L'Uomo di fuoco/8. La zattera vivente

8. La zattera vivente

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7. L'assalto del jacaré 9. Assediato dai pecari
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CAPITOLO VIII.

La zattera vivente.

L’indomani una brutta sorpresa, che poteva avere grandissime conseguenze, attendeva i due naufraghi. Il mozzo che si era recato sulla riva per ricaricare la canoa, non l’aveva più ritrovata al suo solito posto.

Spaventato per quell’inaspettata scoperta, il ragazzo si era slanciato verso l’accampamento dove Alvaro, che aveva fatto l’ultimo quarto, sonnecchiava ancora.

— Signore! — esclamò, con accento di terrore. — Non avete veduto alcuno avvicinarsi all’isolotto durante la notte?

— Perchè mi chiedi questo, Garcia? — chiese il portoghese, sorpreso vivamente da quella domanda.

— Hanno rubata la nostra scialuppa, signore.

— Rubata! E chi?

— Che ne so io? Forse gl’indiani.

— Non è credibile, Garcia, — rispose Alvaro. — Durante i miei quarti di guardia ho fatto quattro volte il giro dell’isolotto e se gl’indiani si fossero avvicinati li avrei certamente veduti.

— Eppure non c’è più signore. Venite e ve ne accerterete. —

Il signor di Correa, assai impressionato da quella cattiva notizia, si era vivamente alzato seguendo il mozzo.

Pur troppo dovette convincersi coi propri occhi che la canoa non si trovava più fra il gruppo di canne dove l’avevano lasciata il giorno innanzi. [p. 85 modifica]

— La cosa è grave, — disse.

— Che l’abbiano rubata?

— Non lo credo. La riva è fangosa in questo luogo e se degli uomini fossero sbarcati avrebbero lasciate le loro impronte. Io credo che sia affondata.

— Ed infatti signore, faceva acqua.

— Abbiamo commesso una grave imprudenza Garcia, — disse Alvaro. — Invece di legarla a queste canne dovevamo tirarla in secco.

— Come faremo ora a lasciare questo isolotto e attraversare la palude? La riva più prossima si trova a non meno di tre miglia da noi.

— Siamo prigionieri, ragazzo mio.

— Se tentassimo la traversata a nuoto? Tre miglia non mi fanno paura, — disse il mozzo.

— Ed a me neanche cinque, ma io non oserò mai tuffarmi in queste acque che sono popolate da caimani e da serpenti giganteschi.

— È vero signore, mi dimenticavo che vi sono anche qui i mangiatori d’uomini.

Eppure non possiamo rimanere qui per sempre. Non abbiamo nè viveri nè acqua bevibile.

Alvaro non rispose, guardava i pochi alberi che crescevano sull’isolotto, chiedendosi se sarebbero stati bastanti per costruire almeno una zattera sufficiente a portarli fino alla sponda più prossima.

Erano cinque o sei alberetti, alti una mezza dozzina di metri, dal fusto piuttosto esile coperto da una corteccia molto bruna. Vi erano anche numerosi cespugli e molte liane, ma i primi a ben poco avrebbero potuto servire.

— Proviamo, — disse al mozzo, indicandoglieli.

— Volete costruire una zattera, è vero signore?

— Se avremo materiale sufficiente, — rispose Alvaro.

— Basterà che ce ne sia tanto da fare lo scheletro. Per la piattaforma utilizzeremo le canne.

— Ecco un’idea che non mi era venuta, Garcia, — disse Alvaro. — Dammi la scure e andiamo a distruggere la nostra piccola foresta.

Impugnò l’ascia e assalì vigorosamente la pianta più alta, ma al primo colpo che vibrò il filo della scure si guastò senza avere potuto nemmeno intaccare la corteccia. [p. 86 modifica]

— Ah! Diavolo! — esclamò il portoghese, stupito. — Come va questa faccenda! Eppure le mie braccia sono ancora solide e la lama della scure era ben affilata.

— Che legno hanno queste piante? — si chiese il mozzo, non meno sorpreso.

Alvaro rinnovò il colpo e l’arma, invece di conficcarsi, rimbalzò come se avesse percosso una rupe di quarzo o un palo di ferro.

— È incredibile! — esclamò Alvaro.

— Vediamo, — disse il mozzo.

Si levò il coltello e si provò a piantarlo a tutta forza nel tronco della pianta. La lama lunga e piuttosto sottile, anzichè penetrare nel tronco, si spezzò come se fosse stata di vetro.

— Ebbene, Garcia? — chiese il portoghese.

— Io dico signore, che queste piante sono di ferro e che non riusciremo mai ad abbatterle.

Alvaro passò ad un altro albero e si diede a menare colpi furiosi non riuscendo ad altro che ad intaccare a malapena la corteccia.

— Io ho udito parlare vagamente di certi alberi duri come rocce che crescono in America, — disse, asciugandosi il sudore che gli colava abbondantemente in seguito a quegli sforzi erculei. — Che questi appartengano a quella specie?

Non si era ingannato. Le poche piante che erano spuntate sull’isolotto erano quei famosi pao de ferro che hanno reso celebri certe foreste del Brasile e dell’Amazzonia, duri come se le loro fibre fossero di ferro, che sfidano le scuri meglio affilate e che sono così pesanti da non poter galleggiare.

Anche se i naufraghi fossero riusciti ad abbatterli, non ne avrebbero cavato alcun vantaggio e avrebbero perduto inutilmente il loro tempo.

— Signore, — disse il mozzo, — non se ne farà nulla. È inutile che guastate la nostra scure e che sprecate le vostre forze.

— Dovremo dunque rimanere prigionieri su questo pezzo di terra? — si chiese Alvaro.

— Se potessimo ripescare la nostra scialuppa?

— Chissà dove sarà andata a finire. Queste acque non sono assolutamente immobili.

— Che cosa fare, signor Alvaro?

— Non lo so, — rispose il portoghese, con un gesto scoraggiato. [p. 87 modifica]

Assai tristi e molto preoccupati fecero il giro dell’isolotto, colla speranza di trovare qualche tronco d’albero arenato sulle sue rive o qualche cosa che potesse servire ad attraversare quella maledetta palude, poi scoraggiati dalla inutilità delle loro ricerche fecero ritorno al loro accampamento. Erano entrambi assai abbattuti e ne avevano ben il motivo. Come sarebbero usciti da quella situazione imbarazzante? Era bensì vero che, almeno pel momento, nessun pericolo li minacciava, tuttavia non si sentivano affatto disposti a finire i loro giorni su quel brano di terra che non offriva alcuna risorsa.

Alvaro invano frugava e rifrugava il suo cervello, non trovava alcuna via d’uscita. Senza una scialuppa o del legname, non vedeva la possibilità di sfuggire a quella prigionia.

Le ore passavano senza che la loro situazione si modificasse.

Un calore estremo regnava sulla vasta palude le cui acque fumavano come se il loro fondo ribollisse. Il sole dardeggiava i suoi raggi quasi a piombo rifrangendo la luce con tale intensità che gli occhi dei due naufraghi ne venivano dolorosamente feriti.

Di quando in quando il silenzio che regnava nella palude, veniva improvvisamente rotto da una volata di gallinago che sono una specie di beccaccini o di piassoca, uccelli che hanno le ali munite di lunghe dita e che si posano volentieri sulle larghe foglie delle piante palustri o da qualche banda di gallinelle acquatiche dalle penne turchino cupe.

Talora invece era un caimano che turbava la tranquillità della savana. Lo si vedeva avanzarsi pigramente attraverso le foglie delle victorie, col dorso ricoperto di piante e poi scomparire dietro gli isolotti sulle cui rive probabilmente andava a sdraiarsi per godersi un po’ di sole.

Il mezzodì doveva già essere trascorso, quando il mozzo che fino allora era rimasto sdraiato all’ombra dei pao de ferro, ruminando inutilmente progetti impossibili, si alzò dicendo:

— Signor Alvaro, noi non abbiamo pensato ad un grave pericolo che ci minaccia peggio della fame. Ho sete, brucio, signore e non posso più resistere. —

Il portoghese si era pure alzato, guardandolo con angoscia. Era vero: fino allora si era scordato che le acque della palude erano salmastre.

— Ma allora noi siamo perduti! — esclamò.

— Sì, se non troviamo un mezzo qualunque per andarcene, — rispose il mozzo. [p. 88 modifica]

— Ma quale? Invano ho tormentato il mio cervello.

— Signore, credete che vi siano degl’indiani intorno a questa palude?

— Può darsi.

— Se noi facessimo dei segnali accendendo le canne ed i cespugli che crescono qui e sparando di quando in quando dei colpi di fucile?

— Per farli accorrere?

— Sì, signor Alvaro.

— E farci prendere per poi finire sulla graticola? No, Garcia, preferisco morire di fame e di sete piuttosto che il mio corpo serva di cibo a quelle canaglie.

— Signor Alvaro... —

Il portoghese aveva fatto un salto senza ascoltare la fine della frase e si era gettato dietro una macchia di cespugli, guardando attentamente verso la riva.

— Un altro caimano, signore? — gli chiese Garcia che lo aveva prontamente raggiunto.

— Pare che si tratti di qualche altro animale, — rispose il portoghese. — Ho veduto le canne aprirsi violentemente.

— Uno di quei grossi serpenti?

— Taci?

Una forma ancora indecisa, assai larga e molto bassa, si sforzava di aprirsi il passo fra i canneti rompendoli a destra ed a sinistra.

— Che animale sarà? — si chiese il portoghese. — Giurerei che si tratta d’una tartaruga. —

Era infatti una testuggine della specie delle mydas che sono le più gigantesche che abitino le paludi ed i fiumi del Brasile. Non sono pregiate come la careto, dalle quali si estrae la tartaruga che si mette in commercio; sono invece ricercate per la mole dei loro gusci e per l’abbondanza della loro carne.

Ordinariamente i loro gusci, che sono d’un colore verdastro marmorizzato a squame esagonali, sono lunghi più di due metri e larghi cinquanta centimetri.

Quella però che era approdata sull’isolotto era una delle più gigantesche della specie, lunga quasi otto piedi e larga almeno la metà, una zattera in miniatura.

— Garcia, non muoverti, — disse Alvaro, rapidamente. — Vi è là da cenare e da pranzare abbondantemente per una settimana.

La testuggine, apertosi il passo fra le canne, si era fermata [p. 89 modifica]sulla riva che in quel luogo era sabbiosa e sgombra d’erbe, mettendosi in ascolto.

Stette ferma qualche minuto poi proseguì la sua marcia con passo rapido e l’andatura inquieta, camminando sulla punta delle zampe, quindi si mise a scavare la sabbia.

— Si prepara a deporre le uova, — mormorò Alvaro. — A me Garcia! —

Entrambi si erano slanciati al di sopra del cespuglio, piombando addosso al rettile il quale si era accovacciato in fondo alla buca.

Afferrarlo e rovesciarlo violentemente sul dorso, fu un momento solo.

— È nostra! — gridò il mozzo con voce trionfante. — A voi la scure, signore!

Alvaro aveva impugnata l’arma e si preparava a vibrare un colpo sulla testa del rettile, quando un pensiero improvviso lo trattenne.

— No! — esclamò. — Stavo per commettere una grossa bestialità!

— Non l’uccidete signore? — chiese il mozzo.

— Ucciderla! Penso che questo rettile ci potrà essere più utile vivo che morto, mio caro.

— Ed in qual modo signore?

— Sarà quello che mi condurrà alla riva.

— Questa bestia?

— Credi che non possa servire da zattera ad uno di noi? Guarda come è largo il suo guscio.

— Ah! Signore! — esclamò il mozzo, scoppiando in una risata.

— Ridi! Ebbene, io ti proverò che non ho detto una sciocchezza.

— Ma, signore, se la rigettate in acqua affonderà subito e vi lascerà alla superficie.

— Tu lo credi?... Io no, perchè le impedirò di sommergersi. Quel caimano che è venuto a farsi uccidere fra i nostri piedi, ha avuto una gran buona idea.

— Non vi capisco, signor Alvaro.

— Vieni con me.

— E non fuggirà la testuggine?

— Non temere; quando questi rettili si trovano rovesciati sul dorso non sono più capaci di raddrizzarsi. [p. 90 modifica]

La ritroveremo ancora al suo posto.

Il mozzo lo seguì domandandosi che cosa potesse entrarci il caimano colla testuggine e colla traversata della palude.

L’jacarè — tale è il nome che danno gl’indiani a quei pericolosi abitanti delle savane e dei fiumi — si trovava sempre disteso fra le canne. Il calore solare, sviluppando i gas interni, l’aveva prodigiosamente ingrossato e pareva che il suo ventre giallastro fosse lì lì per iscoppiare.

— Com’è brutto! — esclamò il mozzo. — Già non era bello neanche prima, ma ora fa paura. —

Alvaro vibrò un colpo di scure sul fianco del rettile, balzando poi rapidamente da una parte. Gli intestini proiettati dai gas interni, si contorsero sull’erba.

— Ecco quello che mi occorre, — disse.

— Le budella di questa brutta bestiaccia?

— Sì, Garcia.

— Vorreste fare dei salami di tartaruga, signore.

— No, d’aria.

Quella parola fu una rivelazione per l’intelligente ragazzo.

— Ah! Ora vi ho compreso! — esclamò. — Che superba idea, signore!

— Giacchè mi hai capito, aiutami. —

Con pochi colpi di coltello staccò gl’intestini e li trascinò sulla riva dove si mise a vuotarli ed a pulirli aiutato efficacemente dal mozzo.

La faccenda non fu lunga.

— Un pezzo di canna ora ed un po’ di spago, — disse Alvaro.

— Un marinaio non manca mai di corda, — rispose il mozzo.

Legarono solidamente l’estremità del budello, introdussero un pezzo di canna traforata nell’altro e Alvaro cominciò a soffiare a tutta forza.

Ci volle un buon quarto d’ora prima che l’intestino che era lungo ben dodici metri, fosse completamente pieno d’aria.

— Ora andiamo a legarlo intorno alla testuggine, — disse Alvaro quando ebbe chiusa l’altra estremità. Vedremo se il rettile sarà capace di lasciarsi affondare.

Alzarono con precauzione il budello onde i rami spinosi dei cespugli non lo guastassero e riattraversarono l’isolotto.

La povera mydas, non ostante i suoi sforzi disperati, si trovava ancora rovesciata sul dorso. Agitava pazzamente le larghe [p. 91 modifica]zampaccie e allungava ed accorciava comicamente il collo senza però riuscire nemmeno a scuotere il pesante guscio.

Alvaro ed il mozzo la circondarono col budello, assicurandolo solidamente sui margini della corazza ossea indi per meglio impedire al rettile di sommergersi e anche per riparare il leggero galleggiante che poteva venire offeso dalle spine delle victorie, e scoppiare sul momento, legarono come meglio poterono alcuni fasci di canne, formando una specie d’armatura.

— Come si troverà male questa povera tartaruga, quando sarà in acqua, — disse il mozzo ridendo.

— Specialmente quando la cavalcheremo, — rispose Alvaro.

— E come farete a guidarla, signore?

— A colpi di bastone, mio caro che le applicherai a destra od a sinistra.

— Voi però avete dimenticato una cosa importantissima.

— E quale, mio buon Garcia?

— Io dovrò rimanere sull’isolotto, giacchè due saremmo troppi per la testuggine.

— Sarò io invece che aspetterò il tuo ritorno. Tu sei molto meno pesante di me e riuscirai meglio nell’impresa.

— E voi come attraverserete la palude?

— Con una zattera che costruirai. Vorresti tu che la testuggine fosse così sciocca da tornare da sola qui per prendermi?

— Trovate risposta a tutto, signore.

— Hai paura?

— Monterei anche un serpente purchè mi conducesse alla riva, — rispose il coraggioso ragazzo, senza esitare.

— Allora mettiti in viaggio. Porterai con te l’archibugio e la scure. Bada di tenere le gambe ben raccolte sul guscio e se vedi qualche caimano accostarsi, spara senza far economia di palle e di polvere. D’altronde credo che nessuno oserà importunarti e sono certo che tu approderai alla riva senza incidenti.

— Sarò un cavaliere ben comico, signore. Cavalcare una tartaruga! Non me lo sarei mai immaginato.

— Sbrighiamoci, Garcia. Ho sete e anche molta fame e tu non devi averne meno. Questa sera però prenderemo una bella rivincita.

— Cucinando la mia cavalcatura?

— Dentro il suo guscio, — rispose Alvaro, ridendo.

Rovesciarono con precauzione la testuggine spingendola verso [p. 92 modifica]la riva. Il povero rettile, imbarazzato dalle canne che gli pendevano dai fianchi, pareva smarrito e tentava ad ogni istante di girare su se stesso, ma una poderosa randellata lo costringeva a tirare innanzi.

Appena vide l’acqua vi si precipitò con impeto, sperando di sbarazzarsi delle canne e di scomparire sotto. Il mozzo lesto come un gatto si era già appollaiato sul largo guscio, incrociando le gambe come i turchi.

Sentendo quel peso gravitargli addosso e sentendosi trattenere a galla non ostante i suoi sforzi per lasciarsi colare a picco, il rettile parve che impazzisse.

Girava su se stesso, battendo furiosamente le zampacce, allungava più che poteva il collo e dimenava la testa e la coda in tutti i sensi.

Vani sforzi. L’intestino, ben gonfio e le canne la mantenevano ostinatamente alla superficie.

— Ah! La bella trovata! — gridava il mozzo, lavorando vigorosamente di randello. — Signor Alvaro! Che superba zattera! Filerà come se avessi il vento in poppa! —

Il portoghese rideva a crepapelle vedendo gli sforzi disperati che faceva il rettile per sbarazzarsi del suo strano cavaliere.

Porse al mozzo il moschetto e la scure e gli diede il segnale della partenza con un «buon viaggio, amico.»

— Tornerò più presto che potrò, signore, — rispose il mozzo. — Orsù, cammina bestiolina! —

La testuggine ormai convinta della inutilità dei suoi sforzi, si era scostata dall’isolotto avanzando velocemente in mezzo alla palude.

Di quando in quando tentava di gettarsi in mezzo alle larghe foglie delle victorie o fra i gruppi di canne, ma Garcia con due o tre randellate, applicate senza misericordia, la costringeva a mantenere una linea pressochè diretta.

La povera bestia, pazza di paura, nuotava rapidissima. Una buona scialuppa montata da due rematori non sarebbe andata più lestamente.

— Va a meraviglia, — disse Garcia, dopo d’aver dato uno sguardo alla riva, più prossima che come si disse, distava dall’isolotto almeno tre miglia. — Se continua così fra una mezz’ora e anche meno, approderò.

Ritirò le gambe, accomodandosi meglio che potè sul largo guscio, si mise l’archibugio armato sulle ginocchia, la scure dinanzi e guardò verso l’isolotto. [p. 93 modifica]

Alvaro, ritto sulla riva col fucile in mano, lo seguiva cogli sguardi, evidentemente soddisfatto della sua trovata.

— Andrò a prenderlo presto, — si disse il mozzo. — Una zattera non è difficile a costruirsi quando si ha una buona scure e del legname in abbondanza, e vedo che gli alberi non mancano sulle rive della palude.

La testuggine continuava la sua corsa, sbuffando. Non cercava più di cacciarsi in mezzo alle victorie e alle canne temendo probabilmente di provocare da parte del suo strano cavaliere una tempesta di legnate.

Già un buon miglio era stato attraversato, quando il mozzo s’accorse di essere seguito da un paio di caimani.

Le brutte bestiaccie si tenevano quasi interamente sommerse, non mostrando che l’estremità del muso e le piante acquatiche che erano cresciute sul loro dorso, sperando di avvicinarsi inosservati, ma il mozzo che guardava anche alle spalle si era subito accorto della loro presenza dalla scia che si lasciavano indietro.

Si tenevano però ad una distanza di quaranta o cinquanta passi e pareva, che almeno pel momento, non avessero alcuna intenzione di assalirlo. Probabilmente erano molto sorpresi e fors’anche inquieti e non riuscivano a rendersi un conto esatto che cosa fosse quello strano cavaliere che pareva galoppasse sulle acque della savana.

— Ecco una scorta pericolosa che rimanderei volentieri, — disse Garcia più seccato che atterrito. — Che vogliano mangiare le zampe al mio cavallo? Fortunatamente ci sono qui io a difenderlo.

Ritirò più che potè i piedi e armò l’archibugio, risoluto a servirsene se i due rettili avessero dato segno di intenzioni aggressive.

La testuggine, come se si fosse accorta del pericolo, aveva raddoppiata la corsa. Anzi di quando in quando volgeva il capo verso il mozzo come per chiedergli protezione.

I due jacarè non pareva che avessero fretta ad assalire. Seguivano però sempre la testuggine nella sua corsa disordinata, mostrando talvolta le loro mascelle armate di formidabili denti. Garcia cominciava ad inquietarsi ed a trovarsi anche a disagio. La riva era ancora lontana più d’un miglio e mezzo ed in quella parte della savana non si scorgeva alcun isolotto su cui rifugiarsi nel caso che la povera testuggine venisse assalita e privata delle sue zampe. [p. 94 modifica]

— Come la finirà? — si chiedeva il ragazzo che cominciava a spaventarsi. — Quelle due bestiaccie non mi sembrano disposte a lasciarci. Se con un colpo di coda mi gettassero giù?

Si volse e vide con terrore che uno dei due jacaré, il più grosso, cominciava ad affrettare la corsa e mostrare il rugoso dorso. Certo si preparava per l’attacco.

— Proviamo ad arrestarlo, — disse il mozzo.

Prese l’archibugio, versò alcuni granelli di polvere nello scodellino onde essere più sicuro del colpo e alzatosi sulle ginocchia mirò il caimano il quale non si trovava ormai che a quindici passi e che teneva le mascelle aperte.

— Imiterò il signor Alvaro, — disse il coraggioso ragazzo.

E fece fuoco nella gola spalancata del mostro.

Udendo lo sparo la testuggine fece un soprassalto così brusco, che per poco il mozzo non fu precipitato in acqua. Ebbe appena il tempo di appoggiarsi sulle canne e di riafferrare l’archibugio che gli era sfuggito dalle mani.

L’jacaré che aveva ricevuta la scarica in piena gola, aveva fatto un salto enorme, slanciandosi quasi tutto fuori dall’acqua, poi era ricaduto contorcendosi furiosamente e avventando a destra ed a manca formidabili colpi di coda.

Dalla gola, che doveva essere stata attraversata dal grosso proiettile, il sangue gli usciva a fiotti arrossando le acque.

Il suo compagno, spaventato certo dallo sparo, si era subito inabissato scomparendo in mezzo ad un gruppo di victorie regie.

— Al galoppo! — gridò il mozzo con voce lieta, tempestando il guscio della testuggine.

La mydas non aveva bisogno di essere incoraggiata. Pazza di terrore fuggiva disordinatamente dirigendosi verso la riva la quale si delineava ormai nettamente colle sue altissime piante.

In meno di dieci minuti attraversò l’ultimo tratto della savana e salì la spiaggia arrestandosi, completamente esausta, dinanzi ai primi alberi.