essere appiccati (vedete voi con qual giustizia) ovvero mendicare? benchè allora sono imprigionati come poltroni che non vogliono lavorare; e quantunque essi più che volentieri lavorerebbero, essendo condotti al lavoro. Ma non lavorandosi il terreno, che è l’arte loro, altro non sanno che si fare: quando che un pecoraro ed un bifolco bastano a coltivare quel terreno, il quale prima aveva bisogno di molte mani. Perciò la vittovaglia in molti luoghi è cara. Il prezzo delle lane tanto è cresciuto, che i poveri, usati di fare i panni appo voi, non ne possono comperare, e perciò molti stanno in ozio. Ed aumentati i pascoli, una pestilenza, per divina vendetta, ha ucciso infinite pecore, la quale più giustamente doveva uccidere gli avari padroni; tuttavia quantunque cresca il numero delle pecore, non iscema il prezzo delle lane. Perchè sono in mano di pochi e ricchi, i quali le vendono quanto loro piace, perchè non sono astretti di venderle. Sono cari eziandio gli altri animali, perchè rovinate le ville non v’è più chi abbia cura di allevarne. E i ricchi non così pigliano cura di allevare altri animali, come le pecore; anzi comperandoli altrove magri, poichè sono ingrassati nei loro pascoli, li rivendono a gran prezzo. Questo incomodo non ancora si comprende al tutto. Ma poichè saranno esausti quei luoghi ove si comprano, quivi ne patirete estrema carestia; dalla quale specialmente era libera quest'isola. Causa questa penuria, che i padri di famiglia mandano via di casa quanti possono: e dove? Se non a mendicare, ovvero a rubare, al che sono piuttosto persuasi gli animi generosi. A questa misera povertà si aggiunge il vivere lussurioso e dilicato, perchè i famigliari dei nobili, gli artigiani e i contadini vestono troppo sontuosamente, ed usano cibi troppo delicati. Nei postriboli, nelle taverne, nei vari giuochi impoveriscono, laonde poi sono astretti di andar a rubare. Cacciate queste perniciose pesti, ordinate che rifacciano le ville e le terre coloro che le hanno rovinate, o che le lascino da altri riedificare. Raffrenate le compre di questi nobili, rimettete in assetto l’agricoltura ed il lavorio di lana; acciocchè si possano occupare questi ladri per povertà, e i mendichi, ovvero gli oziosi ministri. Se non provvedete a questi mali, invano si commenda la severa giustizia contra i ladri, piuttosto bella, che onesta ed utile. Perchè allevarli pessimamente in corrotti costumi, e volerli punire quando sono cresciuti nel vizio, altro non è che farli ladri per appiccarli. Erasi quel giureconsulto apprestato di usare il costume de’ disputanti, i quali meglio replicano le cose dette, che rispondono; e disse: Tu, essendo qui forestiero, ottimamente hai parlato, come io ti mostrerò, replicando le tue ragioni, ed a quelle rispondendo. Cominciando dal primo, parmi che quattro cose.... Taci, gli disse il cardinale, perchè vuoi esser troppo lungo nel rispondere: ma ti riservo per il seguente giorno, se non occorre altro impedimento. E volto a me disse: vorrei, o Raffaello, da te sapere, con qual fondamento giudichi che non si punisca il furto con morte, e qual pena tu assegneresti ai ladri, che fosse alla repubblica più utile, quando che non tu ancora pensi che si debba tollerare il furto? E se la morte ora non ispaventa i ladri, se fossero della vita sicuri, qual forza li raffrenerebbe? Parmi, rispos’io, iniquità tòrre la vita all’uomo, per aver egli tolto i danari; perchè niun bene umano si può con la vita ragguagliare. Se diremo che si appendono per aver violato la giustizia e le leggi; non chiameremo noi quella somma giustizia, una somma ingiuria? Nè si commendano le leggi tanto imperiose, che per minimo errore stringano la spada, nè tanto stoiche che giudichino i peccati essere eguali, come uccidere l’uomo e rubare denari. Dio vietò l’uccisione, e noi così prontamente uccidiamo per picciolo furto? Se dirà alcuno l’omicidio esser vietato, quando non è dalla legge umana ordinato, potrà questa legge ancora ordinare che si adulteri o spergiuri. Avendo Iddio ordinato che l’uomo non uccida altri, neanco sè stesso; se possono gli uomini ordinare che si uccida alcuno senza la divina autorità, valerà il divino precetto quanto le umane leggi consentono: ed ordineranno gli uomini in ogni cosa in che guisa si hanno da osservare i divini precetti. La legge mosaica, benché aspra, punì il furto con danari, non con morte. Non pensiamo già che Dio nella nuova legge di clemenza ci abbia concessa maggior licenza di crudeltà. Così volendo noi punire egualmente i ladri e i micidiali, facciamo i ladri micidiali, i quali aspettando l’istesso supplicio, uccidono spesse fiate colui che rubano, per assicurarsi che sia il furto nascosto. Circa la punizione che sia convenevole di dare ai ladri, niuna è più comoda di quella, che tanto piacque ai Romani, nel maneggio della repubblica peritissimi. Essi dannavano a cavare metalli e pietre coloro che erano convinti di gravi colpe. Quantunque io più commendi l'istituto che vidi pellegrinando in Persia tra i Polileriti, popoli ottimamente istituiti, e liberi nell’uso della loro legge, pagando solamente un tributo al re di Persia. Ma perchè sono dal mare lontani e da monti circondati, stanno contenti dei frutti che nascono nei loro campi assai ben fertili, laonde vanno di raro ad altri popoli, e pochi vanno a loro. E per costume antico non istudiano di ampliare i loro confini, i qual sono con i monti da esterna ingiuria difesi. Così vivono felici, e pagando il loro tributo, sono da ogni altra gravezza esenti, e perciò solamente dai vicini popoli conosciuti. Chi è convinto di furto, lo rende al padrone di quello; non al principe, come si fa altrove, parendo loro che tanta ragione abbia il principe nella cosa rubata, quanta vi ha il ladro. Non trovandosi il furto, pagasi de' beni del ladro, ed assegnato il rimanente alla moglie ed ai figliuoli di lui, egli è dannato a lavorare: e se non ha commesso qualche gran furto, non è imprigionato, nè porta i ceppi, ma libero e sciolto si esercita nelle opere pubbliche. Quei che non vogliono sottostare a questa pena, sono piuttosto battuti che imprigionati; quelli che si affaticano gagliardamente non patiscono ingiuria alcuna. La notte chiamati per nome, vengono rinchiusi in certe camere, nè altro incomodo sostengono che l'affaticarsi di continuo. Sono cibati comodamente del pubblico. Raccogliesi in alcun luogo il loro vivere per elemosina, la quale per la pietà di quel popolo basta d' avvantaggio a nodrirli. Altrove si deputano a ciò entrate del pubblico. In alcun luogo ognuno contribuisce a nodrire questi tali. Ed in altri non lavorano in opere pubbliche; ma ciascuno, come gli fa mestieri, li conduce a lavorare a giornata, con mercede alquanto minore di quella che si dii ad uomo libero; ed è lecito castigare la dappocaggine dei servi con battiture: così stanno sempre in esercizio, ed oltre il vivere loro, ogni dì danno qualche cosa nell’erario. Vestono essi soli d'uno stesso colore, con i capelli tagliati sopra le orecchie, una delle quali lor tagliano. Possono i loro amici dar loro mangiare e bere, ed abili del lor colore; ma v’è pena la testa a chi dà loro danari, e ad essi che li ricevono. Non è pericolo minore ad uno libero che ricevesse danari da un servo (così chiamano essi i dannati), e parimente ai servi che toccassero arme. Ogni regione fa un segno particolare ai suoi, ed è pena la vita levarselo via, siccome ancora uscire de’ suoi confini, e parlare con servo di altra regione. L’aver disposto di fuggire è pena la testa; il servo consapevole di questa fuga vi lascia la vita, e il libero cade in servitù. Il libero che avvisa di questo fuggire ne riceve danari, ed il servo libertà, ed è loro perdonato di aver partecipato in questo consiglio. Questo è l’ordine di quel paese circa i ladri, la cui umanità e comodo facilmente si vede, quandochè punisce il vizio e castigalo, trattandoli in tal guisa, che sono astretti ad esser buoni. E tanto è indubitato che non tornano ai passati costumi, che i viandanti si tengono sicurissimi, avendo per guida uno di questi servi: perchè sono senz’arme, con tanto pericolo se loro fossero trovati danari, e senza speranza di fuggire, avendo abito differente dagli altri, onde noi potriano se non ignudi, ma l’orecchia tagliata li farebbe conoscere. Non possono ancora disporsi a fuggire, poichè tanto pericolo portano i consapevoli di questa fuga, ed un tal premio chi la manifesta, nè possono parlare con i servi delle altre regioni. E tutti sperano portandosi bene di acquistare la libertà; perchè ogni anno se ne francano alcuni, veduta dai magistrati la loro pazienza. Avendo io narrato questo, ed aggiuntovi, che introducendo in Inghilterra simil costume, ne riuscirebbe maggior frutto che di quella giustizia, tanto da quel giureconsulto commendata; egli rispose: non si potrebbe stabilire quest’ordine in Inghilterra che non venisse la repubblica in gran pericolo; e, torta la bocca, tacque, confermando tutti il parere di quello. Allora il cardinale disse: tu sei molto pronto ad indovinare prima che se ne vegga la prova. Ma potrebbe il principe sentenziare a morte i colpevoli, e non eseguendo la sentenza, aspettare il successo di questa benignità sua, vietando intanto che non si possano ridurre in luogo di franchigia, e non riuscendo in bene, eseguire la giustizia; nè potrebbe di questo nascere pericolo alcuno. Si potrebbe trattare parimente i mendichi, contro i quali sono fatte invano tante leggi. Detto questo dal cardinale tutti confermarono il mio parere, ma sommamente commendarono quello che aveva detto il cardinale dei mendichi. Seguirono poi cose ridicolose, le quali narrerò pure, da che non son triste. Eravi certo parassito, il quale facendo il matto rideva di lui, e talora confermava i detti suoi. Dicendo uno, ch’io aveva acconciamente provveduto ai ladri, ed il cardinale ai mendichi, ma che restava di provvedere a quei poveri, che per infermità o vecchiaia sono impoveriti: Io, rispose il parassito, provvederò a questi; perchè già sono fastidito dai loro pianti e miserabili domande, colle quali tuttavia non mi hanno potuto cavare di mano un danaro. Perciò quando passo non più mi ricercano di elemosina, non sperando da me cosa alcuna, come s’io fossi sacerdote; ma io con una legge ho provvisto che sieno distribuiti pei monasteri benedettini, i maschi come del terz’ordine, e le femmine come pinzochere. Il cardinale con un riso commendò il suo parere. Un frate teologo si mostrò molto lieto contra i sacerdoti e i monaci, e disse: neanco in tal guisa ti espedirai dai mendichi, non provvedendo a noi frati. A questo è provveduto, disse il buffone, perchè avendo provveduto il cardinale ai mendichi vagabondi, a voi ancora è provveduto, che siete medesimamente vagabondi mendichi. Mosse questo matto tutti a riso, vedendo che se ne prese giuoco il cardinale; ma il frate non già, il quale, spruzzato di tale aceto, si sdegnò in guisa, che svillaneggiando il buffone lo chiamò detrattore, figliuolo della perdizione, minacciando con sentenze della sacra scrittura. Allora il buffone da dovero buffoneggiando disse: non ti sdegnare o frate: perchè gli è scritto: «Nella pazienza vostra poderete le anime vostre». Non mi sdegno, rispose il frate, o ladrone, e non pecco, dicendo il salmista: «Sdegnatevi, e non vogliate peccare». Ed essendo dal cardinale benignamente ammonito, che si temperasse, egli rispose: Io parlo, signor mio, solamente per buono zelo, come fecero i santi uomini, laonde è scritto: «Lo zelo della casa tua mi mangiò.» Coloro che schernirono Eliseo sentirono quanto poteva lo zelo del calvo; come sentirà forse questo ribaldo beffatore. Forse ti muovi, disse il cardinale, a buon zelo; ma faresti da prudente a non ti fare con un buffone schernire. Non farei, signor mio, rispose egli, più saviamente a tacere, dicendo il savio Salomone: «Rispondi al pazzo secondo la sua pazzia»: e se furon i puniti molti per ischernire un calvo, che seguirà a questo beffatore dei molti frati, tra i quali sono assai calvi, ed abbiamo privilegio papale che chi ci beffeggia sia scomunicato. Il cardinale vedendo costui non far fine accennò al buffone che si partisse, e mutato acconciamente il parlare, poco appresso diedesi ad udire le cause de’ suoi clienti, e ci mandò via. Ecco, o Moro, quanto ho ragionato a lungo, vedendo che ti piaceva udire a punto il tutto: ed era necessario ch’io lo narrassi per farti vedere il giudizio di quelli che aveano sprezzato il mio parlare, e poi come parassiti lo confermarono, vedutolo confermare dal cardinale; laonde puoi comprendere quanto stimerebbono i miei consigli i cortigiani. Io gli risposi: il tuo prudente e sollazzevole parlare, o Raffaello, mi è sommamente piaciuto; e mi è paruto, non solo trovarmi nella patria, ma eziandio ringiovenire con la gioconda memoria di quel cardinale, nella cui corte fui da fanciullo nodrito; ed amoti assai più, vedendoti alla memoria di tant'uomo affezionato. Tuttavolta sono pur del medesimo parere, che non ti spiacendo tanto, vogli entrare nella corte di un principe, dicendo il tuo Platone: saranno felici le repubbliche che si reggeranno dai filosofi, ovvero se i re si daranno alla filosofia. Quanto si allontanerà la felicità, se non vorranno i filosofi fare partecipi i re de’ consigli loro? Anzi lo farebbero volentieri, e lo hanno già fatto coi loro scritti, quando che volessero i principi ubbidire ai buoni avvisi. Ma ben previde Platone, che non filosofando i re, essi: malamente istrutti dalla fanciullezza, sprezzerebbero i consigli dei filosofi, com’egli vedeva per prova appo Dionisio. S’io proporrò ad un re sani decreti, rigettando i cattivi semi, sarò da lui cacciato o schernito. Poniamo ch’io fossi nel consiglio del re di Francia, e che tra buon numero di uomini prudentissimi si trattasse con quali arti si dovesse tener Milano, pigliare Napoli, andar contra i Veneziani, ed occupare i paesi vicini, confederarsi con i principi, e partecipare con quelli del bottino. Consigliano alcuni che si conducano Alemanni, altri che si plachino con danari gli Svizzeri, altri che si diano danari all’imperatore, altri che si faccia accordo col re d’Aragona, lasciandogli il regno di Navarra. Ad altri piace che si faccia speranza al principe di Castella di qualche parentado, che si corrompano con danari alquanti nobili della sua corte. Circa l’Inghilterra dicono che più importa, che si faccia con essa finta amicizia, tenendo tuttora in punto gli Scoti, i quali ad ogni movimento degl’Inglesi entrino nel paese loro nemicamente: e che di secreto si favorisca a qualche nobile bandito, il quale pretenda di aver ragione in quel regno, e così terrà sempre il re in sospetto. Se io uomicciuolo, fra tanti uomini egregi, che consigliano a guerreggiare, mi levassi consigliando che si lasciasse stare l’Italia, essendo la Francia tanto grande, che a fatica può essere da un solo governata, onde non dovesse pensare il re di più aumentare il suo dominio: se io gli proponessi i decreti degli Ancorii 5, popoli opposti all’isola degli Utopiensi vicino all’Euronoto, i quali avendo guerreggiato per ottenere un regno al re loro, che secondo lui gli veniva per eredità; e presolo, vedendo che non meno travaglio sostenevano a mantenerlo, per le civili ribellioni e correrie esterne, nè mai poter lasciare l’esercito, ed esser rubati e spargere il sangue per l’altrui gloria, la pace non esser sicura, corrompersi i loro costumi, molti bramar pigliare l’altrui ed uccidere, e le leggi essere sprezzate (perchè il re distratto al governo di due regni, meno attendeva a questo ed a quello) non vedendo fine a tanti mali, fatto consiglio, proposero benignamente al re, che tenesse uno di quei due regni, perchè eran eglino tanti che non potevano essere governati da mezzo un re, come non patirebbe alcuno di aver un mulattiero con un altro comune; onde quel buon re tenutosi l’antico regno, diede il nuovo ad un suo amico, il quale tosto ne fu cacciato: se io gli mostrassi ancora che tanto sforzo di guerra, consumati i tesori e rovinati i popoli, gli riuscirebbe in sinistro, sicchè attendesse ad ornare il regno, dai suoi avoli sino a lui conservato, amasse i suoi, per esser da quelli amato, vivesse con loro, usando benignità nel comandare, e lasciasse gli altrui regni poichè il suo è ampio e capace; questo parlare come pensi, o Moro, che sarebbe grato? Ma seguiamo. Si tratta tra il re e i consiglieri di ammassare tesori, consigliando uno che si aumenti il prezzo delle monete, dovendone dispensare, e che si abbassi poi nel riceverle; persuade altri che finga di far guerra, e raccolti i danari faccia con solenni cerimonie la pace, mostrando come pietoso principe di aver pietà dell’umano sangue. Alcuno revoca a memoria certe antiche leggi, contro le quali ognuno (perchè non erano in uso) ha contraffatto, e asserisce che riscotendo le condannagioni di quelle, ne piglierebbe una buona somma, e parimente si mostrerebbe giusto principe. L’ammoniscono gli altri, che sotto gravi pene faccia nuovi statuti in cose che giovino al popolo, e poi dispensi con danari quei contra i quali va l’interdetto: così piglierà doppio frutto, e da quei che contravverranno, e vendendo ad altri molto cari i privilegi. Gli persuade alcuno che stringa i giudici a dispensare in ogni cosa a favore del dominio regale, e facciali venire a litigare innanzi a sè, perchè così non vi sarà alcuno tanto stupido, che per aggradirsi al re non trovi qualche via di calunniare. Contendendo dunque i giudici in cosa chiarissima, si viene in dubbio della verità, e può il re a suo comodo interpretare la legge; gli altri o per vergogna o per timore staranno addietro, e così darassi arditamente la sentenza, quando che basta al re potersi mostrar giusto torcendo le leggi, ove gli pare, e ciò che più importa, vogliono i religiosi giudici che non si disputi la causa regale. Consentendo tutti nel detto di Cassio: che non basta ogni gran tesoro a quel principe che debba mantenere un esercito; e che non può il re far cosa ingiusta, ancorchè ne fosse bramoso, perch’egli è padrone del tutto, e tanto è proprio di ciascuno, quanto la sua benignità non gli leva; e che importa assai al principe, al quale appartiensi di difendere il popolo, studiare che quello non sia per delizie e libertà morbido; le quali scuse lo fanno ardito a non sopportare i duri e giusti imperj, ma la povertà lo fa paziente, e priva i nobili di ardire di ribellarsi. Or pensa ch’io levandomi persuada, che questi consigli sono al re disonesti e perniciosi, il cui onore o sicurezza consiste piuttosto nelle forze del popolo che nelle sue, e mostri gli uomini eleggere il re, acciocchè con istudio e fatica di quello essi stiano comodamente e siano da ingiurie sicuri, perchè è ufficio di principe portarsi verso i sudditi da pastore, il quale pasce le pecore, non sè stesso. Le contenzioni poi regnano più nei poveri, i quali specialmente studiano a cose nuove, e con speranza di guadagno sono arditi ad ogni impresa. Se fosse un re tanto da poco ed odiato dai suoi, che non potesse tenerli soggetti senza far loro ingiuria o impoverirli, fia meglio ch’egli rinunzi il regno, che tenerlo con tali arti, con le quali tiene la signoria, ma perde la maestà, e conviensi alla regal dignità, esercitar piuttosto la signoria negli uomini potenti, che sopra i poveri, come volle inferire Fabrizio dicendo, che voleva piuttosto signoreggiare ai ricchi che esser ricco. Ed in vero chiameremo piuttosto guardiano di prigione uno che voglia esser solo ricco ed impoverire gli altri, e fa come l’imperito medico, che non sa cacciare una malattia, senza introdurvene un’altra. Confessi di non sapere signoreggiare ad uomini liberi, o cacci da sè la dappocaggine e la superbia, le quali cose fanno sprezzare, ovvero odiare il principe. Viva egli del suo, misuri la spesa con le rendite, raffreni i mali, e prevenga con buoni ordini che non si commettano, rinnovi le leggi antiquate, non pigli per alcuna colpa quello che non lascerebbe pigliare ad alcuno giudice. Io proporrei quivi la legge dei Macarensi6, non lontani dall'Utopia, il cui re nella sua creazione giura di non aver mai nell’erario più di mille libbre d’oro e d’argento alla valuta di quell'oro. Dicono che un re, il quale amò più il comodo della patria che il proprio, fece questa legge: parendogli che tanta somma potesse bastare al re per raffrenare i ribelli, o ribattere i nemici con arme, non dargli animo di assaltare gli altrui regni. Per questo specialmente si fece quella legge, e perchè non mancassero danari da cambiare ai cittadini, e da dispensarsi dal re quando fosse necessario. Tal re era temuto dai cattivi, e dai buoni amato. Ma come narrerei tali cose ai sordi? Ai sordissimi, anzi, soggiuns’io; nè giudico, per dire il vero, che si diano tai consigli ove non sono accettati. Come potrà entrare nell’animo loro un parlare tanto insolito, essendo del contrario persuasi? Questa scolastica filosofia può esser grata in un famigliare parlamento tra gli amici, ma nei consigli dei principi, ove si trattano gran cose con grande autorità, giuste cose non hanno luogo. Perciò, disse Raffaello, non ha luogo appo i principi la filosofia. Non diss’io questa filosofia scolastica, che si crede potersi accomodare ad ogni cosa; ma v’è un’altra filosofia più civile, la quale secondo le cause e i tempi difende acconciamente la ragion sua con riputazione. Questa bisogna che tu usi. Altrimenti rappresentandosi la commedia di Plauto, ove i servi gareggiano insieme, se tu vestito da filosofo, entrassi in scena, e narrassi qualche sentenza della Ottavia7, ove Seneca disputa con Nerone, non sarebbe meglio che avessi taciuto, che recitando cose aliene, aver fatto una tragi-commedia? Avresti corrotto la presente favola, mescolandovi cose diverse, ancorchè fossero migliori. In quella favola che ritrovi, portati meglio che puoi; nè ti devi porre a turbar quella, quantunque ti venga a memoria di un’altra che sia più piacevole. Così è nella repubblica e nei consigli dei principi. Se non puoi al tutto estirpare le sinistre opinioni, nè provvedere ai vizii già posti in uso, non però si debbe abbandonare la repubblica, siccome neanche la nave agitata dalla fortuna, quantunque tu non potessi raffrenare il furor dei venti. Non si debbe ancora replicare un parlar insolito, sapendo come non fia ricevuto negli animi che sono del contrario persuasi; ma bisogna andare per lungo circuito, e sforzarsi di condurre a buon porto quello che si tratta. Nè potendo ridurre le cose a bene, studia almeno che sieno men cattive, perchè non possono esser le cose al tutto buone, se non sono tutti buoni, e questo io non aspetto fin a molti anni. Con quest’arte, rispose egli, altro non farei, che, volendo medicare l’altrui furore, con gli altri impazzirei. Perchè volendo ragionare il vero, sono astretto a ragionare di queste cose in tal guisa. Non so se si appartenga al filosofo poi ragionare il falso, ma a me certo non appartiene; benchè quel mio parlare, come che fosse a quelli forse men grato, tuttavia non mi penso che si debba giudicare al tutto insolente ed inetto. Ma s’io narrassi quello che finge Platone nella sua repubblica, ovvero gl’istituti che fanno da dovero gli Utopiensi nella loro; quantunque fossero, come sono in vero, migliori, tuttavolta potrebbero parere alieni da questi costumi, perchè qui sono le possessioni divise tra privali, ed ivi comuni. Ma non potrebbe il mio parlare esser ingrato se non a coloro, che avessero seco disposto di andare a rovina, perchè dimostra i pericoli, e ci ritrae da quelli; altrimenti qual cosa vi fu che non sia da dire convenevolmente ove ti piace? Se si debbono tralasciare tutte le cose sconcio, e le introdotte da rei costumi degli uomini: bisogna che noi cristiani dissimuliamo assai cose, le quali Cristo non vuole che siano dissimulate, anzi comandò che fossero predicate in pubblico. E grandissima parte di queste è più aliena dai presenti costumi, che non è stato il mio parlare. Ma gli accorti predicatori, vedendo che malagevolmente gli uomini accomodavano i costumi loro alla legge di Cristo, acconciarono ai costumi la legge, come se fosse una squadra di piombo, affinchè si unissero in qualche guisa; ma per mio avviso hanno operato che più sia loro lecito esser cattivi. E tanto farei io a dar consiglio ai principi: perchè ovvero sarò di parer diverso, ovvero, come dice Terenzio, aumenterò la loro pazzia8. Quel modo di circuire nel parlare, e portarmi in guisa, che non potendo ridurre le cose a perfezione, almeno studii che riescano men cattive, non vedo che mi possa succedere. Perchè non è lecito in quei parlamenti dissimulare nè chiuder gli occhi, anzi bisogna apertamente confermare i pessimi consigli, e sottoscrivere ai pestiferi decreti. Sarà come una spia e quasi traditore colui che loderà malignamente i rei consigli. Nè mi soccorre cosa alcuna, con la quale possa giovare chi entra fra quei consiglieri, i quali più agevolmente corromperebbono un uomo dabbene, che essi si emendassero. Perchè sono nella maligna usanza corrotti e guasti, laonde sei astretto con la tua innocenza colorire l'altrui pazzia, senza però che ti riesca di poterli ridurre che si mutino In meglio. Perciò Platone con bellissima similitudine rende ragione perchè si astengano i savi dal maneggiar la repubblica; perchè vedendo il popolo per la piazza sparso esser dalla pioggia bagnato, nè potendo a quello persuadere che si ritiri al coperto; e giudicando vana impresa uscire allo scoperto e bagnarsi, ricorrono essi al coperto, riputandosi aver fatto assai, di essersi ritratti in luogo sicuro, poiché non possono sanare l'altrui pazzia. Quantunque, o Moro, per dire circa quello ch’ io sento la verità, ove sono le possessioni dei privati, ove il tutto si misura coi danari, ivi a fatica, per mio avviso, è possibile che si maneggi con giustizia una repubblica e con prospero successo. E tienti per certo, che non si fa cosa alcuna giustamente ove le cose ottime vengono in mano di pessimi: ovvero, che sia felicità ove il tutto si divide tra pochi; i quali non però stanno molto comodamente, essendo gli altri nelle miserie. Perciò volgendomi per la mente gli ottimi, prudentissimi e santissimi istituti degli Utopiensi, i quali con si poche leggi governano le cose loro tanto acconciamente, che la virtù ha il suo premio; e tuttavia, fatte le cose uguali, tutti ne hanno in copia: paragonando ai loro costumi quelli delle altre nazioni, che sempre ordinano nuove leggi, né mai ne hanno fatto abbastanza, nelle quali nazioni ognuno chiama suo quello che può avere, nè si possono ordinare tante leggi, che siano sufficienti per acquistare, conservare o conoscere il suo dall’altrui; il che manifestano le infinite liti, che non mai hanno fine: considerando io meco stesso queste cose, non mi maraviglio che Platone non si degnasse di far legge a coloro, che non accettavano quelle, con le quali ogni cosa si fa comune. Previde quell'uomo prudentissimo quella esser unica e sola via alla salute, che si faccia un'ugualità de’ beni esterni, la quale come si può conservare ove ciascuno ha di proprio? Perchè traendo ciascuno a sè quanto può, dividendosi i pochi ogni gran tesoro, e lasciando agli altri la povertà, avviene che una parte sembri dell’altra più degna, la qual però è rapace, malvagia e inutile; ed opprime gli uomini modesti e semplici, i quali con industria cotidiana sono più benigni verso la repubblica, che verso loro stessi. Io mi rendo certo che non si possano trattare le cose dei mortali, nè distribuire con giusta ragione e con felicità, ove non sia al tutto levata via la proprietà. E che durando quella, buona parte e la migliore degli uomini non possa schivare la povertà e l’infelicissima miseria, la quale io confesso che si può alleggerire, ma non al tutto annullare. Se fosse ordinato che niuno avesse più che certo numero di campi, e una tal determinata somma di danari, e se vi fossero leggi che il principe non fosse troppo ricco, nè il popolo insolente; che non si cercassero i magistrati, nè si vendessero, nè fosse di necessità maneggiarli con spesa, onde poi si dà occasione di ricuperare i danari con frodi e rapine, o è forza preporre i ricchi a quegli ufficii a cui non dovriano preporsi che i saggi, tai leggi variano come le medicine, che possono porger ristoro al corpo, già guasto per infermità, ma non sanarlo, riducendolo al suo primo stato. Nè vi è di questo speranza alcuna, mentre che ognuno possiede di proprio; anzi volendo sanare una parte farai incrudelire la ferita dall’altra, perchè una s’inferma con la sanità dell’altra, non potendosi aggiugnere all’una, che all’altra non si levi. A me, diss’io, pare il contrario, che non si possa vivere comodamente, ove son tutte le cose comuni. Come avranno tutti abbastanza i bisogni loro, quando ciascuno si ritragga dalla fatica non essendovi dalla necessità astretto? E il fidarsi dell’altrui industria fa l’uomo negligente. Ma essendo gli uomini dalla povertà stimolati, nè potendo tenere per proprio ciò che guadagnano con industria e sudori, non seguono di necessità uccisioni e sedizioni tra loro; levata via specialmente l’autorità del magistrato, la quale non può aver luogo appo tali uomini, che non sono in cosa alcuna differenti. Non mi maraviglio, Raffaello rispose, che a te così ne paia, il quale non ne hai veduto pur un’immagine falsa. Ma se fossi stato meco in Utopia, ed avessi di presenza veduto i loro costumi, come feci io, che vi sono vissuto più di cinque anni, nè mai avrei voluto partirmene, se non era per manifestare di qua sì nuovo mondo; confesseresti veramente non aver veduto altrove che in quel luogo un popolo bene istituito. Certamente a fatica mi darai a credere, soggiunse Pietro Egidio, che si trovi in quel nuovo mondo un popolo meglio istituito che in questo da noi conosciuto, nel quale non sono gl’ingegni peggiori; e penso che siano qui più antiche le repubbliche, e più comodi trovati dal lungo uso, per tacere di alcune cose fortuitamente scoperte, che non si potrebbero trovare da alcun ingegno. Circa l’antichità, rispose Raffaello, diresti altrimenti, quando avessi letto le storie loro delle cose pubbliche, alle quali se dobbiamo dar fede, furono prima le città appo loro che appo noi; ed ha potuto esser così qua come là ogni cosa a caso o per ingegno trovata. E per mio avviso, ancorchè fossimo più acuti d’ingegno che quelli, certamente per studiosa industria loro siamo di gran lunga inferiori. Perchè narrano le loro storie, che innanzi al venir nostro, non aveano inteso cosa alcuna di noi, come ci chiamano, oltrequinoziali, se non che già mille e dugento anni, una nave che si ruppe appo L’Utopia, ivi portata per fortuna, ebbe sopra alquanti Romani ed Egizii, i quali condotti al lido non più si partirono di quel paese. Vedi come fu loro tale occasione comoda per loro industria. Non era arte appo il romano imperio, che fosse acconcia ai fatti loro, la quale essi non imparassero da que’ forestieri, o con acute indagini quindi non ritrovassero. Eccoti quanto bene riuscì loro da pochi uomini portati là da questo nostro mondo. E se per simile fortuna alcuno di loro è stato spinto a noi, questo si è così scordato, come si scorderanno i discendenti loro, ch’io abbia abitato in quel luogo. E siccome essi ad un incontrarsi con noi hanno fatto propria ogni nostra industriosa invenzione; così penso che andrà lungo tempo, prima che pigliamo il migliore loro istituto. E penso altresì che una sola cosa sia cagione, che non essendo noi nè per ingegno, nè per forze inferiori, tuttavia le cose loro sono più felicemente amministrate, e con maggior felicità fioriscono. Pregoti di grazia, diss’io, o Raffaello, che ci vogli descrivere quest’isola, non già in brevità, ma che ci dimostri con ordine i campi, i fiumi, le città, gli uomini, i costumi, gl’istituti, le leggi, od ogni cosa che ti parrà noi voler conoscere; cioè tutto quello che non sappiamo. Lo farò, disse Raffaello, molto volentieri, specialmente che tengo il tutto in memoria: ma bisogna aver tempo. Andiamo adunque a desinare, e poi piglieremo il tempo a tua voglia. Così facciamo, rispose egli. Ed entrati desinammo, e poi tornammo nel medesimo luogo, e comandando ai famigliari che non ci turbassero, io e Pietro Egidio confortammo Raffaello che ci attenesse la promessa. Egli adunque, vedendoci attenti e bramosi di udire, stato alquanto tacito a sedere pensando, cominciò a parlare in questa guisa.
Note
- ↑ Poi Carlo V imperatore.
- ↑ Che sonerebbe per noi contastorie, se mai a tal nome può darsi greca derivazione.
- ↑ Lucano, Farsaglia, lib. XI, ver. 819.
- ↑ Così il testo: L’Editor milanese lo corresse ponendo senza più: pervenne a Taprobanal (Ceylan) ed annotò: Era opinion generale di que’ tempi, che l’America comunicasse, per terra, coll’India, di cui supponeva formare la parte occidentale. Nella Guiana collocavasi il famoso paese di Eldorado, di cui vedasi nella relazione di sir Walter Raleigh con quanta credulità i viaggiatori andassero in cerca.
- ↑ Probabilmente: senza luogo, senza terra.
- ↑ Che nel greco linguaggio è quanto dire felici.
- ↑ Una delle tragedie attribuite a Seneca.
- ↑ Adelfi, atto I, scena 2.