L'Uomo di fuoco/9. Assediato dai pecari
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CAPITOLO IX.
Assediato dai pecari.
Il luogo ove il mozzo era così miracolosamente sbarcato, era ingombro di piante le quali probabilmente formavano il margine di quella immensa foresta, che si estendeva fino alla sponda della baia.
Splendidi palmizi, dal tronco esilissimo, che si slanciavano in alto per quindici o venti metri, crescevano accanto alle tocuma dalle lunghe spine, alle jacatara che quantunque appartengano alla grande famiglia delle palme diventano liane, avviticchiandosi ai tronchi degli alberi, mentre sotto quella folta cupola di verzura che impediva ai raggi solari di giungere fino al suolo, s’intrecciavano in una confusione indicibile, superbe bromelie dai ricchi racemi a fiori scarlatti, orchidee meravigliose, passiflore felci epifite e sipo grossissime ed interminabili.
Numerosi volatili schiamazzavano e garrivano fra i rami, specialmente dei bellissimi cardinali dalla testa rossa e dei casarito, specie di tordi che invece di nidificare sugli alberi come quasi tutti gli altri uccelli, costruiscono sul suolo una specie di cupola coll’entrata a labirinto.
Il mozzo dopo aver legata la testuggine al tronco d’un albero, si era inoltrato sotto la foresta per cercare innanzi a tutto un po’ d’acqua o per lo meno delle frutta che potessero spegnergli l’ardente sete che lo tormentava.
Trovare delle frutta era forse più facile che un torrente, essendo quel terreno assai secco, quantunque protetto dal quel caos di foglie immense e di festoni di liane, sicchè il mozzo che non osava spingersi molto lontano e che aveva anche molta fretta di costruire la zattera, si mise a esaminare le piante.
Aveva percorso due o trecento metri, quando si arrestò dinanzi ad un albero enorme, ricco di rami e di foglie e carico di frutta enormi, grosse come zucche, colla corteccia giallastra e irta di protuberanze.
— Speriamo che quelle frutta siano commestibili, mormorò il mozzo.
Si era aggrappato ad una liana che scendeva da un ramo, quando un rumore strano che veniva da un folto gruppo di cespugli, lo arrestò perplesso.
— Che vi siano degl’indiani qui? — si chiese con ansietà.
Il rumore aumentava. Pareva che piuttosto che un uomo, qualche animale stridesse i denti o li battesse fortemente gli uni contro gli altri. Garcia, lo abbiamo già veduto alla prova, possedeva un coraggio veramente eccezionale in un ragazzo della sua età, tuttavia si sentiva il cuore battere precipitosamente come se volesse uscirgli dal petto.
D’altronde anche un uomo che si fosse trovato solo, in mezzo a quella foresta che poteva nascondere mille pericoli, abitata oltre che da mangiatori di carne umana anche da belve non meno sanguinarie dei selvaggi, non si sarebbe certamente mantenuto tranquillo.
Con una mano stretta alla liana e coll’altra armata dell’archibugio, Garcia ascoltava attentamente cercando di spiegarsi le cause di quei rumori.
Ad un tratto udì dei grugniti, poi uno scricchiolare di rami.
— Che vi siano dei cinghiali qui? — si domandò, cominciando a tranquillizzarsi. — E perchè no? Ve ne sono anche da noi e mi hanno anche detto che valgono quanto i maiali.
Che bella sorpresa pel signor di Correa se gliene portassi uno! —
Un po’ rassicurato, si nascose dietro il tronco dell’albero, tenendo il dito sul grilletto dell’archibugio.
La sua attesa non fu lunga. I folti cespugli si erano aperti per lasciare il passo ad un animale che rassomigliava e che aveva anche la statura d’un cinghiale.
Se Garcia avesse avuto qualche conoscenza sugli animali che infestavano le immense foreste del Brasile, si sarebbe ben guardato dall’affrontare quel cinghiale.
Era un pecari tajasou, un porco selvatico, dei più pericolosi e che non teme di assalire l’uomo anche se non viene importunato.
Questi animali che in quell’epoca erano numerosissimi e che ora s’incontrano solamente nelle selve dell’interno, non vanno mai soli. Emigrano a branchi che sovente si compongono di cinquanta e perfino di cento capi, e guai a chi osa assalirli o anche semplicemente attraversare loro la via.
Piombano sull’imprudente con furore indescrivibile e servendosi delle loro unghie e solidissime zanne in un momento lo fanno a pezzi.
Garcia che credeva di aver dinanzi un semplice cinghiale e che voleva assicurarsi una succolenta cena, senza sacrificare la testuggine, che poteva costituire una preziosa riserva, non esitò più.
Puntò l’archibugio e fece fuoco sul pecari che si era arrestato a quindici passi, per dissotterrare una radice.
L’animale, attraversato da parte a parte dal proiettile, stramazzò in mezzo ai cespugli mandando un urlo acutissimo che si ripercosse lungamente sotto le folte vôlte di verzura.
Il mozzo, felice di quel successo, stava per slanciarsi onde finirlo a colpi di scure, quando udì un fracasso indiavolato. I rami Un uomo era comparso fra due macchie di arbusti, e li guardava, sorridendo.... (Cap. XI). dei cespugli cadevano falciati come se cento coltelli li tagliassero, le foglie volavano in aria, mentre da tutte le parti echeggiavano grugniti e urla furiose.
— Che abbia commesso una corbelleria? — si chiese il mozzo.
Si gettò l’archibugio sulle spalle e s’aggrappò lestamente alla liana per mettersi in salvo sull’albero.
Si era appena innalzato di tre o quattro metri quando vide irrompere, colla velocità d’una tromba, una cinquantina di cinghiali.
Parevano in preda ad una collera terribile. Avevano le setole irte, i codini alzati che dimenavano disordinatamente e gli occhi accesi.
Giunsero in un lampo addosso all’albero, che subito circondarono ed i più vicini s’alzarono sulle zampe deretane, mordendo ferocemente la corteccia e la liana che aveva servito al ragazzo per innalzarsi.
Gli altri invece saltavano come se fossero indemoniati, ora correndo verso il loro compagno che era già spirato ed ora tornando verso l’albero coi segni della più viva irritazione.
Guardavano ferocemente il mozzo, coi loro occhietti neri che la collera rendeva scintillanti e battevano le loro lunghe zanne le une contro le altre, producendo un fracasso impossibile a descriversi. Garcia che si era messo al sicuro su un grosso ramo e che aveva avuto il tempo di portare con sè l’archibugio, non si era molto spaventato per quell’improvvisa aggressione. Infine quei cinghiali non avevano unghie per potersi arrampicare e di lassù poteva ridersene della loro collera.
— Quando si saranno persuasi dell’inutilità dei loro sforzi, se ne andranno, — si era detto il bravo ragazzo.
S’ingannava e quanto! Se vi sono degli animali testardi e vendicativi all’eccesso, sono appunto i pecari brasiliani.
Dopo i primi sfoghi di collera, avevano lasciata in pace la corteccia dell’albero, convinti che non sarebbero mai riusciti a rodere quel tronco enorme, ma si erano sdraiati a breve distanza coll’evidente intenzione di assediare il ragazzo.
— Eccomi in un bell’impiccio, — mormorò Garcia, che cominciava ad inquietarsi. — Che cosa penserà il signor Alvaro non vedendomi comparire? Se questo assedio si prolungasse? E quel bravo signore non è meno assetato di me?
Vivaddio! Ho il fucile e le munizioni non mi fanno difetto.
Proviamo a disperdere questi noiosi porci. Quando ne avrò ammazzati quattro o cinque, spero che si decideranno ad andarsene e lasciarmi costruire la zattera.
Ricaricò l’archibugio, si mise a cavalcioni del ramo e fece fuoco contro un vecchio maschio che pareva il più furibondo di tutti e che saltellava attorno al tronco, strappando di quando in quando larghi pezzi di corteccia.
Vedendolo cadere, tutta la banda, anzichè fuggire spaventata, balzò verso l’albero con un urlìo spaventevole piantando le zanne nel legno.
Il mozzo con una terza archibugiata fece scoppiare la testa ad un altro pecari non ottenendo altro che di far raddoppiare il furore dei superstiti.
Stava per continuare le fucilate, quando un pensiero lo trattenne.
— E se questi spari venissero uditi dai selvaggi? Preferisco sostenere l’assedio di questi cinghiali piuttosto che di veder accorrere i mangiatori di carne umana.
Povero signor Alvaro! Come sarà inquieto udendo queste fucilate! Alla malora questi animalacci e la loro cocciutaggine. Orsù, armiamoci di pazienza e aspettiamo la notte. Quando dormiranno tenterò di andarmene alla chetichella.
Intanto proviamo queste frutta. —
Si spinse verso l’estremità del ramo dove ne penzolavano parecchie, grosse come la testa d’un bambino e con un colpo di scure ne spaccò una.
Nell’interno conteneva una polpa giallastra, somigliante a quella delle zucche, ma più tenera e un po’ acquosa.
— Se queste non sono zucche, saranno qualche cosa di simile, — disse. — Spero che calmeranno la mia sete e anche la fame.
Si provò a trangugiare un boccone di quella polpa e la trovò dolciastra e tutt’altro che cattiva. Se avesse avuto un po’ di fuoco per arrostirla l’avrebbe gradita ben di più, poichè il caso lo aveva condotto su un fructa de pao o meglio su un albero del pane. Ignorando però che specie di frutta fossero, si accontentò di fare una scorpacciata di polpa cruda, calmando ad un tempo la sete e anche la fame che cominciava a tormentarlo.
Durante quel pasto i pecari non avevano cessate le loro dimostrazioni ostili e non solo verso il mozzo, bensì anche verso i loro compagni morti i quali erano stati ridotti a brani.
Sfogatisi un po’ erano tornati a disperdersi, senza però allontanarsi troppo dal fructa de pao onde essere pronti ad impedire la fuga all’assediato.
Anzi di quando in quando tornavano furibondi, galoppavano intorno alla pianta, urlando come se venissero scannati, poi tornavano in mezzo ai cespugli cercando bacche e radici.
Il mozzo cominciava ad averne fino sopra i capelli di quell’assedio che minacciava di prolungarsi indefinitamente. Non già che fosse inquieto per se stesso, ma pel povero Alvaro che doveva trovarsi alle prese colla sete e colla fame.
Già due o tre volte si era provato a scendere, credendo che i pecari si fossero allontanati, ma appena si aggrappava alla liana li vedeva subito tornare al galoppo. Anche cercando le bacche e le radici lo sorvegliavano attentamente.
La giornata trascorse così in continue ansie pel povero ragazzo, il quale trovava le ore eternamente lunghe ed il sole molto pigro. Il suo pensiero era sempre rivolto al signor di Correa che doveva ben impazientirsi di quell’inesplicabile ritardo, e crederlo fors’anche morto.
Finalmente anche il sole tramontò e le tenebre invasero bruscamente la foresta.
Il mozzo vide con gioia che i pecari cominciavano a coricarsi fra i cespugli che circondavano l’albero. Quei testardi non volevano però ancora levare l’assedio, più che mai risoluti a vendicare i loro compagni.
— Pare impossibile! — esclamò il mozzo. — Se fossero uomini comprenderei la loro cocciutaggine, ma delle bestie! Il signor Alvaro stenterà a credere che io sia rimasto assediato per tanto tempo.
Attese un paio d’ore prima di osare di muoversi, temendo che quei maledetti animali avessero collocato delle sentinelle presso l’albero, poi caricò l’archibugio, si appese alla cintura un paio di frutta dell’albero del pane e la scure e lasciò silenziosamente il ramo, aggrappandosi a delle liane che giungevano fin presso il suolo.
Al di sotto tutto era silenzioso. Non udiva che in lontananza i fischi e gli stridi prolungati delle parraneca che dovevano essere numerose nell’immensa palude.
Si lasciò scivolare dolcemente lungo la liana, soffermandosi di quando in quando per ascoltare, poi rassicurato dal silenzio, continuò la discesa finchè toccò il suolo.
I pecari non si erano svegliati; russavano tranquillamente in mezzo ai cespugli.
Impugnò l’archibugio per la canna e si allontanò adagio adagio, dirigendosi verso la palude. Appena fu ad un due o trecento passi, abbandonò ogni precauzione e partì a corsa disperata.
In pochi minuti giunse là dove aveva lasciata la tartaruga. Anche il rettile dormiva colla testa affondata entro il guscio.
— Lasciamola qui per ora; la imbarcherò più tardi onde impedire alle belve, che qui non devono mancare, di divorarmela.
Temendo di essere ancora troppo vicino ai pecari, continuò la corsa per un quarto d’ora, arrestandosi sulle rive di una caletta circondata d’alberi.
— Sbrighiamoci, — disse il bravo ragazzo. — Il legname qui non manca e la luna comincia ad alzarsi.
Appoggiò il fucile al tronco d’un albero e cercò innanzi a tutto delle liane che gli erano necessarie per la costruzione della zattera.
Non aveva che da scegliere, essendo tutti gli alberi circondati da sipos. Ne fece una buona provvista, poi avendo scorto a breve distanza dalla riva un gruppo di quegli altissimi bambù chiamati dai brasiliani taquara, che sono grossi quanto la coscia d’un uomo e leggerissimi, ottimi soprattutto per servire alla costruzione dei galleggianti, li assalì vigorosamente abbattendone una dozzina.
Il materiale era più che sufficiente per una zattera capace di reggere due persone.
Li trasportò senza fatica sulla spiaggia e li mise in acqua, legandoli con liane. Lavorava così destramente e così rapidamente che mezz’ora dopo il galleggiante era pronto a prendere il largo.
Con due lunghi rami improvvisò due remi e puntando con tutte le sue forze si diresse innanzi a tutto là dove si trovava la testuggine. Con quattro poderose randellate la svegliò e un po’ spingendola ed un po’ trascinandola, la costrinse ad imbarcarsi.
— Ci teneva troppo il signor Alvaro a questa bestia o meglio alla sua carne, per abbandonarla alle belve od agl’indiani. Avremo il pranzo assicurato per tre o quattro giorni. —
Poi si spinse risolutamente al largo, ansioso di giungere all’isolotto.
La luna che era allora sorta e che brillava in un cielo purissimo, riflettendo i suoi raggi sulle acque della palude, gli permetteva di dirigersi facilmente.
Gl’isolotti spiccavano nettamente sulla superficie argentea formando delle enormi macchie brune che si potevano distinguere senza bisogno di cannocchiali.
Il mozzo, approfittando della poca profondità delle acque, verso la mezzanotte giungeva in mezzo alla palude.
In quel momento su uno degli isolotti vide un grosso punto luminoso brillare fra le piante che lo coprivano.
— Deve essere il signor Alvaro, — pensò.
Ad un tratto cessò di remare e fece un gesto di sorpresa e anche di spavento.
— Ma no, — disse. — Quel fuoco non arde sull’isolotto che ci serviva di rifugio. No, brucia su un altro. Il nostro si trova laggiù, più all’ovest, se non m’inganno; lo scorgo benissimo ed era il solo che avesse quella forma allungata. —
Un sudore freddo gli bagnò il viso mentre un’angoscia profonda gli stringeva il cuore.
— Che i selvaggi siano giunti qui, che abbiano sorpreso il signor Alvaro? Quegli isolotti non erano abitati che da volatili e che io sappia gli uccelli non hanno mai imparato ad accendere il fuoco. —
I terrori del povero ragazzo erano giustificati. Chi poteva aver approdato su quell’isolotto se non dei selvaggi? Il signor Alvaro non doveva aver lasciato il suo non avendo a sua disposizione legname sufficiente per costruire una zattera, anche minuscola.
— Che vi si sia recato a nuoto? — si chiese Garcia. — No, non credo che abbia avuto l’audacia di commettere una simile imprudenza sapendo che la palude è abitata da caimani e anche da enormi serpenti. —
Rimase parecchi minuti perplesso, poi prese risolutamente il suo partito.
— Andiamo all’isolotto, innanzi a tutto, — disse. — Se non troverò colà il signor Alvaro, mi accosterò cautamente all’altro e vedrò chi avrà acceso quel fuoco. —
Girò al largo per non farsi scorgere e si diresse verso l’altro il quale si trovava a circa cinquecento metri dal primo, un po’ verso l’ovest.
In dieci minuti attraversò la distanza e s’accostò prudentemente alla riva. Era certo di non essersi ingannato perchè aveva subito riconosciute quelle tenacissime piante che avevano guastato il filo della scure.
Affondò una pertica nel fango, legò la zattera, armò l’archibugio e salì silenziosamente la riva, aprendosi il passo fra le canne.
Giunse in mezzo ai pao de ferro, dove il giorno innanzi avevano acceso il fuoco e cucinate le traira e non vide nessuno.
Il fuoco era spento, forse da molte ore poichè la cenere era ormai fredda. Garcia provò una stretta al cuore e impallidì.
— Che cosa è dunque successo al signor Alvaro? — si chiese, con crescente angoscia. — Ah! Mio Dio che cosa farò io solo, perduto nelle foreste americane? —