Pagina:L'Utopia e La città del Sole.djvu/52

28 utopia.

debba giudicare al tutto insolente ed inetto. Ma s’io narrassi quello che finge Platone nella sua repubblica, ovvero gl’istituti che fanno da dovero gli Utopiensi nella loro; quantunque fossero, come sono in vero, migliori, tuttavolta potrebbero parere alieni da questi costumi, perchè qui sono le possessioni divise tra privali, ed ivi comuni. Ma non potrebbe il mio parlare esser ingrato se non a coloro, che avessero seco disposto di andare a rovina, perchè dimostra i pericoli, e ci ritrae da quelli; altrimenti qual cosa vi fu che non sia da dire convenevolmente ove ti piace? Se si debbono tralasciare tutte le cose sconcio, e le introdotte da rei costumi degli uomini: bisogna che noi cristiani dissimuliamo assai cose, le quali Cristo non vuole che siano dissimulate, anzi comandò che fossero predicate in pubblico. E grandissima parte di queste è più aliena dai presenti costumi, che non è stato il mio parlare. Ma gli accorti predicatori, vedendo che malagevolmente gli uomini accomodavano i costumi loro alla legge di Cristo, acconciarono ai costumi la legge, come se fosse una squadra di piombo, affinchè si unissero in qualche guisa; ma per mio avviso hanno operato che più sia loro lecito esser cattivi. E tanto farei io a dar consiglio ai principi: perchè ovvero sarò di parer diverso, ovvero, come dice Terenzio, aumenterò la loro pazzia1. Quel modo di circuire nel parlare, e portarmi in guisa, che non potendo ridurre le cose a perfezione, almeno studii che riescano men cattive, non vedo che mi possa succedere. Perchè non è lecito in quei parlamenti dissimulare nè chiuder gli occhi, anzi bisogna apertamente confermare i pessimi consigli, e sottoscrivere ai pestiferi decreti. Sarà come una spia e quasi traditore colui che loderà malignamente i rei consigli. Nè mi soccorre cosa alcuna, con la quale possa giovare chi entra fra quei consiglieri, i quali più agevolmente corromperebbono un uomo

  1. Adelfi, atto I, scena 2.